APOLOGETICA

 

APOLOGETICA

I. Uno spazio inedito all’impegno cat.

1.​​ Indicazioni orientative.​​ L’A. ha accompagnato l’annuncio cristiano fin dal suo primo confronto con il mondo ebraico e greco-ellenistico. Si fonda sulla dimensione razionale della → fede: sulla sua intrinseca capacità di rendere ragione di sé. È dunque essenzialmente una legittimazione razionale corretta della fede, capace di tenere il confronto con le provocazioni cui il credente è esposto, o con le obiezioni che porta il non credente, radicate di volta in volta nei diversi contesti religioso-culturali. Perciò l’A. si caratterizza diversamente nei successivi contesti storici. Oggi l’impegno apologetico si può sinteticamente situare su due versanti distinti e complementari.

L’uno concerne la legittimità della fede. Filoni culturali a larga adesione hanno divulgato e fatto valere presupposti di radicale incredulità: basti pensare all’esigenza di verificabilità, all’enfatizzazione antropologica che pone l’uomo come radice ultima e riferimento definitivo, all’esasperazione strutturalista... La fede è chiamata a confrontarsi e a ricuperare in radice la propria legittimità. La teologia è venuta elaborando una specifica disciplina — la → teologia fondamentale — impegnata a evidenziare il margine di oggettiva razionalità e di conseguente legittimità della fede.

L’altro versante concerne piuttosto l’atteggiamento soggettivo: si impegna attorno alla credibilità della fede: è l’ambito specifico e attuale dell’A. che interessa direttamente la C.

2.​​ Una nuova esperienza apologetica.​​ La credibilità ovvia e immediata della fede, se pure ha potuto darsi in altre epoche, è di sicuro vistosamente incrinata ai nostri giorni. L’ateo ha pieno diritto di cittadinanza; il “sospetto” è di casa nella cultura attuale; l’abitudine a “falsificare” ogni affermazione “sensata”, e comunque lo spirito critico e l’esigenza problematica caratterizzano interi filoni della ricerca razionale, e suscitano una sensibilità condivisa. Il non credente è portato a giudicare con una certa severità una fede che, almeno dall’esterno, gli appare segnata fortemente di dogmatismo. Il credente vive la propria esperienza non senza esigenza critica e permanente problematicità.

In questo contesto l’A. torna ad essere momento importante non solo di legittimazione, ma anche e forse soprattutto di ricupero di credibilità della proposta di fede, e perciò uno dei nodi della C.

3.​​ L’orientamento del Concilio Vaticano II.​​ Il Concilio ha recepito la novità provocante del momento che attraversiamo e ha spianato la strada a una nuova A. Il documento qualificante resta la GS. Questa costituzione ha inteso stabilire un nuovo rapporto con la cultura e la sensibilità contemporanea: vi ha cercato una solidarietà e una corresponsabilità profonde, accettando il rischio della parzialità e della provvisorietà che esse comportano.

Perciò è stata ed è uno dei documenti più controversi; in parte già superato — dove ha voluto interpretare il mondo allora contemporaneo, ormai alle spalle —; ma nello spirito che lo anima è singolarmente e permanentemente attuale, appunto perché disponibile al dialogo: consapevole che la soluzione anche credente alla domanda esistenzialmente e storicamente assillante non è già data, neppure dal credente. Questi è chiamato ad affiancare la fatica dei suoi contemporanei per elaborare con loro un senso alla vita. La C. è perciò sollecitata a un nuovo confronto con la cultura attuale.

II. I riferimenti più significativi

A voler sintetizzare dal punto di vista specificamente cat. la novità del confronto, bisogna partire dalle accentuazioni che caratterizzano l’esperienza dell’uomo contemporaneo e che segnano anche il suo modo di vivere e di interpretare 1’ → esperienza religiosa. Si possono raccogliere attorno a tre riferimenti: l’accentuazione antropologica, il pluralismo culturale, il processo di secolarizzazione.

1.​​ L’accentuazione antropologica.​​ La nostra si definisce epoca antropologica, segnata da un interesse preponderante — se non esclusivo -— per l’uomo, la sua esistenza, il suo impegno nella storia.

La fede, in quanto interpreta il rapporto dell’uomo con Dio, è certo consapevole del primato assoluto di Dio. E tuttavia non può disattendere questo prevalente o addirittura esclusivo interesse per l’uomo. Da lui, dalle sue aspirazioni, forse dal suo presagio deve prendere le mosse per un qualunque discorso su Dio. La fede, prima che oggettivamente fondata, deve risultare soggettivamente significativa (Pascal). In altre parole, si tratta di evidenziare l’apporto che la fede offre alla piena maturazione dell’uomo e forse addirittura mettere in luce che la fede è passaggio obbligato a tale maturazione.

In questo senso la riflessione religiosa attuale può avvalersi di apporti preziosi che le provengono dalla ricerca fenomenologica (R. Otto, M. Scheler), esistenziale (G. Marcel, N. Berdiaeff) e personalista (E. Mounier, M. Buber). Essi dicono a chiare lettere dove sta la dignità dell’uomo e quanto questa sia debitrice alla sua vocazione trascendente.

2.​​ Il pluralismo culturale.​​ Proprio il differenziarsi della cultura in ramificazioni sempre più distanti reciprocamente svuota la presunzione d’un’apologetica elaborata all’interno di un’unica cultura come deduzione sistematicamente corretta e perciò risolutiva e obbligante.

Dove il pluralismo delle culture è misurato in tutta serietà non è pensabile che una conclusione​​ rigorosa​​ all’interno di un’area culturale risulti chiaramente evidente ed evincente per aree culturali diverse. Non vale tanto il rigore del ragionamento quanto la serietà del confronto: la disponibilità ad accogliere un mondo culturalmente alternativo, a presagirvi le attese più sane e a lasciarvi intuire una solidarietà germinale con la fede da portare a maturazione.

L’A. si misura così con un compito inedito, di cui tuttavia intuisce gli stimoli e la serietà. È cioè obbligata a rendersi conto della parzialità e limitatezza di ogni formulazione; a scoprire angolazioni diverse e complementari. E tuttavia, dove la fede e la rivelazione hanno una parola umanamente significativa da dire, possono contribuire in modo determinante a comporre il senso dell’esistenza.

3.​​ Il processo di secolarizzazione.​​ Rappresenta lo sbocco religiosamente più provocante delle premesse antropologiche e culturali ricordate. In un contesto in via di secolarizzazione la fede non è accolta se non parla all’esistenza nella sua storicità, anche quotidiana e banale, e se non s’esprime con linguaggio significativo. La fede è quindi chiamata a superare le categorie della razionalità astratta o anche semplicemente della coerenza rigorosa, ad alimentare e illuminare le situazioni concrete. È evidente che richiami del genere offrono una legittimazione remota e decisiva alla C. esperienziale: non solo, ma ne precisano il compito.

III.​​ Le provocazioni attuali

1.​​ Naturalmente riferimenti come quelli rilevati sottendono provocazioni e insidie palesi. Sul piano antropologico l’esperienza appare segnata da sconcertante ambivalenza: lo stesso gesto e la stessa situazione possono trovare, al limite, un’interpretazione seria e perfino rigorosa sia a partire da presupposti credenti che da presupposti atei. Perciò non è su base antropologica che si può decidere circa la verità definitiva della fede. L’antropologia rimanda a una interpretazione globale della realtà che razionalmente fonda in ultima istanza l’opzione​​ pro​​ o contro la fede.

2.​​ Ma nel nostro contesto non è più possibile far riferimento a una concezione unitaria condivisa. All’interno di ogni orizzonte culturale la ragione può inserirsi come consapevolezza critica e disponibilità al confronto. Vi gioca dunque un atteggiamento esistenziale complesso che l’apologetica tende a suscitare, ponendo a confronto una molteplicità di fattori. Fra i più importanti sono quelli che la secolarità riconosce ed esalta: il progetto personale, la solidarietà sociale, lo sviluppo culturale, il progresso economico... L’apporto alla realizzazione di tali valori costituisce una verifica teorico-pratica della significatività e della credibilità della fede.

3.​​ Oggi quindi, in situazioni culturali e religiose differenziate, non ha più molto senso parlare dell’A. Si rende sempre più evidente che l’A. si differenzia, e soprattutto entra in solidarietà con la C. assecondandone e legittimandone le scelte situate, proprie dei vari contesti culturali. Nei Paesi di lingua tedesca tende a suffragare la ricerca attorno al principio di correlazione. Nell’area anglo-americana è impegnata attorno alla mediazione del linguaggio. Nei paesi di lingua neolatina, Italia e Francia in particolare, è comandata dall’elaborazione di senso. Nell’America Latina accetta la sfida di situazioni socio-culturali, che chiamano perentoriamente all’impegno di liberazione.

