ATEISMO

 

ATEISMO

A. nel senso corrente del termine si riferisce alla negazione dell’esistenza di Dio e alla conseguente impostazione dell’esistenza umana senza diretto riferimento a Dio o alla religione. La diffusione dell’A. nelle sue diverse espressioni è tale che la C. non può trascurare di affrontare il problema e di preparare il cristiano a vivere in una società pluralista in cui diverse forme di A. sono attivamente presenti.

1.​​ Tre radici fondamentali dell’ateismo contemporaneo.​​ Indipendentemente dalle numerose distinzioni e varianti che vengono recensite nelle opere specializzate (cf bibl.), si possono identificare tre radici maggiori dell’A. nell’epoca contemporanea.

a)​​ La​​ inutilità di Dio​​ come ipotesi di spiegazione del mondo e di soluzione dei problemi storici. Nelle sue prime formulazioni (Feuerbach, razionalismo francese, marxismo ufficiale, ecc.), l’ipotesi Dio come “spiegazione” viene radicalmente rifiutata. La fede in Dio viene contrapposta, come soluzione anti-scientifica, alle scienze empiriche e alla filosofia razionale che spiegano i problemi del mondo e della realtà in base a fattori intramondani. Di volta in volta si insiste sulla radicale inutilità dell’ipotesi Dio, sulla sua infondatezza, sul carattere non scientifico o anti-scientifico. Il cosiddetto A. “scientifico” ha cercato di trovare nelle stesse scienze presunti argomenti per dimostrare che Dio non esiste e che l’ipotesi Dio non ha senso. Nell’ultima fase di questo A. molti non fanno nemmeno uno sforzo per dimostrare che Dio non esiste. Tentano semplicemente di costruire una società in cui Dio non ha nessun posto e nessuna funzione, e in cui per la vita umana e per la società non sembra avere importanza se Dio esiste o non esiste.

b)​​ La seconda radice dell’A. contemporaneo è costituita dal presunto​​ conflitto tra l’autonomia dell’uomo e la fede in Dio.​​ Non si tratta più semplicemente di negare l’utilità e la funzionalità dell’ipotesi Dio, ma di rivendicare la negazione di Dio per poter affermare l’autonomia e la libertà dell’uomo. Nella linea di M. Merleau Ponty, A. Camus, J. P. Sartre ed altri si parla di una inconciliabile contrapposizione tra l’affermazione di Dio e la realtà dell’uomo e della storia. Poiché non si può in nessun modo rinunciare alla dignità dell’uomo, alla sua autonomia, alla sua libertà, alla responsabilità per la storia... si procede alla negazione di Dio.

Sul piano della conoscenza si insiste frequentemente sul fatto che, se Dio esiste, le soluzioni dei problemi sono già scritte nel quaderno del maestro; di conseguenza la faticosa ricerca dell’uomo per comprendere e spiegare scientificamente la realtà, come pure i suoi millenari sforzi per risolvere i problemi concreti della vita e della storia, non potrebbero che apparire un gioco inutile e crudele. Inoltre, se Dio esiste, gli uomini portano in sé una “natura” umana nella quale stanno già scritti tutti i valori e tutte le linee della umanizzazione dell’uomo; conseguentemente non vi sarebbe nessuna libertà e creatività da parte dell’uomo. Se Dio esiste, la Provvidenza divina ha già determinato tutto e da essa l’uomo dipende radicalmente; la sua autonomia e la sua libertà sarebbero puramente illusorie.

In questi indirizzi di A. si insiste ad oltranza sulla libertà e creatività dell’uomo, sulla capacità e la necessità di stabilire, in radicale autonomia, le linee dell’umanizzazione dell’uomo, sulla assoluta responsabilità dell’uomo di fronte alle proprie scelte, ecc.

c)​​ La terza radice dell’A. contemporaneo è​​ "desistenza del male e della sofferenza.​​ Si tratta indubbiamente della più vecchia radice di A. presente nella storia. Oggi, dopo Auschwitz e le assurde guerre mondiali, la massiccia presenza del “non senso” e dell’assurdità sembra tale che l’intera esistenza umana possa venire interpretata come radicale contingenza (J. P. Sartre): è assurdo che siamo nati; è assurdo che si muore... Altri sono colpiti soprattutto dalla sofferenza degli innocenti, in particolare dei bambini (A. Camus) e si domandano come l’esistenza di un Dio buono e onnipotente potrebbe conciliarsi con l’immensa sofferenza degli innocenti. Anche tra i credenti più di uno si dà il consiglio di non pensarci troppo per non perdere la fede...

2.​​ Compiti della C. nei confronti dell’A.​​ Alcune espressioni classiche dell’A. (Feuerbach, razionalismo, materialismo...) sono superate dal tempo ed è meglio lasciarle riposare nei diffìcili libri di pensatori e filosofi elitari. Molte forme di A. sono però massicciamente presenti nel pluralismo culturale occidentale. Anche la C. e l’evangelizzazione vengono investite dalla loro presenza.

a)​​ È anzitutto necessario avere il coraggio di affrontare il problema dell’A. specie a livello della C. giovanile e nella C. degli adulti. L’atteggiamento di paura e di fuga, che attualmente tenta una parte della C. e minaccia di rinchiuderla nella Bibbia, nella liturgia e nella spiritualità, non prepara i cristiani a vivere con adeguata sicurezza e serenità la loro fede.

b)​​ Non basta dire che l’A. è falso, pernicioso e condannato dalla Chiesa. Occorre illuminare l’intelligenza e far vedere la infondatezza dei suoi argomenti e gli equivoci sui quali è basato.

Da un lato occorre mettere in luce che ognuna di queste forme di A. prende le mosse da una falsa rappresentazione di Dio, in cui egli perde la sua misteriosa trascendenza e appare come immediato e temibile concorrente intramondano dell’uomo. Va illustrato che qualsiasi estrapolazione delle scienze empiriche per dimostrare la non esistenza di Dio è un atteggiamento profondamente antiscientifico.