IV.​​ In sintesi

Dove l’A. assume il compito specifico di “mostrare” la credibilità della fede, segna e caratterizza l’intera elaborazione dell’annuncio cristiano. Orienta quindi a una C. avvertita delle difficoltà e dei pregiudizi diffusi, attenta a entrare in solidarietà con le attese e le istanze specifiche del nostro tempo; preoccupata di parlare in termini persuasivi all’uomo contemporaneo, vincendone le palesi o segrete resistenze, sposandone le aspirazioni migliori.

Bibliografia

H. U. von Balthasar,​​ Die Gottesfrage​​ des​​ heutigen Menschen,​​ Wien, Herold, 1958; M. Blondel,​​ Lettre sur​​ les​​ exigences de la pensée contemporaine et sur la méthode de la philosophie dans l’étude du problèma religieux,​​ Paris, PUF, 1956; H. de Lubac,​​ Il dramma dell’umanesimo ateo,​​ Brescia, Morcelliana, 1978; J. M.​​ Diez-Alegría,​​ Io credo nella speranza,​​ Verona, Mondadori, 1973; J. Gevaert,​​ La dimensione esperienziale della catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1984; H.​​ Küng,​​ Essere cristiani,​​ Milano, Mondadori, 1976; K. Lowith,​​ Lede e ricerca,​​ Brescia, Morcelliana, 1960; J. B. Metz,​​ Antropocentrismo cristiano,​​ Torino, Boria, 1969; P. Ricoeur,​​ Il conflitto delle interpretazioni,​​ Milano,​​ Jaca​​ Book, 1977; J. Rivière,​​ A la trace de Dieu,​​ Paris, Gallimard, 1952; P. Roqueplo,​​ Esperienza del mondo esperienza di Dio?,​​ Leumann-Torino, LDC, 1972; E. Schillebeeckx,​​ Intelligenza della fede,​​ Roma, Paoline, 1976; Z. Trenti,​​ Sfida alla fede,​​ Leumann-Torino, LDC, 1978.

Zelindo Trenti

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APOLOGETICA

APORTI Ferrante

 

APORTI Ferrante

n. S. Martino all’Argine (Mantova) nel 1791 - m. a Torino nel 1858, educatore italiano.

1. Ordinato sacerdote nel 1815, dopo aver effettuato studi sulle Sacre Scritture e delle Lingue Orientali, presso il Theresianum di Vienna, al ritorno in patria, forse sollecitato anche dalla lettura dell’Infant Education​​ di Samuel Wilderspin nel 1829, aprì a Cremona una scuola infantile per bambini appartenenti a famiglie agiate. Alla fondazione del primo asilo fece seguito un intenso impegno per istituirne altri «allo scopo di raccogliere, custodire, alimentare ed educare» i bambini dai 3 ai 6 anni, aiutando i lavoratori nel mantenimento e nella formazione dei loro figli e quindi contribuendo all’instaurazione di una società fraterna fondata «su una più diffusa e solidale comprensione dei doveri dell’uomo, del cristiano e del cittadino».

2. Su questa base l’A. ha costruito il progetto educativo delle sue scuole il quale prevedeva l’insegnamento della nomenclatura, del leggere, dello scrivere, del far di conto, della Storia Sacra, e per le bambine dei lavori donneschi, del canto, e suggeriva l’adozione del metodo «dimostrativo» perché considerato il più idoneo per soddisfare e coltivare la naturale curiosità dei bambini, e il sussidio delle stampe. Agli insegnanti l’A. chiedeva di tener presente quanto esposto nel​​ Manuale​​ e nella​​ Guida, ma spesso la modesta preparazione culturale degli educatori, cui era affidato un numero eccessivo di alunni, ha favorito l’affermazione di un insegnamento ripetitivo, che faceva prevalentemente leva sulla memoria ed incapace di coltivare «integralmente» l’educabilità dei bambini.

Bibl.: Sancipriano M. - S. S. Macchietti (Edd.),​​ Scritti pedagogici e lettere, Brescia, La Scuola, 1976; Macchietti S. S.,​​ La scuola infantile tra politica e pedagogia dall’età aportiana ad oggi, Idid., 1985; Sideri C.,​​ F.A.: sacerdote italiano,​​ educatore. Biografia del fondatore delle scuole infantili in Italia sulla base di una nuova documentazione inedita, Milano, Angeli, 1999.

S. S. Macchietti

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APORTI Ferrante

APOSTOLATO

 

APOSTOLATO

1.​​ Col termine A. si può intendere sia l’insieme del compito della Chiesa (cf AA 2) — e in questo senso è equivalente di​​ missione​​ e di →​​ evangelizzazione​​ —, sia un suo aspetto o settore particolare, soprattutto nella forma consacrata di​​ A. dei laici.​​ Etimologicamente, A. dice riferimento a una​​ missione ricevuta,​​ al fatto di essere​​ inviati​​ per una missione, e in questa prospettiva appare legato alla​​ vocazione​​ e​​ missione​​ dei credenti in Cristo.

2.​​ In una​​ prospettiva storica​​ è possibile distinguere usi e accenti diversi del concetto di A. Nel NT si parla di A. anzitutto in riferimento al ministero apostolico di Pietro, Paolo e dei Dodici, ma poi si estende all’esercizio della missione cristiana da parte di tutta la comunità, anche se con articolazioni ministeriali diverse. Lungo la storia è vario l’uso del termine: a volte viene riferito al ministero dei vescovi; a partire dal sec. XI si restringe al ministero e dignità del Papa, in forma esclusiva; verso la metà del sec. XIX se ne vede l’estensione all’ambito dei laici, e progressivamente si assiste alla nascita e sviluppo dei diversi​​ movimenti apostolici​​ (primo fra tutti l’Azione Cattolica) e di svariati settori o forme di A.: A. della preghiera, della stampa, del mare, ecc.

3.​​ Lo​​ sviluppo teologico-pastorale​​ del concetto di A. è legato specialmente alle concezioni​​ ecclesiologiche​​ in cui è inserito. Prima del Vaticano II, in una ecclesiologia a dominante istituzionale e gerarchica, l’A. era concepito come compito dei pastori della Chiesa, ai quali si poteva affiancare, in forma del tutto subordinata e secondaria, e in virtù di un “mandato”, l’A. dei laici. Significativa in questo senso è la definizione di Azione Cattolica data da Pio XI: “Partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico” (cf lettera​​ Quae nobis​​ del 13-11-1928).

Gli impulsi per un rinnovamento e apertura di concezione sono venuti da diverse parti, anche prima del Concilio (si pensi, per es., all’importanza della JOC, fondata da J. Cardijn nel 1925), ma sarà soprattutto la svolta conciliare ad approfondire e rinnovare il tema dell’A. Nella nuova visione ecclesiologica, il Concilio proclama la partecipazione di tutti i membri del Popolo di Dio alla missione salvatrice di Cristo e, significativamente, parla dell’A. dei laici, non più come partecipazione “all’A. gerarchico”, ma come “partecipazione alla stessa salvifica missione della Chiesa” (LG 33), e non in virtù di un “mandato”, ma “destinati dal Signore stesso per mezzo del battesimo e della confermazione” (ibid.;​​ cf AA 3). È soprattutto nel Decreto sull’A. dei laici (AA) dove il Concilio esplicita e approfondisce le nuove prospettive aperte all’esercizio dell’A.

4.​​ Il​​ rapporto tra A. e C.​​ è profondo e articolato, data la centralità e importanza della C. nell’esercizio della missione della Chiesa. Alcuni aspetti più significativi di tale rapporto possono essere sottolineati:

— La C. è in se stessa una​​ forma eminente di A.​​ Essa appartiene al cuore della missione ecclesiale (“compito assolutamente primordiale della sua missione”: CT 15) e costituisce, nell’insieme del processo di evangelizzazione, un suo momento essenziale (CT 18). — In quanto forma di A., la C. è un compito cui​​ partecipano tutti nella Chiesa,​​ ognuno secondo il proprio ruolo e il proprio carisma (cf​​ Messaggio Sinodo '77,​​ n. 12). Come per l’esercizio dell’A., anche per la C. è di natura sacramentale il fondamento e titolo di base: l’esercizio della C. è fondamentalmente un diritto e dovere di ogni cristiano in forza del battesimo e della confermazione, e non soltanto di un eventuale mandato o “missio canonica”.