Da un altro lato bisogna sottolineare che ciò che viene combattuto dall’A. non è il vero volto di Dio, ma le false rappresentazioni di Dio. Paradossalmente anche il credente combatte queste false rappresentazioni, e dalle critiche atee può ricavare argomento per purificare la propria rappresentazione di Dio. Inoltre va riconosciuto che non solo l’A. critica la (falsa) religione, ma anche la Bibbia conosce una lunga tradizione di critica della religione. Basta pensare alla critica della religione eccessivamente rituale, senza adeguata interiorizzazione di atteggiamenti e di conversione del cuore; oppure alla critica di ogni atteggiamento religioso separato dalla pratica della giustizia (in senso ampio) verso i fratelli (cf Matteo c. 25). La stessa predicazione di Gesù è segnata da uno sforzo consistente per correggere gli errati modi di pensare Dio che incontrava presso i suoi con temporanei. La diffusione dell’A. invita comunque a riflettere (cf GS 19-21) fino a che punto gli stessi credenti abbiano contribuito a mantenere in vita false rappresentazioni di Dio e distorte pratiche religiose, e come si possano eliminare nell’insegnamento e nella pratica cristiana i fattori che favoriscono la persistenza dell’A.

In questo contesto è anche necessario riflettere seriamente sulle conseguenze della liquidazione della fede in Dio e della religione. La stessa umanizzazione dell’uomo, che molti atei cercano comunque seriamente, si relativizza terribilmente e in ultima analisi viene compromessa nella sua radice. Se l’uomo non riconosce più al di sopra di sé il Trascendente, allora in ogni momento è radicalmente alla mercé del dittatore o del potente di turno. La giustizia finale e il senso definitivo dell’esistenza vengono radicalmente compromesse e non ricevono in alcun modo una risposta adeguata nella storia.

c)​​ L’A. va preso sul serio, anche perché si innesta su problemi e difficoltà realmente presenti nell’esistenza umana e che comunque, in qualche momento della vita, si presentano al credente. Questo vale in modo particolare per le radici dell’A. di cui sopra. L’A. non crea e non inventa questi problemi, ma li assolutizza. Ogni credente deve confrontarsi con essi per rendere meglio conto della propria fede e cogliere più a fondo il senso dell’annuncio evangelico.

d)​​ La massiccia presenza dell’A. rende indispensabile una maggiore attenzione della C. a tutti i problemi che appartengono tradizionalmente alla teologia fondamentale e all’apologetica. La giustificazione della fede in Dio, e le sue indiscutibili radici nell’uomo vanno prese molto sul serio. A questo fine non serve molto la presentazione materiale e astratta delle cinque vie di san Tommaso. L’intera educazione, fin dalla fanciullezza, deve sviluppare l’attenzione al mistero trascendente della realtà e cercare di riconoscere la presenza delle tracce di Dio nella realtà.

e)​​ La risposta adeguata del cristianesimo all’A. non è mai solamente intellettuale (filosofica, antropologica, teologica). Essa deve anche essere concretizzata nel cristianesimo vissuto. Il credente deve impegnarsi a fondo per il progresso scientifico e tecnologico, per la umanizzazione dell’uomo, per una liberazione profonda in ogni ambito della vita, per la creatività, per la lotta contro le diverse forme di male e di sofferenza, per la presenza nell’amore e nella diaconia presso i poveri, per la speranza dell’eternità che incita ad un fondamentale impegno nella storia.

Bibliografia

J. Blank et al.,​​ Dio e l’ateismo moderno,​​ Assisi, Cittadella, 1974; K.​​ Bockmühl,​​ Ateismo dal pulpito,​​ Roma, Ed. GBU, 1981; A. Dondeyne et al.,​​ Ateismo e secolarizzazione,​​ Assisi, Cittadella, 1969; C. Fabro,​​ Introduzione all’ateismo contemporaneo,​​ Roma, Ed. Studium 19692; G. Giannini,​​ Ateismo e filosofia,​​ Roma, Univ. Lateranense, 1970; E.​​ GiLARDI,​​ La scelta di Dio,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977; G. Girardi (ed.l,​​ L’ateismo contemporaneo,​​ 4 vol., Torino, SEI, 1967-1970; A. Gru.meli.i et al.,​​ Diagnosi dell’ateismo contemporaneo,​​ Brescia,​​ Paideia,​​ 1980; H. de Lubac,​​ Il dramma dell’umanesimo ateo,​​ Brescia, Morcelliana, 1949; V. Miano (ed.),​​ Ateismo e dialogo nell’insegnamento di Paolo VI,​​ Leumann-Torino, LDC, 1970; G. Molteni,​​ Riflessioni sull’ateismo,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1977; B. Mondin (ed.),​​ L’ateismo: natura e cause,​​ Milano, Massimo, 1981; E. Mounier et al.,​​ L'ateismo,​​ Roma, AVE, 1968; P. Pavan.​​ L'ateismo di massa in prospettiva storica,​​ Roma, Ed. Paoline, 1972; H. Pfeil,​​ La moderna irreligiosità e la responsabilità cristiana,​​ Leumann-Torino, LDC, 1968; C. Tresmontant,​​ I problemi dell'ateismo,​​ Roma, Ed. Paoline, 1973.

Joseph Gevaert

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ATEISMO

ATTEGGIAMENTI

 

ATTEGGIAMENTI

Il termine​​ atteggiamento​​ (attitude, actitud, Haltung) gode di un certo favore nell’ambito della riflessione e della prassi della C., soprattutto in rapporto agli obiettivi o → mete della C. Si parla in questo senso di suscitare, interiorizzare e maturare A. di → fede come l’obiettivo proprio dell’opera cat. E si può dire che parlare di C.​​ al servizio di A. di fede,​​ dove prima si diceva C. per le​​ conoscenze​​ della fede, caratterizza in qualche modo il rinnovamento avvenuto nei tempi recenti.