— L’iniziazione all’A.​​ è uno degli​​ obiettivi​​ della C. Esso appare nella logica di ogni cammino di fede: “Chi è stato evangelizzato a sua volta evangelizza. Qui è la prova della verità, la pietra di paragone della evangelizzazione: è impensabile che un uomo abbia accolto la Parola e si sia dato al Regno, senza diventare uno che a sua volta testimonia e annunzia” (EN 24). L’iniziazione all’A. è parte integrante del cammino di maturazione nella fede: “La vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato” (AA 2). Di qui la necessità che la C. formuli i suoi obiettivi e programmi i suoi interventi in modo da abilitare i credenti, non solo a interiorizzare i valori della fede, ma anche a diventare soggetti attivi nell’esercizio dell’A., sia a livello individuale che nell’ambito della vita sociale, familiare e politica.

Bibliografia

Y. Congar (ed.),​​ L’Apostatai des tdics. Décret “Apostolicam actuositatem”,​​ Paris, Ceri, 1970; A. Hamman,​​ L’apostolat da chrétien. Réflexion sur les données​​ bibliques,​​ Paris, Pion, 1956; G. Hierzenberger,​​ Apostolato,​​ in K. Rahner​​ et al. (ed.),​​ Dizionario​​ di Pastorale,​​ Brescia, Queriniana, 1979, 53; P.​​ Jurío,​​ Movimientos apostólicos,​​ in C.​​ Floristán –​​ J. J. Tamayo (ed.),​​ Conceptos fundamentales​​ de​​ pastoral,​​ Madrid,​​ Cristiandad,​​ 1983, 648-658; F.​​ Klostermann,​​ Das christliche Apostolat,​​ Innsbruck, Tyrolia, 1962; Id.,​​ Apostolato,​​ in K. Rahner (ed.).​​ Enciclopedia Teologica​​ Sacramentum Mundi,​​ vol.​​ I, Brescia,​​ Morcelliana,​​ 1979, 372-375; P. Scabini,​​ Apostolato,​​ in​​ E.​​ Ancilli​​ (ed.),​​ Dizionario di Spiritualità dei laici,​​ vol. I, Milano, O.R., 1981, 35-39.

Emilio​​ Alberich

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APOSTOLATO

APPARTENENZA

APPARTENENZA

Franco Garelli

 

1.​​ Un termine molto utilizzato e poco approfondito

2.​​ Un termine di supporto ad altri concetti

3.​​ Gruppo di appartenenza, gruppo di riferimento

4.​​ Le dinamiche di appartenenza e di riferimento nell’associazionismo giovanile religioso

4.1.​​ Il gruppo di appartenenza

4.2.​​ Il gruppo di riferimento

4.3.​​ Attenzione alle condizioni organizzative

4.4.​​ L ’attenzione alle condizioni umane e gli orientamenti teologici congruenti

4.5.​​ L’importanza del passaggio dall’appartenenza al riferimento

 

1. Un termine molto utilizzato e poco approfondito

Quanti si sono applicati al concetto di appartenenza non hanno potuto fare a meno di rilevare sia il largo uso che di esso viene fatto vuoi nel linguaggio comune che nelle scienze umane e sociali, sia la carenza di una definizione univoca e consolidata in grado di rappresentare un preciso punto di riferimento per il ricorso a tale termine. È questo l’esito cui va incontro un termine che da un lato si presenta come particolarmente adatto per delineare alcuni aspetti delle condizioni di vita nella società contemporanea, affine alle modalità espressive e di rappresentazione dei rapporti sociali tipiche del tempo presente; e che dall’altro lato viene utilizzato senza riferimenti a precise tradizioni intellettuali e culturali proprie di ogni disciplina, senza cioè quel bagaglio di accezioni, di rimandi, di connotazioni che caratterizzano un concetto ormai entrato a far parte del «lessico» di una disciplina scientifica.

In questo quadro quello di appartenenza risulta un concetto di portata generale (« non ristretto nell’ambito di una sola disciplina»), non molto precisato, che tende ad essere generalmente assunto nel suo significato intuitivo, elementare, quasi non richiedesse né chiarificazione teorica, né una precisazione in termini operativi. In tutti i casi con il concetto di appartenenza si indica la partecipazione o la dipendenza attiva e riconosciuta di un soggetto (individuo o gruppo) nei confronti di una comunità, l’inclusione (perlopiù attiva e consapevole) di un individuo o di un gruppo in una realtà ritenuta più ampia e complessa, secondo modalità che variano di gran lunga da situazione a situazione.

 

2. Un termine di supporto ad altri concetti

Uno dei motivi alla base del mancato approfondimento di questo concetto è che esso — nelle varie discipline — assume perlopiù un ruolo di supporto di altri concetti, per cui non sembra mai essere stato oggetto di una trattazione o di uno sviluppo a sé stante.

In ambito psicologico, ad esempio, il termine «appartenenza» viene utilizzato — tra l’altro — per delineare una condizione essenziale nel processo di socializzazione, inteso come insieme di pratiche sociali grazie alle quali gli individui diventano membri della società o sono messi in grado di assumere o di esercitare i ruoli adulti. II senso di «appartenenza» degli adolescenti al gruppo dei coetanei viene descritto come funzionale alla maturazione di una condizione di distacco dei soggetti dai modelli parentali e alla loro immissione in una dinamica relazionale assai più ampia di quella che caratterizza, nei primi anni di vita, la formazione della personalità di base. In questo caso comunque il termine appartenenza viene per lo più utilizzato in rapporto ad altri concetti, ritenuti più importanti sia nella prospettiva psicanalitica che in quella psico-sociale, e fatti oggetto di maggior approfondimento: socializzazione, identità, identificazione, interpretazione di ruolo, affettività, regressione, ecc. Anche in ambito sociologico risulta assai frequente il ricorso al termine «appartenenza» per evidenziare la sfera di relazioni che caratterizzano un soggetto in rapporto alle posizioni che occupa nella società. Così ci si riferisce al termine «appartenenza» nel trattare dei caratteri di ruolo, di status, di classe o di ceto, di religione, di sesso, di gruppo etnico, di gruppo di interesse, ecc., che contraddistinguono la presenza sociale di ogni individuo. Ma anche in questo caso si registra nella storia della disciplina una maggior attenzione ai concetti relativi ai suddetti caratteri che non al termine «appartenenza» di volta in volta evocato per delineare le varie posizioni occupate dagli individui nella società.

Il non tener conto di queste osservazioni e il voler in tutti i casi attribuire uno statuto definitorio al termine «appartenenza» nell’ambito delle scienze sociali, può dar adito a un’operazione arbitraria e spuria, tipica di chi di fatto ripropone col termine qui considerato tutta una serie di categorie che nella tradizione sociologica sono state espresse secondo altre connotazioni concettuali. Così i classici della sociologia hanno fatto riferimento a concetti quali gruppo, istituzione, partecipazione, comunità, ruolo, relazione sociale, interazione, sistema sociale, collettività, marginalità sociale, ambiente, ecc.: tutti termini che possono indicare — per determinare classi di soggetti — specifiche «appartenenze» sociali, senza però che il concetto di appartenenza sia stato oggetto di particolare trattazione e approfondimento per delineare una relazione o un modo di essere dei soggetti diversi da quelli prefigurati mediante l’utilizzo dei termini prima esposti.

 

3. Gruppo di appartenenza, gruppo di riferimento

Una delle poche eccezioni a questa osservazione generale è rappresentata dall’utilizzo del termine appartenenza per indicare un particolare tipo di modalità associativa. L’approfondimento in questione si deve al noto esponente del funzionalismo critico R. K. Merton, il quale — tra i molti meriti scientifici — ha offerto un importante contributo all’arricchimento dei criteri di classificazione dei gruppi.

Nel dibattito sociologico si contano numerosi criteri di classificazione della relazione sociale indicata col termine gruppo. Tra queste si può ricordare la distinzione introdotta da W.G. Summer (1906) tra gruppo interno e gruppo esterno, in base alla quale col primo termine si intende una realtà sociale che si forma in rapporto a una comune identità (espressa da un sentimento comunitario, dal senso del «noi») e con il secondo le realtà considerate come un gruppo esterno (in rapporto alle quali non si matura cioè un senso di identificazione). Si tratta di una prospettiva che attribuisce grande importanza al gruppo cui si appartiene, considerato come distintivo o contrapposto ad altre realtà associative.