1.​​ Col termine​​ atteggiamento,​​ così com’è stato studiato dalle scienze psicologiche e sociali (e soprattutto dalla​​ psicologia sociale),​​ si intende generalmente una​​ disposizione,​​ un modo di essere, una​​ mobilitazione dinamica​​ della personalità che, nei confronti di una situazione di vita, coinvolge la sfera​​ conoscitivo-valutativa,​​ i processi​​ affettivi​​ e le tendenze​​ volitivo-operative:​​ “L’atteggiamento è più ampio della credenza: mentre quest’ultima si riferisce quasi unicamente alle fasi cognitive di una condotta, l’atteggiamento ingloba​​ momenti valutativi​​ ed una​​ disposizione prossima all’azione in armonia alle valutazioni date di una determinata situazione di vita,​​ non disgiunta da una intensa partecipazione emotivo-affettiva” (G. Milanesi 1970,​​ 6263).​​ . . '

Ci sono modi diversi di definire gli A., ma è abbastanza comune distinguervi​​ tre componenti​​ essenziali: quella​​ cognitiva​​ (conoscenze, informazioni, valutazioni, motivazioni); quella​​ affettiva​​ (sentimenti, emozioni, stati d’animo): e quella​​ conativa​​ o​​ comportamentale​​ (disposizione all’azione). Capita però alle volte di veder ridurre gli A. soltanto alla seconda componente (affettiva, cf J. E. Greer 1984).

2.​​ L’importanza e la convenienza di parlare di A. in sede cat. può risultare da diverse considerazioni:

— Da un punto di vista​​ teologico,​​ sembra possibile descrivere in termini di A. sia il fatto della​​ conversione,​​ sia il dinamismo cristiano centrale della​​ fede​​ (speranza e amore). In questo senso l’itinerario di crescita nella fede può essere descritto come un processo di interiorizzazione e maturazione di​​ A. di fede,​​ cioè di quell’insieme di conoscenze, valutazioni, sentimenti e disposizioni operative che contraddistinguono il modo cristiano di porsi davanti alla vita, di fronte alla realtà, alla luce e sull’esempio di Cristo.

— In sede di →​​ psicologia della religione​​ il concetto di A. è adoperato per esprimere il cammino della maturazione religiosa. Questo processo di maturazione può essere descritto come il passaggio dalla​​ religiosità spontanea​​ o dalla​​ credenza all’atteggiamento​​ religioso (cf G. Milanesi 1970; A. Vergole 1967,​​ 211213).

— Dal punto di vista​​ pedagogico,​​ risulta ricco di indicazioni operative e di valenza educativa il riferimento agli A. Questi infatti sono disposizioni non innate, ma​​ acquisite​​ (suscettibili quindi di influsso educativo); sono relativamente​​ stabili​​ (senza escludere la possibilità di cambiamento); e hanno generalmente il carattere della​​ centralità​​ nello sviluppo della personalità. Essi “hanno una funzione essenziale nel determinare il nostro comportamento: condizionano i nostri giudizi e le nostre percezioni, influenzano la nostra prontezza ed efficacia di apprendimento, ci aiutano a scegliere i gruppi ai quali unirci, le professioni che seguiamo e il nostro modo di vivere» (V. Volpe 1976, 141). Inoltre, l’esistenza negli A. delle tre componenti sopra citate permette anche di articolare l’intervento educativo ai livelli cognitivo, affettivo e comportamentale, in modo da poter ottenere il risultato, di grande valore pedagogico, della trasformazione e maturazione degli A.

3.​​ In rapporto alla C. il discorso degli A. interessa e incide concretamente da diversi punti di vista.

— In forma globale, non solo è possibile, ma ricco di indicazioni e conseguenze formulare gli obiettivi della C. in termini di A. di fede, in funzione cioè della conversione come atteggiamento fondamentale e delle conoscenze, disposizioni, affetti e comportamenti propri di un cammino di fede.

— In forma parziale e in sede di programmazione, si includono a volte gli A. come obiettivi da raggiungere, insieme agli obiettivi di ordine cognitivo (conoscenze) e di ordine operativo (azioni). In questo caso si parla di A. con riferimento quasi esclusivo alla componente​​ affettiva.

— In un orizzonte educativo più largo, si parla anche di A. in relazione alla C., in quanto questa deve influire e contribuire alla trasformazione e maturazione degli A. della persona, in vista di una sua crescita globale nel senso della fede.

Bibliografia

E.​​ Alberich,​​ Catechesi e prassi ecclesiale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 98-108;​​ J.​​ E.​​ Greer,​​ Attitudes,​​ in​​ J.​​ M.​​ Sutcliffe​​ (ed.),​​ A​​ Dictionary of Religious Education,​​ London, SCM Press, 1984, 30-32; G.​​ Milanesi,​​ Integrazione tra fede e cultura, problema centrale della pastorale catechetica,​​ in In.,​​ Ricerche di psico-sociologia religiosa,​​ Roma, PAS-Verlag, 1970, 61-75; R.​​ Tonelli,​​ Pastorale giovanile,​​ Roma, LAS, 1982, 160-168; A. Vergote,​​ Psicologia religiosa,​​ Torino, Boria, 1967; V. Volpe,​​ Atteggiamento,​​ in F. Demarchi – A. Ellena (ed.),​​ Dizionario di sociologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1976, 138-143; G. D. Wilson,​​ Atteggiamento,​​ in W. Arnold – I. J. Hysenck – R.​​ Meili​​ (ed.).​​ Dizionario di psicologia,​​ Roma. Ed. Paoline. 1975, 117-120.

Emilio​​ Alberich

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ATTEGGIAMENTI

ATTEGGIAMENTO

 

ATTEGGIAMENTO

È difficile trovare in letteratura una definizione univoca di questo concetto. Una classica è quella di​​ ​​ Allport (1935, 8) che lo intende come «uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza direttiva o dinamica sulla risposta dell’individuo nei confronti di tutti gli oggetti e situazioni con cui entra in relazione». Questa definizione risulta molto ampia ed implica diversi aspetti che meriterebbero ulteriori specificazioni; in essa, comunque, appare chiaro che l’a. è un costrutto ipotetico, non osservabile direttamente, ma da dedurre dal​​ ​​ comportamento manifesto di una persona.

1. Oggi per lo più ci si riferisce al costrutto di a. per indicare una predisposizione appresa a rispondere prontamente in un modo generalmente favorevole o sfavorevole ad un oggetto, persona, istituzione, simbolo o evento. Esso include tre componenti: una componente cognitiva (le​​ ​​ credenze) che riguarda la percezione, la descrizione personale dell’oggetto dell’a., indipendentemente dal fatto che essa sia vera o falsa, e che si basa sia sull’evidenza oggettiva che sulle opinioni personali; una componente affettiva, riguardante i sentimenti di piacere, o dispiacere, e le valutazioni favorevoli, o meno, nei confronti dell’oggetto; e una componente comportamentale, cioè la disposizione, la tendenza ad agire in un certo modo verso l’oggetto in questione. Vanno comunque considerate posizioni diverse. L’approccio comportamentista considera l’a. fondamentalmente come una disposizione a valutare positivamente, o meno, un oggetto, disposizione che si forma grazie a ripetute e sistematiche associazioni tra oggetto ed eventi positivi o negativi; in questo approccio, infatti, la formazione degli a. viene spiegata in base ai principi dell’apprendimento (condizionamento classico, rinforzo, osservazione). L’approccio funzionalista lega l’origine dell’a. ai​​ ​​ bisogni o alle funzioni a cui esso serve. Ad es., vengono riconosciute all’a. una funzione strumentale (aiuta ad ottenere ricompense o evitare punizioni nel mondo sociale), una conoscitiva (serve come struttura per gestire e acquisire conoscenze, organizzando e semplificando il notevole flusso informativo con cui ci si confronta), una difensiva (protegge e accresce l’immagine di sé). Dal momento che gli a. sono funzionali a soddisfare alcuni bisogni fondamentali, la loro componente valutativa è connessa a tali motivi, e cioè emerge un a. positivo verso un oggetto se i motivi di fondo sono soddisfatti rispondendo favorevolmente ad esso, e viceversa se la soddisfazione scaturisce da una risposta negativa. Un terzo approccio, socio-cognitivo, si è infine affermato negli ultimi decenni, in linea con l’attuale tendenza generale in psicologia a spiegare la condotta secondo una prospettiva cognitivista o dell’information processing;​​ secondo questo approccio, infatti, l’a. viene principalmente concettualizzato in termini di cognizioni, schemi, in quanto esso si fonda sulle credenze personali riferite ad un oggetto. Ogni credenza collega un oggetto a degli attributi positivi o negativi, e la disposizione valutativa dell’a. è la risultante di tutte le credenze riferite ad un oggetto; inoltre, in quanto schema, l’a. influenza l’elaborazione delle informazioni sociali sia a livello di ricerca attiva e di codifica (percezione, giudizi) di informazioni collegate all’a., che di recupero di esse dalla memoria. Le credenze e, quindi, gli a. relativi al mondo sociale derivano dall’esperienza diretta con un oggetto, dalle informazioni acquisite nel processo di​​ →​​ socializzazione tramite famiglia, gruppi di riferimento, mezzi di​​ ​​ comunicazione di massa, e dalle inferenze elaborate sulla base di informazioni già possedute; insieme a tutto ciò, si deve tenere conto delle variabili personali che intervengono a modulare la percezione dei messaggi sociali ricevuti.

2. Oltre a spiegare la formazione degli a., gli psicologi sociali ne hanno studiato le conseguenze, soprattutto per verificare l’influenza da loro esercitata sul comportamento sociale. Fino agli anni ’60 si dava per scontato che tale costrutto potesse spiegare e predire la condotta sociale, ma da una serie di studi è emersa una scarsa correlazione tra a. espressi verbalmente e successivo comportamento manifestato. Gli studiosi hanno dunque dovuto riconsiderare il rapporto tra a. e comportamento, concludendo che da un lato, l’espressione verbale di un a. va posta in relazione, più che con una singola condotta, con un insieme di misure di comportamenti attuati nei confronti della classe di oggetti dell’a., e dall’altro, che per predire una singola condotta a partire dall’a. è necessario chiedere alla persona di esprimere il suo a. in merito alla condotta specifica in questione (ad es.: donare il sangue), e non rispetto ad un ambito generale (ad es.: solidarietà). D’altra parte, bisogna tener presente che nell’attuazione di una condotta intervengono anche tanti fattori situazionali e personali. In questa linea Fishbein e Ajzen (1975) hanno proposto la teoria dell’azione ragionata, secondo cui un’azione è determinata dalle intenzioni comportamentali del soggetto; a loro volta le intenzioni dipendono dall’a. verso quella specifica condotta (composto dalle credenze sulle conseguenze di quel comportamento e dalla valutazione personale di queste), dalle credenze normative personali e sociali, e dalla motivazione a conformarsi a tali norme. Seguendo tale prospettiva interattiva e facendo riferimento allo specifico a. comportamentale, è possibile rendere più accurata, come è stato confermato da ricerche successive, la previsione di una condotta.