Un’altra importante distinzione riguarda poi la differenza — introdotta da C.H. Cooley (1909) — tra gruppi primari e gruppi secondari. Con i primi si intendono quelle realtà aggregative che sono caratterizzate dalla possibilità dei componenti di interagire «a faccia a faccia», dal prevalere di relazioni affettive e gratificanti, da un forte sentimento di identificazione, tutti fattori di cui può non esservi riscontro nei gruppi cosiddetti «secondari», che si determinano in rapporto a particolari obiettivi (sociali, politici, occupazionali, di interesse) che risultano in grado di coinvolgere un insieme di individui. All’interno di questo quadro definitorio un importante criterio di classificazione dei gruppi è individuabile nella distinzione — operata da Merton nel 1957 — tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento. Chi appartiene a un gruppo si caratterizza in genere sia per un elevato senso di identificazione e di lealtà sia per l’adesione e la conformità alle norme, ai valori, agli stili di vita, alle visioni del mondo che prevalgono in detta realtà associativa. «In tal modo il gruppo di appartenenza contribuisce a determinare direttamente l’orientamento e l’agire dell’individuo. Tuttavia il comportamento e l’atteggiamento dei singoli vengono influenzati non soltanto dall’appartenenza a un gruppo, ma anche, indirettamente, dal riferimento a collettività o categorie di cui essi non fanno parte, ma che si rivelano di particolare importanza e stimolo per le decisioni che essi devono prendere. Queste collettività sono dette genericamente gruppi di riferimento, anche se alcune di esse non sono, in senso stretto, gruppi».

 

4. Le dinamiche di appartenenza e di riferimento nell’associazionismo giovanile religioso

La distinzione tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento appare particolarmente utile per illustrare le dinamiche che caratterizzano nel tempo presente l’associazionismo religioso giovanile e per far fronte ad alcuni problemi «aggregativi» che attraversano questo tipo di associazionismo nell’attuale contesto socio-culturale. Nell’applicare questi concetti ai processi associativi qui analizzati si opta per un’accezione terminologica che — pur prendendo lo spunto dalla distinzione operata da Merton — esula da problemi di fedeltà al contributo di detto autore. Si tratta, in altri termini, di operare alcuni aggiustamenti concettuali funzionali a delineare i processi che caratterizzano nel tempo presente l’associazionismo religioso giovanile e a indicare possibili criteri di soluzione alle tensioni o ai problemi riscontrabili in questa importante area di rapporti sociali.

L’ipotesi di partenza è che molti problemi o tensioni riscontrabili nella pastorale giovanile del nostro paese (ma più in generale di tutte le società occidentali) siano imputabili alla mancanza di chiarezza o al fatto di non rendere operante a livello associativo la distinzione tra gruppo di appartenenza e gruppo di riferimento, nella particolare accezione che qui cercheremo di delineare.

 

4.1. Il gruppo di appartenenza

Il gruppo di appartenenza può essere indicato come una realtà in cui i membri risultano fortemente coinvolti — in termini di tempo, di rapporti, di risorse — nella realtà associativa a cui aderiscono. Il gruppo viene vissuto da essi perlopiù come totalizzante o fortemente impegnativo, in grado di attribuire un senso unitario e fondante all’esperienza personale e sociale dei soggetti. In questa linea il confine tra vita di gruppo e esperienza personale e sociale appare molto esile, a indicare la tendenza da parte degli individui a far coincidere queste due diverse dimensioni e forme espressive della vita quotidiana.

Si ha pertanto a che fare con un gruppo basato su rapporti primari, sull’affettività, sufficientemente omogeneo per quanto riguarda l’età e le problematiche degli appartenenti, che impegna perlopiù i membri a un’assidua compresenza, nella linea di una continuità e di una compartecipazione che identifica l’appartenere al gruppo con lo «stare», l’«esserci», il condividere le dimensioni dello spazio e del tempo, il «farsi compagnia». Così descritto, il gruppo di appartenenza si presenta come particolarmente adeguato per l’età adolescenziale, per soggetti caratterizzati da un’età della vita in cui si avverte in modo acuto l’esigenza di spazi affettivamente «caldi» in cui maturare una propria identità, in cui ritrovare una risposta alle indifferibili esigenze di socializzazione, di relazioni, di presenza sociale.

Anche la proposta religiosa, l’intento educativo, l’istanza del protagonismo sociale ed ecclesiale... non possono prescindere da questa realtà di base, da queste esigenze aggregative dei giovani. O si offre risposta ad esse — pur nell’intento di orientare all’impegno, di far maturare un’identità sociale e religiosa —, oppure le proposte educative e religiose appariranno ai giovani eccessivamente lontane dallo loro sensibilità, insignificanti per la loro condizione di vita, troppo astratte rispetto all’esigenza di avviare a soluzione i problemi di identificazione, di sicurezza, di stabilità sociale che caratterizzano la formazione della personalità di base di un soggetto. È indubbio che molte realtà dell’associazionismo religioso giovanile del nostro paese rispecchiano le dinamiche del gruppo di appartenenza così come si è tentato di descriverlo. Si tratta di caratteri funzionali alla possibilità stessa che questo tipo di associazionismo abbia ad affermarsi nella società, faccia presa sulle giovani generazioni, rappresenti un nucleo distintivo tra le varie proposte associative che attraversano un contesto socioculturale differenziato come l’attuale. Senza un forte senso di appartenenza, senza una marcata identificazione nella vita del gruppo, al di fuori di un «ambiente» associativo in grado di rispondere ai bisogni di realizzazione dei giovani, non sembra possibile delineare un’esperienza associativa in grado di coinvolgere i giovani e di mobilitarli attorno a obiettivi di rilievo.

Il rapportarsi al gruppo in termini di «appartenenza» risulta pertanto una «disposizione» necessaria e plausibile per l’età adolescenziale e giovanile, mentre invece può risultare «patologica» nel caso in cui essa abbia a protrarsi oltre il periodo della formazione di base, oltre gli anni forti della socializzazione giovanile. A questo livello occorre infatti prefigurare il gruppo di riferimento.

 

4.2.​​ Il gruppo di riferimento

Quale l’identikit di un gruppo di riferimento? Si intende in questo caso un gruppo caratterizzato da rapporti di tipo «secondario», nel quale l’adesione si fonda non su aspetti di simpatia o di compresenza e condivisione del tempo e dello spazio, o su rapporti «a faccia a faccia», ma su aspetti, valori, orientamenti culturali, largamente condivisi e interiorizzati dai membri. Si sta così delineando un gruppo di adulti, di «giovani maturi», i quali trovano motivo di appartenenza non nello stare insieme, nell’interazione costante, nella condivisione fortemente coinvolgente della vita quotidiana, nell’«esserci», ma su una comune identità sociale e religiosa, su una sensibilità culturale «affine». La specificità di un gruppo di riferimento non è solo data dalla condivisione di valori e di un’identità, ma anche dall’esigenza del confronto, della revisione comunitaria, dalla riflessione sulla rispondenza delle scelte pratiche al nucleo dei valori in cui ci si riconosce.

Il gruppo di riferimento quindi si distingue da un lato dal «gruppo di appartenenza» in quanto è centrato più su aspetti «secondari» che «primari» (più sulla condivisione dei valori che sull’esigenza affettiva e relazionale), e dall’altro lato dal «gruppo di impegno», in quanto la sua finalità è più di confronto, di verifica, di maturazione dei membri che non di incidenza sociale, politica o religiosa. Qual è il senso attuale di un gruppo di riferimento?

Anzitutto un tale gruppo appare oggi plausibile da un punto di vista sociale, richiesto dalle condizioni socio-culturali in cui si vive. In una realtà complicata come l’attuale, caratterizzata da elevati processi di mutamento, in cui i soggetti hanno sempre più difficoltà a comprendere gli avvenimenti e a ridefinire la propria identità, i gruppi di riferimento si presentano come un indispensabile momento di maturazione e di crescita per quanti non vogliono essere travolti e frastornati dai mutamenti e dagli avvenimenti sociali.

In secondo luogo, il gruppo di riferimento appare indispensabile anche in rapporto all’identità religiosa. Attualmente molti credenti avvertono la necessità di ridare radici alla propria identità religiosa, considerando la dimensione religiosa come una delle poche risorse oggi disponibili che permettono di far fronte alla crisi dei significati e delle prospettive.