3. Essendo un costrutto ipotetico, non osservabile, l’a. viene inferito misurando le risposte cognitive, affettive e conative ad esso connesse. Di solito, per misurare un a., si usano metodi diretti nei quali i soggetti sono interrogati direttamente in merito ad un oggetto; tra questi metodi, oltre ad usare singole domande in cui le persone sono invitate ad esprimere la loro posizione (d’accordo, non d’accordo, incerto) circa affermazioni positive o negative su un oggetto, molto spesso si usano scale di misurazione come la scala Likert (una serie di affermazioni rispetto alle quali va indicato il grado di accordo, o meno, su una scala di 5 o 7 punti), e il differenziale semantico, in cui si invita a valutare l’oggetto dell’a. rispetto ad una serie di aggettivi bipolari (es.: buono - cattivo), in cui il centro del continuum esprime l’eventuale neutralità. Sono stati elaborati anche dei metodi indiretti (ad es.: test proiettivi, rilevazione parametri fisiologici), soprattutto quando gli a. toccano questioni delicate e si prevede un’alta probabilità di contraffazione delle risposte alle domande dirette; tali metodi, tuttavia, possono a volte implicare problemi etici e spesso si rivelano poco affidabili. Data la rilevanza degli a. in molti ambiti della vita sociale, molti studiosi si sono interessati, anche al fine di migliorare la convivenza civile, a come essi possano essere cambiati. In proposito ci sono molti modelli, tra cui ad es., il modello della comunicazione persuasiva (McGuire, 1985) che spiega l’effetto persuasivo di un messaggio sulla base di 5 processi: attenzione, comprensione, accettazione, ritenzione, azione.​​ Sempre in ambito cognitivista ci sono le teorie dell’equilibrio (Heider, 1946) e della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), basate sull’assunto che si ha il bisogno di mantenere la coerenza tra gli elementi della propria struttura cognitiva; tale bisogno spiegherebbe sia la stabilità che il cambiamento di un a.: mentre da una parte si tende a selezionare le informazioni a seconda se sono congruenti o meno con il proprio quadro di riferimento, dall’altra, qualora si venisse a creare un’incongruenza a seguito di nuove esperienze o dati, mutare a. sarebbe uno dei modi per ristabilire lo stato di equilibrio. In sintesi, i diversi modelli ipotizzano due percorsi di elaborazione delle informazioni quando si cambia a.: uno centrale, sistematico, in cui ci si sofferma a riflettere sui dati a disposizione, e uno periferico, con meno attenzione, basato su euristiche quali ad es. fidarsi di chi parla se lo si ritiene esperto o simpatico (Petty-Cacioppo, 1981; Eagly-Chaiken, 1993). Alcuni considerano tali percorsi come aspetti in un unico percorso, con processi più o meno elaborati a seconda della motivazione, dello stato emotivo, e delle abilità cognitive delle persone (Cavazza, 2005).

4. Va accennato, infine, che gli a. sono stati studiati anche in ambito educativo. In proposito si è particolarmente evidenziata l’importanza degli a. relazionali degli​​ ​​ educatori al fine di promuovere un efficace​​ ​​ rapporto educativo (Franta, 1995): il comportamento relazionale degli educatori, tenendo conto dei loro a. di fondo nei confronti dell’educazione e delle persone in divenire con le quali si relazionano, è stato analizzato in base all’a. emozionale e socio-operativo. Il primo riguarda la creazione di un positivo contatto affettivo con gli educandi volto a valorizzarli, rapporto che risulta fondamentale sia alla loro crescita che alla costruzione di un’adeguata piattaforma educativa; il secondo riguarda la realizzazione del ruolo di guida e di controllo da parte dell’educatore, della sua funzione regolativa e orientativa al fine di favorire l’autosupporto negli educandi. Tale funzione può essere svolta secondo uno stile autoritario, lassista, o autorevole, e quest’ultimo, dagli studi in proposito, risulterebbe essere il più costruttivo per l’​​ ​​ educando.

Bibliografia

Allport G. W., «Attitudes», in C. M. Murchison (Ed.),​​ A handbook of social psychology,​​ Worchester, Clark University Press, 1935, 798-844; Heider F.,​​ Attitudes and cognitive organization,​​ in «Journal of Psychology» 21 (1946) 107-112; Fishbein M. -​​ I.​​ Ajzen,​​ Belief attitude,​​ intention,​​ and behavior: an introduction to theory and research,​​ Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1975; Petty R. E. - J. T. Cacioppo,​​ Attitudes and persuasion: classic and contemporary approaches, Dubuque (Ia.), Brown Company Publishers, 1981; McGuire W. J., «Attitudes and attitude change», in G. Lindzey - E. Aronson (Edd.),​​ The handbook of social psychology,​​ vol. II, New York, Random House,​​ 31985, 233-346; Eagly A. H. - S. Chaiken,​​ The psychology of attitudes, Orlando (Fl.), HBJ College Publishers, 1993; Franta H.,​​ A. dell’educatore.​​ Teoria e training per la prassi educativa,​​ Roma, LAS, 1995; Stroebe W. - M. S. Stroebe,​​ Psicologia sociale e salute, Milano, McGraw-Hill Libri Italia s.r.l., 1997; Cavazza N.,​​ Psicologia degli a. e delle opinioni, Ibid., 2005.

C. Messana

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ATTEGGIAMENTO

ATTENZIONE

 

ATTENZIONE

L’a. è generalmente definita come la capacità della mente di concentrarsi o di focalizzarsi su alcuni elementi dell’ambiente. La sua importanza nella vita di ogni giorno è sotto gli occhi di tutti. Essa infatti controlla l’attività elaborativa della mente selezionando il flusso delle informazioni in base alle capacità dell’individuo e regolando la distribuzione delle risorse fra compiti competitivi. Sebbene spesso si parli dell’a. come di un processo unitario e specifico, in realtà sembra che ciò che viene indicato con questo termine corrisponda a un modo generico di categorizzare processi e comportamenti diversi.