Oltre a ciò il gruppo di riferimento religioso permette di contrastare il pericolo che l’identità religiosa venga vissuta prevalentemente in termini soggettivi, secolarizzati, troppo a misura delle attese e delle pre-comprensioni umane. Inoltre il gruppo di riferimento può rappresentare un’inversione di tendenza rispetto all’orientamento prevalente nel campo ecclesiale di impegnare immediatamente a livello pastorale le risorse umane disponibili. Attraverso di esso, in altri termini, si può contrastare la tendenza al fare, all’efficienza, alla realizzazione, alla «gestione», che caratterizza perlopiù la «domanda» delle strutture religiose di base, per affermare anzitutto l’esigenza della ricerca spirituale, il primato della fede, la centralità dell’istanza religiosa.

Così delineato, un gruppo di riferimento religioso è composto da adulti inseriti in ambienti sociali e professionali diversi, aventi vocazioni differenti, accomunati dall’esigenza di ricomporre la propria identità religiosa in uno spazio comunitario. La comunità come luogo di memoria storica, come deposito dei valori, come insieme delle diverse vocazioni, rappresenta il punto di riferimento ideale, il luogo di verifica dell’identità ultima, lo spazio di rigenerazione delle risorse motivazionali e ideali, il momento in cui si confronta la concretezza della propria storia — fatta di limiti, compromessi, asprezze, cadute, velleità — con lo specifico dell’identità religiosa.

Il gruppo di riferimento pertanto non sostituisce l’impegno dei soggetti nella vita quotidiana (nella famiglia, nel lavoro, nella presenza e partecipazione sociale), anzi, lo richiede; non diventa esso stesso un gruppo di azione, di impegno sociale e politico, anzi si arricchisce della diversità degli interventi e delle presenze sociali dei suoi membri; non mira a uniformare — come risultato del confronto dell’interazione — il comportamento dei membri nei vari campi della morale e della presenza sociale, ma dà adito a un confronto su questi aspetti — alla luce dei valori condivisi — che lascia spazio per libere e autonome scelte da parte dei membri; non deve essere troppo selettivo nei confronti degli aderenti in modo da permettere una proficua dialettica interna e nello stesso tempo non troppo diversificato per evitare che vengano a mancare elementi di condivisione tra i membri e si determinino eccessivi disturbi nella comunicazione.

In particolare, il gruppo di riferimento dovrebbe essere composto da due tipi di «vocazioni» che appaiono complementari e necessarie nella comunità religiosa: l’area degli animatori (anche adulti) che oltre al loro impegno professionale spendono il tempo libero prevalentemente in termini di servizio educativo nella comunità (ai vari livelli del ciclo educativo), e l’area di quanti invece non hanno rapporti educativi con la comunità e vivono la loro identità religiosa soprattutto nella vita quotidiana e professionale (lavoro, famiglia, impegni sociali e politici, relazioni sociali varie). La ricchezza di un gruppo di riferimento si può misurare dalla compresenza e complementarità di queste due aree al suo interno, che esprimono vocazioni e posizioni sociali e religiose diverse.

L’area degli animatori ricorda, a quanti sono impegnati nel sociale, l’esigenza — per la sopravvivenza della comunità e per la fecondità della fede come valore — di un impegno educativo in favore dei «piccoli», l’importanza di un’azione formativa nei confronti dei «nuovi» adepti, la centralità del lavoro di sensibilizzazione e di formazione (educativo e religioso) di base. In tal modo ogni membro «esterno» viene richiamato alle radici della comunità, all’esigenza della continuità dei valori religiosi nelle generazioni, alla coscienza di una fede comunitaria.

Quanti hanno il loro impegno all’esterno della comunità ricordano in primo luogo alla comunità stessa che lo sbocco dell’azione educativa è il mondo, che la comunità non è fine a sé stessa, ma costituisce uno spazio-momento in cui i soggetti si abilitano per poter poi vivere a pieno titolo nella società e nella vita quotidiana l’identità religiosa. In secondo luogo essi ricordano a chi è in «forinazione», ai più «piccoli», che è possibile realizzare l’identità religiosa nel sociale e nel politico e nelle dinamiche ordinarie dell’esistenza. In terzo luogo essi riversano sulla comunità educativa le loro tensioni, sensibilità e speranze, contribuendo in tal modo ad arricchire quanti in essa hanno compiti specificatamente educativi, in modo che la loro proposta abbia a tener presente — in termini di contenuti e di metodi — la situazione e le problematiche reali.

 

4.3.​​ Attenzione alle condizioni organizzative

S’è detto in precedenza che una comunità che non sappia differenziare al suo interno il livello associativo, operando una distinzione tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento, è una realtà che mette in atto formule aggregative non adeguate alle potenzialità, alle condizioni, alle esigenze dei soggetti che ad essa aderiscono. Se ciò si verifica, siamo di fronte a un problema organizzativo non affrontando il quale gli sforzi di affinamento del contenuto o dei metodi educativi appaiono velleitari, non rendono ragione dei problemi realmente in atto.

Ogni qual volta si riscontrano adolescenti inseriti in un gruppo di riferimento o «giovani maturi» o adulti che vivono la realtà dell’appartenenza, abbiamo a che fare con disegni organizzativi «spuri» o «patologici». Infatti gli adolescenti sono costitutivamente estranei a una logica di gruppo di riferimento, in quanto hanno ancora da affrontare quei problemi di socializzazione e di interiorizzazione di motivazioni e di valori religiosi, la cui risoluzione permette loro quell’autonomia di vita propria di chi fa parte di una realtà di riferimento. Così, parallelamente, i «giovani maturi» o gli adulti «costretti» in un gruppo di appartenenza, avvertono la ristrettezza di questo modello di realizzazione rispetto ai settori sociali e alla pluralità di appartenenze a cui li destina la loro maturità. Mentre per essi il gruppo di appartenenza risulta troppo ristretto, eccessivamente costrittivo nelle dinamiche che produce, per gli adolescenti il gruppo di riferimento appare «fuori quota», fuori misura, rispetto alle loro esigenze e condizioni.

Si tratta pertanto di creare le condizioni organizzative perché gli uni e gli altri trovino a livello ecclesiale gli spazi più connaturali alla sensibilità, condizione e livello di maturazione che li caratterizza.

 

4.4.​​ L’attenzione alle condizioni umane e gli orientamenti teologici congruenti

È ovvio che sulla scelta delle formule organizzative ha largo peso il tasso di conoscenza della psicologia umana presente nella comunità. Infatti, dietro l’esposizione di adolescenti in un contesto di riferimento si avverte la carenza di conoscenza circa la psicologia dell’età giovanile, il non avvertire che gli adolescenti hanno necessità di realtà aggregative fortemente coinvolgenti, in cui le dinamiche della vita quotidiana e quelle del gruppo a cui appartengono si fondano in tutt’uno. Parallelamente, perpetuando anche a livello di «giovani maturi» e di adulti la formula dell’appartenenza, non si tiene conto che il modello di realizzazione personale di questi soggetti passa perlopiù per la molteplicità dei ruoli e delle condizioni di vita e risulta per certi versi refrattario a proposte totalizzanti e univoche.

In tutti i casi dietro la scarsa attenzione al mutamento — nelle coscienze — dei modelli culturali e alla psicologia delle varie età della vita, si cela perlopiù una precisa concezione della realtà e opzione teologica. Alcune esperienze in cui si continua a proporre agli adulti o a «giovani maturi» un’appartenenza totalizzante al gruppo religioso, sono dettate dall’obiettivo di non disperdere i soggetti nel sociale, dal timore della loro diaspora a contatto col mondo, dalla paura che essi nell’autonomia di vita e di appartenenza abbiano a stemperare la loro identità. In questo caso, a una visione della società in termini negativi, corrisponde perlopiù una concezione teologica di gruppo ecclesiale chiuso al suo interno, concluso in sé stesso. Il gruppo ecclesiale appare così senza sbocchi, focalizzato sulla riproduzione interna, scarsamente fecondo per la realtà in cui è inserito.

Così, parallelamente, il non favorire gruppi di appartenenza per l’età adolescenziale o immediatamente post-adolescenziale può rispecchiare un orientamento teologico caratterizzato da scarsa attenzione per le condizioni storiche dei soggetti, per le dinamiche, le tensioni e i problemi che essi vivono.