1.​​ Processi attentivi.​​ Con lo sviluppo della psicologia cognitivista l’a. è tornata di attualità. Questo approccio ha promosso un ricco filone di ricerche formulando vari modelli interpretativi, sviluppando nuovi settori di indagine (neurologico e psicologico) e delineando una ricca tipologia di processi attenzionali (selettivo, automatico o inconscio e controllato). Sebbene gli studi siano ancora agli inizi, non mancano dati sulle basi nervose dei processi attentivi. Sembra che i lobi parietali del cervello siano coinvolti nell’a. sensoriale e che l’ippocampo abbia un ruolo nell’a. a breve termine. Nel 1958 Broadbent, attraverso esperimenti che analizzavano l’ascolto dicotico (stimoli diversi inviati ai due orecchi) sostenne la presenza di un «filtro» sensoriale che selezionava l’accesso dell’informazione ai livelli di elaborazione superiori. Treisman (1960) sostenne che, più che di un «filtro», si dovesse parlare di un processo di «attenuazione» dello stimolo, perché negli esperimenti da lui condotti i soggetti che ricevevano il doppio messaggio erano in grado di seguire ambedue se uno di essi era significativo rispetto all’altro. Deutsch e Deutsch (1963) e successivamente Norman (1972) introdussero ulteriori modificazioni ipotizzando che la selezione fosse determinata dalla «pertinenza» dello stimolo. Johnston e Heinz (1978) sostennero un modello di a. selettiva flessibile basato appunto sulla disponibilità delle risorse: la selezione degli elementi dello stimolo comincia dall’inizio, ma la quantità delle risorse aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla risposta da dare. Kahneman (1973) spostò l’enfasi della ricerca sul problema delle risorse avanzando l’idea che il processo di selezione analizzato dai precedenti ricercatori era da reinterpretare in termini di quantità di risorse disponibili per svolgere i compiti assegnati.

2.​​ Processi automatici e processi sotto controllo.​​ Un nuovo orientamento alla ricerca sull’a. avvenne ad opera di Schneider e Shiffrin (1977) (processi automatici e sotto controllo) e di Posner e Snyder (processi inconsci). I processi automatici procedono in parallelo, non sono intenzionali, né consci, né subiscono interferenze, né richiedono grande quantità di risorse. Al contrario i processi sotto controllo sono intenzionali, sono diretti ad uno scopo e richiedono molte più risorse dei primi. In genere i processi automatici si applicano a compiti familiari e semplici, quelli controllati a compiti complessi e inusitati. Automaticità e controllo sono due dimensioni che permettono di spiegare anche le esperienze di a. divisa. Nel caso di processi simultanei, i compiti complessi non automatizzati, richiedendo maggiori risorse, diversamente da quelli semplici e automatici, impongono una divisione delle risorse stesse. Le precedenti ricerche e interpretazioni spiegano i fenomeni della a. selettiva o dell’a. automatica e sotto controllo, ma non spiegano ancora altri fenomeni attentivi. Ad es., come interpretare il comportamento dell’a. su qualche cosa che è noiosa? Le ricerche su questo problema sono state numerose anche per la particolare connessione che esso ha con l’attività di lavoro. Molti fattori sembrano intervenire per spiegare le variazioni dei livelli di a. L’a. vigilante o il sostegno dell’a. necessaria ad una prestazione prolungata nel tempo sembrano progressivamente allentarsi a seconda del tipo di stimolo, della periodicità con cui vengono conosciuti i risultati della propria attività, del contesto esterno, dell’assunzione di sostanze stimolanti (anfetamine) e del tipo di personalità introversa o estroversa.

3.​​ A. e apprendimento.​​ L’interesse per l’argomento è comprensibile perché le conoscenze sull’a. possono fornire indicazioni preziose alla scuola sia per migliorare il livello di prestazione degli studenti che per attenuare le conseguenze dei limiti attentivi di alcune categorie, come gli iperattivi o i ritardati mentali. A questo riguardo si sono studiati gli effetti dell’aiuto nell’identificazione delle informazioni più importanti, delle tecniche di evidenziazioni attraverso figure e immagini, della frammentazione della monotonia dello stimolo, dell’automatizzazione dei processi secondari per aumentare la quantità delle risorse disponibili, dell’uso frequente di domande, del pensare ad alta voce e del verbalizzare ciò che viene svolto, dell’uso di ricompense e dell’immediato​​ feedback, dell’esercizio costante e continuo su un compito per automatizzare le prestazioni. L’effetto positivo del mantenimento dell’a. sul compito dato dal variare degli stimoli, dal contesto mutevole e dalla frequenza di​​ feedback​​ ha suggerito la possibilità di strategie educative di sequenzializzazione di operazioni come il «fermati-osserva-ascolta», «fermati-ricorda-rifletti-decidi», ecc.

Bibliografia

Broadbent D. E.,​​ Perception and communication,​​ Oxford, Pergamon Press, 1958; Treisman A. M.,​​ Contextual cues in dichotic listening,​​ in «Quarterly Journal of Experimental Psychology» 12 (1960) 242-248; Deutsch J. A. - D. Deutsch,​​ Attention: some theoretical considerations,​​ in «Psychological Review» 70 (1963) 80-90; Norman D. A.,​​ Memory and attention: an introduction to human,​​ New York, Wiley,​​ 21972; Kahneman D.,​​ Attention and effort,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1973; Schneider W. - R. M. Shiffrin,​​ Controlled and automatic information processing​​ I:​​ Detection search and attention,​​ in «Psychological Review» 84 (1977) 1-66; Johnston W. A. - S. P. Heinz,​​ Flexibility and capacity demands of attention task,​​ in «Journal of Experimental Psychology General» 107 (1978) 420-435; Cohen R. A.,​​ The neuropsychology of attention,​​ New York, Plenum, 1993.

M. Comoglio

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ATTENZIONE

ATTESE

 

ATTESE

Se per «ruolo» si intende quella serie di funzioni o compiti che la società «si attende» che la persona svolga all’interno delle strutture, contemporaneamente emerge anche il concetto di​​ a. sociali,​​ che è fondamentale nello studio delle interazioni sociali (la teoria dell’​​ ​​ interazionismo simbolico). La persona infatti, nel corso della sua vita sociale quotidiana, agisce anche in rapporto alle a. che gli​​ altri,​​ specialmente se​​ significativi,​​ hanno nei suoi confronti. Quando però le a. rimangono inadempiute diventano la causa di conflitti interpersonali o almeno di delusioni e frustrazioni.

1. In tale contesto soprattutto se​​ didattico,​​ il concetto di a. coinvolge diverse dimensioni, che influiscono notevolmente sul rapporto educatore-educando e insegnante-alunno. Le a. condizionano infatti diversi tipi di comportamento: le​​ a. positive​​ degli insegnanti nei confronti della riuscita dello​​ ​​ studente sono uno stimolo al successo scolastico («effetto​​ ​​ Pigmalione»), come le​​ a. negative​​ pongono condizioni che contribuiscono all’insuccesso. In questo secondo caso però le correlazioni tra i fattori sono meno elevate. Infatti le a. negative provocano da parte dell’alunno una serie di meccanismi di difesa per cui egli non perde necessariamente il concetto di sé, anzi sviluppa atteggiamenti di avversione verso l’autore delle a. D’altra parte le a. positive per essere efficaci devono essere minimamente fondate sulla realtà e non eccessivamente elevate (la legge della «giusta distanza» rispetto ai fini), per evitare fenomeni di scoraggiamento o di rifiuto dei tentativi di approccio. Vi sono inoltre a. degli studenti nei confronti della propria carriera scolastica e / o professionale.

2. Quando queste a. sono alte diventano un incentivo favorevole all’impegno per un miglior rendimento. Esse sono correlate con i concetti di «aspirazioni», di «ambizione» e di «motivazione», pur senza confondervisi. Le a. hanno infatti una triplice componente: cognitivo-intellettiva, affettivo-emotiva e conativo-intenzionale. Ciascuna contribuisce ad influenzare i rispettivi comportamenti, così che un intervento su qualcuna di esse può modificare le successive condotte. L’effetto verificato però è maggiore sulla relazione interpersonale che non sul successo intellettuale e sui risultati oggettivi. Non va sottaciuto il fatto che la qualità stessa delle esperienze passate circa le proprie relazioni interpersonali conduce alla formazione di a., che a loro volta condizionano la successiva interazione. Nel processo educativo infine è ormai un dato verificato che sul comportamento dell’adulto incidono reazioni dello stesso adolescente. Rimane tuttavia ancora aperta la questione circa l’individuazione dei vari settori maggiormente influenzabili e delle condizioni più predisponenti a tale reciprocità.

Bibliografia

Cicourel A.​​ V.​​ - K. Knorr Cetina,​​ Advances in social theory and methodology,​​ London,​​ Routledge and P. Kegan, 1981; Woods P.,​​ Sociology and the school. An interactionist view-point, Ibid., 1983; Rosenthal R. - L. Jacobson,​​ Pigmalione in classe.​​ L’immagine che chi insegna si fa di chi apprende sotto la sua guida, Milano, Angeli, 1992; Fele G. - I. Paoletti,​​ L’interazione in classe, Bologna, Il Mulino, 2003; Palmonari A. et al.,​​ Psicologia sociale, Ibid., 2002.

R. Mion

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ATTESE

ATTIVISMO

 

ATTIVISMO

1.​​ Il termine​​ attivismo​​ è utilizzato frequentemente per indicare il complesso e comprensivo movimento di riforma pedagogico-didattica iniziato nelle ultime decadi del sec. XIX, che ebbe le manifestazioni più significative nella prima parte del sec. XX. Si è detto, enfaticamente, che esso rappresenta una “rivoluzione copernicana” nell’insegnamento: passaggio dal magistrocentrismo al puerocentrismo; dalla scuola centrata sul programma alla scuola centrata sull’alunno.

2.​​ All’origine di questo fenomeno ci sono alcuni fattori socio-politici e culturali: industrializzazione, nascita delle nuove nazionalità, regimi più democratici e liberali, mutamenti della vita collettiva (movimento operaio, giovanile, femminile), progresso delle scienze (in particolare della psicologia, sociologia, pedagogia), maturazione di determinate istanze e fermenti presenti in periodi e autori precedenti (Comenio, Rousseau...). In questo contesto storico si generalizza una critica severa (a volte poco serena, ingenua e persino ingiusta) della cosiddetta “scuola tradizionale” (come scuola dello sforzo, del castigo, adultistica, autoritaria, passiva, distaccata dalla vita reale). Educatori e uomini di cultura postulano, come alternativa, una “educazione nuova”. Un po’ ovunque (Europa, India, USA...) sorgono esperienze di “scuole nuove”.

3.​​ Il termine​​ attivismo​​ ha avuto particolare fortuna in Italia, in un secondo momento anche nell’ambito dell’IR e della C. Furono molto vivaci, negli anni centrali del secolo, le polemiche tra gli assertori di un “attivismo cristiano” (Casotti, Stefanini) e di un “attivismo laico” (Coen, De Bartolomeis), escludentisi a vicenda. Nell’area di lingua francese, sulla scia degli innovatori più conosciuti (Bovet, Ferrière, Cousinet) si parla piuttosto di “école​​ active”, “école nouvelle”, o di “éducation nouvelle”. In Germania, di “Arbeitsschule” o, in generale, di “Reformpadagogik”. Negli USA si parla di “progressive school”. Sovente questi termini vengono usati promiscuamente, senza adeguate sfumature. Da una prospettiva globale, si potrebbe meglio parlare (mettendo l’accento sugli aspetti metodologico-didattici) di movimento delle “scuole nuove”.