 

4.5. L'importanza del passaggio dall'appartenenza al riferimento

La difficoltà nell’ambiente religioso-ecclesiale non riguarda soltanto la capacità-possibilità di organizzare tipi di gruppo diversi a seconda delle differenti tappe di maturazione dei soggetti, ma anche a curare il passaggio dei soggetti dal gruppo d’appartenenza a quello di riferimento, a creare cioè le condizioni perché — con il progredire dell’età dei componenti — il gruppo di appartenenza abbia ad esaurire la sua funzione (almeno per quell’insieme di individui) e perché questi abbiano a trasformare il loro legame in una realtà di riferimento.

Nei gruppi ecclesiali infatti è questo un momento di passaggio in cui più si registrano «punti di rottura», situazioni critiche. Una prima difficoltà si riscontra nella pressione di conformità del gruppo d’appartenenza a non permettere che alcun membro abbandoni il gruppo. In certi casi si producono a questo livello vere e proprie fratture e preclusioni nei confronti di soggetti prima compagni di viaggio e poi considerati improvvisamente estranei perché non possono più (o non intendono più) dedicare al gruppo la maggior parte del proprio tempo. In alcuni casi queste preclusioni sono indirette ma ugualmente marcate. Il fatto che qualche membro abbia maturato altri impegni, abbia meno tempo a disposizione, presenti altri orientamenti e appartenenze, fa sì che il gruppo a poco a poco lo estranei dalle decisioni, dalla comunicazione, dalla dinamica dei rapporti, relegandolo in una posizione di effettiva marginalità o insignificanza relazionale.

Una seconda difficoltà è legata all’abitudine all’appartenenza che può aver ormai condizionato l’esperienza dei soggetti. In alcune realtà di appartenenza i rapporti primari mantengono validità in tutti gli stadi della vita di gruppo. Non si verifica, in altri termini, una progressiva diminuzione dell’aspetto affettivo, della sicurezza reciproca, delle relazioni primarie, per lasciar spazio a poco a poco a una relazione fondata prevalentemente sulla condivisione di valori e obiettivi. In tal modo gli individui risultano assuefatti a un particolare modello di realizzazione di gruppo, per cui avvertono come negative le proposte di sbocco in altre realtà associative non caratterizzate da quella forte integrazione affettiva che era alla base dell’esperienza di «appartenenza». Tutto ciò sta a indicare che il passaggio dall’«appartenenza» al «riferimento» non può avvenire casualmente o improvvisamente, che esso è frutto di pre-condizioni, di un lungo processo di maturazione.

Un terzo problema riguarda la difficoltà di approccio in un gruppo di riferimento già costituito precedentemente, nel quale i soggetti devono a poco a poco — secondo un processo di maturazione personalizzato — confluire. Una vita associativa omogenea e forte alle spalle — nel gruppo di appartenenza — può condizionare i giovani nell’affacciarsi al gruppo di riferimento. In alcuni casi essi possono avvertire un’estraneità di condizione e di problematica rispetto a quanti già compongono il gruppo di riferimento, per cui tendono a non riconoscersi nell’impostazione prevalente e a creare un nuovo gruppo di riferimento sulla misura della sensibilità e dell’orientamento culturali che li caratterizzano. Una quarta difficoltà è rappresentata dal diverso livello di maturazione che si registra tra i membri del gruppo di appartenenza. Si pone qui il problema se il passaggio al gruppo di riferimento debba avvenire contemporaneamente per tutti i giovani del gruppo di appartenenza — a un determinato stadio di maturazione — oppure se siano preferibili distacchi dei singoli che più di altri avvertono tale esigenza. In tutti i casi questi distacchi provocano lacerazioni del gruppo di appartenenza, dal momento che alterano gli equilibri in esso esistenti e producono nuove dinamiche.

 

Bibliografia

Gallino L.,​​ Effetti dissociativi dei processi associativi in una società altamente differenziata,​​ in «Quaderni di Sociologia», marzo 1979; Garelli F.,​​ Gruppo,​​ in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano 1981; Merton R. K.,​​ Teoria e struttura sociale,​​ Il Mulino, Bologna 1978; Struffi L. - G. Pollini,​​ Appartenenza,​​ in F. De Marchi, A. Ellena, B. Cattarinussi (a cura),​​ Nuovo dizionario di Sociologia,​​ Edizioni paoline, Milano 1987.

APPELLO → vocazione.

APPROCCI SCIENTIFICI → fede (sguardo di) - giovani 1. — sacramenti 1. — scientificità — teologia pastorale 2.2. — teologia pastorale e altre scienze — uomo 1.

ARNOLD F. X. → teologia pastorale (storia) 6.​​ 

ASCETICAdirezione spirituale 3.5.

ASCOLTO —scomunicazionedialogoeucaristia 2 — preghiera 3.1 — vocazione 3.2.1.

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APPARTENENZA

APPARTENENZA SOCIALE / RELIGIOSA

 

APPARTENENZA SOCIALE / RELIGIOSA

L’a.s. viene studiata in rapporto alla coesione sociale. Essa potrebbe essere assimilata a un sentimento, una preferenza, un interesse; nelle scienze sociali è praticamente sinonimo di​​ ​​ atteggiamento, che è un concetto al tempo stesso comprensivo e operazionalmente ben determinato e che significa una disposizione o una strutturazione del dinamismo personale che orienta positivamente o negativamente il​​ ​​ comportamento riguardo a un oggetto psico-sociologico. Pertanto l’a.s. può essere definita come una disposizione psico-sociologica e costituisce una strutturazione stabile dei processi percettivi, motivazionali ed emozionali attraverso cui uno si collega al proprio gruppo di inserimento.

1. L’a.s. consente al membro di percepirsi come facente parte di un gruppo, di identificarvisi, di parteciparvi e di trarne le motivazioni. Ancora di più: essa sta a indicare l’atteggiamento fondamentale verso il proprio gruppo; è strettamente connessa con il concetto di «rete sociale», che è come l’insieme dei legami di un individuo con altri referenti significativi (​​ famiglia, amici, vicini e altre realtà informali). Le funzioni di questi ultimi sono molteplici, tanto di natura culturale che strutturale e funzionale. Dal punto di vista culturale, essa conferisce il senso di​​ ​​ identità sociale attraverso l’appartenenza.

2. Per l’a.r. occorre un minimo di interazione dell’individuo con il gruppo religioso. Non si tratta solo di un minimo giuridico e teologico (per i cattolici battesimo e professione di fede), ma di un minimo psico-sociologico, difficilmente quantificabile ma necessario e non certo riducibile a contatti sporadici e occasionali. Si richiede, in altri termini, l’accettazione del sistema dei valori, delle​​ ​​ credenze e dei modelli del gruppo. Le ricerche sociologiche ci hanno mostrato che l’adesione ai valori religiosi è necessariamente differente nei diversi «tipi» di fedeli. In ciò influisce ovviamente la storia religiosa dei singoli, che condiziona la diversa disponibilità per un’adesione motivata e motivante. È necessaria anche un’assimilazione al gruppo religioso che giunge, nel caso ottimale, alla piena​​ ​​ identificazione, in quanto all’interno del gruppo l’individuo trova i valori che costituiranno la base del suo personale progetto di vita.

3. In rapporto al sentimento di a.r. l’esistenza di diversi gruppi di riferimento può interferire sia negativamente sia positivamente. Un caso tipico è legato alla genesi dell’a.r. Si pensi alle situazioni di ripetuto conflitto di a. cui è sottoposto il bambino, il fanciullo, l’adolescente, il giovane, quando si trovino inseriti nei vari gruppi familiari, scolastici, amicali che spesso presentano notevoli diversità nel grado di conformità ai sistemi normativi di credenze religiose. L’evoluzione del sentimento di a.r. sarà condizionata così dal gioco delle lealtà di gruppo e avrà successo quella che sembra soddisfare maggiormente il livello di aspirazioni dell’individuo. In definitiva si può affermare che il sentimento di a.r. è condizionato dal maggior o minor grado di integrazione e / o impegno del gruppo nella struttura sociale e dalla valutazione più o meno positiva che gli appartenenti danno di tale integrazione.

Bibliografia

Schachter S.,​​ The psychology of affiliation: experimental studies of the sources of gregariousness,​​ Stanford, Stanford University Press, 1959; Pollini G.,​​ A. e identità.​​ Analisi sociologica dei modelli di a.s.,​​ Milano, Angeli, 1987; Baragli C.,​​ Comunicazione di gruppo,​​ Ibid., 1988; Carrier H.,​​ Psico-sociologia dell’a.r.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Canobbio G. et al., L’a. alla Chiesa,​​ Brescia, Morcelliana, 1991; Donati P. P.,​​ Teoria relazionale della società,​​ Milano, Angeli, 1991;​​ Serpieri R.,​​ Identità e a. nella società della globalizzazione, Ibid., 2004.