4.​​ Lasciate da parte contrapposizioni polemiche, e superata una concezione forzatamente unitaria dell’A. (come sistema e corpo di dottrine chiuso), sono prevalse fra i cattolici posizioni più aperte. Ebbe un particolare influsso l’opera di mons. E. Dévaud. Questi, pur rilevando i limiti e le ambiguità delle concezioni naturalistico-pragmatiste di gran parte delle esperienze di “scuola attiva”, difese la possibilità di assumerne le tesi più interessanti da parte di una concezione schiettamente cristiana. Con gli attivisti più convinti, il pedagogista svizzero asserisce la centralità del bambino nell’educazione. Integra però la prospettiva, e cerca di comporre le istanze caratteristiche della pedagogia nuova (attenzione al​​ soggetto​​ e ai suoi interessi spontanei) con​​ P oggettività​​ del messaggio cristiano. Da tale ottica vede l’attività del maestro ordinata all’alunno e l’attività di questi “ordinata al vero”. L’appello all’esperienza (un altro motivo ricorrente nelle “scuole nuove”) si traduce, sotto una luce nuova, nell’affermazione: “Vivere il vero”. In sintesi, la proposta di Dévaud appare formulata nel titolo di uno degli scritti più conosciuti:​​ Pour​​ une​​ école​​ active​​ selon l’ordre chrétien​​ (1934).

L’impostazione teoretica dévaudiana, ispirata all’antropologia tomista, ebbe ampia risonanza. D’altra parte, l’esperienza pratica dell’École​​ des Roches​​ contribuì pure a chiarire malintesi e a vincere riserve e perplessità. Precisamente nella “école nouvelle” fondata in Francia da E. Demolins (1899) e diretta poi da Bertier, svolse la sua attività come insegnante (dal 1914) → M. Fargues, pioniera dei metodi attivi nell’insegnamento religioso. Attenta agli sviluppi della psicologia e delle tendenze contemporanee in campo educ. essa seppe cogliere e attuare orientamenti validi nell’ambito dell’educazione religiosa; approfondì e diffuse il pensiero di autorevoli rappresentanti del movimento attivista, individuandone linee di applicazione alla pedagogia cat.: → Montessori (“periodi sensitivi”), Cousinet (lavoro di gruppo). Significativa fu inoltre l’opera di → Lubienska de Lenval con lo studio del senso religioso del bambino (Montessori) e quella di → A. Boyer con l’applicazione del metodo dei progetti (Kilpatrick) all’IR.

5.​​ In Italia i motivi e le proposte dell’A. tardano a farsi strada nella C. L’affermazione del “protagonismo” del fanciullo come agente della propria educazione contrastava con una prassi cat. preoccupata di assicurare la trasmissione fedele dei contenuti (dottrina) già elaborati e fissati in formule precise e rigorose. La pubblicazione del →​​ Catechismo della dottrina cristiana​​ (1912) di Pio X contribuì a privilegiare una metodologia troppo “chiusa nella morsa della ripetizione mnemonica” (G. Gariselli). Lentamente andò maturando però l’esigenza di un rinnovamento dei metodi. Va sottolineata soprattutto l’opera di → G. Nosengo e → S. Riva. Partendo dalle “soluzioni teoriche proposte dal Casotti”, Nosengo auspica negli anni ’30 l’apertura dei catechisti e degli educatori cristiani a “un sano ed equilibrato A.”, che superi un astratto memorismo​​ verbalista​​ e favorisca la partecipazione attiva degli alunni, la collaborazione, il dialogo e la discussione vivace, gli esercizi di ogni tipo... Al di là delle affermazioni di principio, Nosengo attuò e presentò nei suoi scritti esperienze di applicazione all’IR di orientamenti fecondi dell’A.: il lavoro manuale (Kerschensteiner), i centri di interesse (Decroly), il lavoro a squadre (Cousinet).

6.​​ Nei recenti documenti ecclesiali italiani si accenna ai rischi di “un A. scomposto e fine a se stesso”, ma si mette pure l’accento sull’attività, l’esperienza, l’attenzione a tutte le facoltà del ragazzo e sulla “libera partecipazione di ciascuno al proprio progresso spirituale” (RdC 172).

Bibliografia

M. Casotti,​​ Scuola attiva,​​ Brescia, La Scuola, 1937; R. Coen,​​ Attivismo contro attivismo,​​ in “Scuola e Città» 5 (1954) 2, 41-42; F. De Bartolomeis,​​ Le origini dell’educazione nuova,​​ ibid., 4 (1953) 111-119; 139-150; E. Dévaud,​​ Per una scuola attiva secondo l’ordine cristiano,​​ Brescia, La Scuola, 1940; M. Fargues,​​ Les méthodes actives dans l’enseignement religieux,​​ Juvisy, Ceri, 1934; Id.,​​ Catéchisme pour notre temps. Principes et techniques,​​ Paris, Spes, 1951; G. Nosengo,​​ L'attivismo nell’insegnamento religioso della scuola media,​​ Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1937; Id.,​​ Sette lezioni di attivismo catechistico,​​ Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1940; S. Riva,​​ La pedagogia religiosa del novecento in Italia. Uomini-idee-opere,​​ Roma-Brescia, Antonianum-La Scuola, 1972; L. Stefanini,​​ Il vaglio umanistico della scuola attiva,​​ in “La Scuola secondaria e i suoi problemi» 2 (1953) 4-5, 169-192.

José Manuel Prellezo

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ATTIVISMO
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