J. Bajzek

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APPARTENENZA SOCIALE / RELIGIOSA

APPRENDIMENTO

 

APPRENDIMENTO

All’interno dei processi vitali personali, la specificità del processo di a. consiste nell’acquisizione di nuove​​ ​​ abilità o conoscenze mediante l’esperienza. Tuttavia la preponderanza del fattore esperienza non permette di dimenticare le condizioni della dotazione ereditaria, né gli apporti creativi della intelligenza: l’esperienza dà i suoi frutti nell’a. se il soggetto è sufficientemente maturo e si avvantaggia molto dal contributo della comprensione e dall’intuizione. Spesso può essere difficile decidere se una nuova capacità di condotta sia dovuta principalmente all’esperienza o a processi di comprensione intelligente. L’a. riguarda molti settori di abilità e di contenuti, ed è per sua natura intimamente legato ai vari processi educativi. Di fatto si imparano abilità motorie di differente complessità e precisione, si impara a percepire oggetti, persone, situazioni, si impara a leggere ed a comprendere, si imparano parole, concetti, sistemi di pensiero, si imparano linguaggi espressivi, si imparano reazioni emotive e stati affettivi duraturi, si imparano ansie e nevrosi, come si imparano gusti, preferenze, idiosincrasie, sistemi di valori, stili di vita, credenze, speranze e tecniche di difesa e di decisione. L’a. stesso, poi, può riferirsi a soggetti differenti: persone o animali, bambini, adolescenti o adulti, normali o con vari gradi e tipi di disabilità.

1.​​ I​​ tipi di a.​​ Tra i vari criteri possibili per tentare una tipologia dell’a., pare che il più adeguato sia quello che parte dai prodotti dell’a. stesso.

1.1.​​ A. di operazioni adattative.​​ Con questo processo il soggetto, uomo od animale, acquisisce, in seguito all’esperienza, nuove capacità di incontro efficiente con l’ambiente, con nuove modalità di operazione. È questo il campo tipico degli inizi della ricerca psicologica sull’a.: già nel 1905 I. P. Pavlov metteva in luce i «riflessi condizionati», cioè quei processi per cui uno stimolo, di per sé indifferente, può avviare la reazione dell’arco riflesso originale, a condizione di precedere regolarmente lo stimolo originale del riflesso. Questa scoperta fu ben accolta dai «comportamentisti», che però rilevarono che spesso non bastava apprendere un nuovo stimolo per una condotta riflessa già prefabbricata, ma occorreva imparare, in seguito all’esperienza, un nuovo modo di operare, per giungere alla soddisfazione di motivi attualmente urgenti. Nacque così in Thorndike prima e in molti altri ricercatori poi (tra di essi il più famoso è​​ ​​ Skinner) il progetto di ricercare come si apprendono nuove operazioni. Il termine appropriato sembrò essere quello di «condizionamento operante», perché veniva condizionata una operazione, oppure quello di «a. strumentale» perché si apprendeva un mezzo per soddisfare un bisogno. Questo tipo di a., legato alla motivazione, perdeva parte della sua caratteristica di automatismo, propria del riflesso condizionato, per entrare sotto l’influsso dell’intenzionalità. Sia il condizionamento classico, pavloviano, che quello operante hanno continui e notevoli effetti anche sull’uomo: mediante essi impariamo, in modo più o meno consapevole, gusti e avversioni, tecniche di accostamento e di prevenzione; come si dirà in seguito, anche l’uomo può apprendere opportune condotte per raggiungere premi ed evitare castighi.

1.2.​​ A. di informazioni.​​ Questo tipo di a. è oggetto di trattazioni specifiche (​​ informazione e​​ ​​ comunicazione), ed è pure studiato nell’ambito della​​ ​​ memoria; si rimanda perciò alle rispettive voci per indicazioni più estese. In particolare si può richiamare qui come l’a. riguardi i vari momenti del processo di informazione: si impara a percepire, cioè a riconoscere oggetti, persone, situazioni; si imparano informazioni singole, come pure sistemi semplici o complessi, a livello di esperienza concreta o di strutture cognitive astratte. Allo stesso modo si impara a conservare le informazioni, ad elaborarle, a ricuperarle e ad applicarle alle varie situazioni.

1.3.​​ A. di atteggiamenti.​​ L’atteggiamento è un tratto della personalità caratterizzato da una valutazione favorevole o contraria ad un certo oggetto (tipo di esperienza, persona, gruppo, idea, valore, ecc.). Anche questo tipo di a. è termine di considerazioni specifiche, da parte della​​ ​​ psicologia educativa, della psicologia sociale (a. sociale, di usi, valori, pregiudizi), e della psicologia clinica (a. di disposizioni emotive, sane o nevrotiche). Vi sono modi piuttosto passivi di apprendere un atteggiamento, come avviene nell’imitazione o per pressione sociale di un gruppo. L’a. di atteggiamenti per via di identificazione richiede una maggiore partecipazione del soggetto: questi percepisce il proprio bisogno di affermazione e di sviluppo, e si unisce emotivamente alla persona che vede vicina e riuscita, partecipando in tal modo all’esperienza del modello. Finalmente un atteggiamento può essere appreso in conseguenza di un mutamento interiore di quadri conoscitivi di valore, come influsso di nuovi motivi centrali, o in seguito ad esperienze particolarmente illuminanti. Al tema dell’a. di atteggiamenti appartiene anche la loro modifica, quando sono disadattanti; oltre che con i modi sopra accennati, questo risultato si raggiunge anche con gli interventi di trattamento dell’inconscio indicati dalle varie scuole di psicoterapia.

2.​​ Fattori dell’a.​​ L’a. ha varie condizioni che lo facilitano o lo inibiscono. Poiché vi sono tipi di a. molto diversi, occorre rifarsi ad ognuno di essi per rilevarne i fattori specifici. Se ne ricordano qui solo alcuni che riguardano il processo di a. in generale. Si vedrà in primo luogo un gruppo di fattori predisponenti, che vanno sotto il titolo di «disponibilità», quindi due altri fattori generali, quelli della motivazione e dell’esercizio o pratica.

2.1.​​ La disponibilità ad apprendere.​​ Già nel suo volume del 1913 Thorndike, applicando le nozioni di psicologia all’a. scolastico, parlava di​​ readiness​​ o disponibilità ad apprendere. Essa si può definire come la capacità e la volontà di apprendere. La capacità di apprendere a sua volta è determinata dalla maturazione e dal bagaglio di abilità e informazioni precedentemente acquisite, mentre la volontà di apprendere designa soprattutto le componenti emotive della situazione di a. a) La maturazione, o sviluppo determinato prevalentemente da fattori endogeni ereditari, ha una grande parte nel determinare la disponibilità ad apprendere. Certo, gli effetti della maturazione su una condotta non si possono misurare indipendentemente dagli apporti dell’ambiente e dell’esperienza. Tuttavia vi sono mutamenti di grande rilievo dovuti in gran parte a fattori endogeni. In particolare è rilevante lo sviluppo anatomico e funzionale del sistema nervoso, del sistema endocrino e dell’apparato muscolare. In psicologia evolutiva sono noti i vari stadi dello sviluppo cognitivo, ad es. secondo lo schema di Piaget, che suppongono fasi naturali di maturazione. b) Le abilità ed informazioni già possedute sono un altro prerequisito all’a. attuale. Sebbene questo sembri ovvio, e se ne tenga abitualmente conto nello svolgere passo passo un programma di insegnamento, tuttavia spesso non si è coscienti di ciò che di fatto si presuppone perché il soggetto possa comprendere informazioni, apprezzare beni educativi o apprendere tecniche di prestazioni professionali. Varie ricerche sono inoltre d’accordo nel segnalare che esistono momenti dello sviluppo particolarmente favorevoli all’a. di determinate abilità; se si lasciano passare a vuoto questi momenti critici, tale abilità non potrà più essere acquisita in seguito con quella perfezione, né essere alla base di ulteriori a. L’influsso dell’a. precedente è in particolare oggetto delle ricerche sul «transfer» o diffusività dell’a.; in specie si è rilevato che in un a. successivo vengono utilizzati sia materiali che tecniche precedentemente apprese. Si sono anche verificate le condizioni perché tale trasferimento avvenga: da simili verifiche può, ad es., emergere l’utilità di particolari curricoli o materie nel formare la mente. c) La disponibilità emotiva ad imparare si esprime sia nella motivazione che nelle disposizioni emotive che accompagnano l’a. Poiché la motivazione, come fattore di a., è stata ampiamente considerata dalle ricerche, ci limitiamo qui alla componente emotiva, essa pure, del resto, dipendente dalla motivazione.

2.2.​​ L’esito​​ dell’a. può dipendere da uno stato emotivo generale: soggetti ansiosi apprendono più facilmente, a pari condizioni, di soggetti non ansiosi quando percepiscono che il compito è alla loro portata, ma restano molto al di sotto delle loro capacità se vedono nel compito un rischio di fallimento. Atteggiamenti generali possono portare ad affrontare subito un impegno o a dilazionarlo, a rischiare esperienze nuove o ad essere conservatori, ad essere costanti oppure a lasciarsi abbattere da parziali insuccessi. Inoltre vi possono essere settori specifici di a. davanti ai quali il soggetto si sente emotivamente bloccato da atteggiamenti verso un dato ambiente educativo, verso persone significative, verso particolari materie o abilità da apprendere. Vi sono infine le disposizioni emotive del momento, dovute a particolari circostanze favorevoli od avverse, a benessere o disturbi fisiologici, a condizioni ambientali di clima, aerazione, pressione atmosferica, ecc. Anche la fatica, che cresce con il tempo di applicazione, diventa un fattore negativo di a. Le ricerche hanno messo in luce che esiste una grande variabilità nella disponibilità ad apprendere, e che perciò è più importante rilevare l’età nervosa, endocrina, mentale che non quella cronologica. Inoltre ogni soggetto ha la sua storia che ha creato in lui particolari disposizioni. Si impone perciò la necessità di rilevare, nei momenti opportuni, la disponibilità ad apprendere, sia con procedimenti intuitivi, sia con tecniche psicometriche appropriate.

2.3.​​ La motivazione.​​ È ovvio che la​​ ​​ motivazione influisca sul processo e sull’esito dell’a., se si tengono presenti i quattro effetti della motivazione stessa, che sono quelli di iniziare, dirigere, sostenere l’attività e sensibilizzare selettivamente il soggetto. Per i vari tipi di a. la motivazione ha ruolo e contenuti differenti: ininfluente nel condizionamento classico, è la molla principale dell’a. strumentale, e si configura in modo specifico nell’a. di informazioni e di atteggiamenti. L’intensità ottimale della motivazione deve essere tale da sollecitare efficacemente il soggetto, senza tuttavia disturbare emotivamente il processo con una eccessiva urgenza. Dal punto di vista educativo pare particolarmente significativa la distinzione fra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca: la prima tende ad un risultato che è prodotto naturale dell’a., mentre la seconda tende ad una soddisfazione aggiunta dall’esterno, ad es. al riconoscimento sociale, a vantaggi economici, e simili. Quando il soggetto non è ancora maturo per apprezzare certi beni culturali, è prassi comune avviarlo verso di essi con incentivi estrinseci. Varie ricerche condotte in ambito scolastico dimostrano l’effetto della lode e del biasimo sull’a., e dimostrano pure che questi incentivi hanno differente risonanza in differenti personalità. In particolare si è verificato che il comunicare con chiarezza e tempestivamente i risultati dell’a. ne facilita il progresso, sia perché serve come lode o biasimo (motivazione estrinseca), sia perché informa su ciò che, nell’a., funziona o non funziona. Si è anche notato che, nell’a. scolastico, una motivazione estrinseca comporta principalmente una strategia riproduttiva: lo studente si limita a fissare il puro necessario per poter riprodurre il materiale, e la tecnica prevalente è quella della memorizzazione meccanica. Una motivazione intrinseca, al contrario, porta il soggetto ad approfondire la materia, a comprenderla e collegarla con altre informazioni, in una parola a fare un a. significativo. Infine è da rilevare che una educazione riuscita comporta che i valori siano ricercati per se stessi, e che perciò l’educando passi dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca. Talora un educatore può illudersi di aver raggiunto certi scopi basandosi su condotte esteriori dell’educando che possono essere governate da motivazioni del tutto estranee ai beni educativi che sembrano incarnare.

2.4.​​ L’esercizio.​​ Poiché nell’a. l’acquisizione di nuove abilità è dovuta principalmente all’esperienza, il fattore esercizio risulta essenziale. Questo fattore si misura nelle ripetizioni di un’operazione, o nel tempo dedicato alla pratica. Nel processo dell’a. si manifesta un continuo e progressivo miglioramento delle prestazioni, frutto dell’accumularsi dell’esperienza; questo lento e continuo progresso differenzia l’a. dalla condotta intelligente, in cui si passa direttamente dall’incapacità, dovuta alla mancanza di comprensione, alla piena abilità, come frutto dell’intuizione. La funzione della ripetizione è quella di fissare e consolidare le connessioni nervose e simboliche richieste e di eliminare i passi non necessari, in modo da rendere fluida e rapida la condotta appresa. Quando le attività da apprendere sono complesse, e cioè risultano dalla somma di varie abilità elementari, si può notare il fenomeno del​​ plateau:​​ dopo un iniziale miglioramento, per un certo periodo non si rilevano progressi pur continuando l’esercizio, fino a quando il perfetto a. delle componenti elementari non permette la loro organizzazione nell’attività globale. Come per la memorizzazione, anche in questo caso si pone il problema se sia più efficiente un esercizio ammassato (in sessioni prolungate) o distribuito (in più sessioni relativamente brevi); in genere valgono le stesse indicazioni che si danno per la memorizzazione: non fare sessioni troppo brevi per utilizzare bene il tempo di «riscaldamento» o di preparazione, e per poter affrontare in una sola sessione unità coerenti del compito e, allo stesso tempo, evitare sessioni troppo lunghe, nelle quali non vi sia modo di rielaborare interiormente ciò che si apprende e la fatica, accumulandosi, renda inefficiente l’esercizio. Infine ci si chiede se sia meglio affrontare il compito da apprendere in modo globale o per singole parti; la risposta deve tener conto della natura del compito (in alcuni casi non ha senso suddividere il compito da apprendere, in altri la complessità impone la suddivisione), e delle disposizioni del soggetto (una persona più intelligente può approfittare maggiormente del contesto globale).

3.​​ Implicanze educative.​​ Il vasto campo degli oggetti, dei processi e dei fattori dell’a. apre una estesa problematica educativa, che in buona parte viene trattata nelle voci apposite. Tutto il campo dell’a. scolastico rimanda alla psicologia educativa / scolastica e della comunicazione; allo stesso modo l’a. di atteggiamenti suppone lo studio dell’apporto emotivo e valoriale del contatto con l’ambiente sociale. Raccogliendo alcune indicazioni da quanto si è esposto, notiamo come lo studio dell’a. rivela che si può essere condizionati senza accorgersene e che in noi si possono creare connessioni inconsce e incontrollate, che ci aiutano o ci disturbano. A questo riguardo è anche da rilevare che, accanto all’a. intenzionale, o appositamente ricercato, vi è un a. «incidentale», cui possiamo essere sottoposti senza volerlo. In secondo luogo si ricorda l’urgenza di verificare la disponibilità ad apprendere, e a curarla dove fosse carente; qualora ciò fosse trascurato, l’offerta educativa potrebbe essere del tutto o in parte inutile. Ancora si ricorda l’importanza di favorire il passaggio dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca, così che l’educando non si senta governato dall’esterno, ma operi per adesione personale a valori da lui percepiti come tali. Infine, richiamando il vecchio detto che si impara non per la scuola, ma per la vita, si farà particolare attenzione che quanto si offre come oggetto di a. possa servire come base per quell’a. che, durante tutta la vita, permette di affrontare con successo i vari compiti che essa presenta.

Bibliografia

Hilgard E. R. - G. H. Bower,​​ Le teorie dell’a.,​​ Milano, Angeli, 1970; Bloom B. S.,​​ Caratteristiche umane e a. scolastico,​​ Roma, Armando, 1979; Roncato S.,​​ A. e memoria,​​ Bologna. Il Mulino, 1982; Bertondini A.,​​ Biologia e a.,​​ Bologna, Esculapio, 1984; Boscolo P.,​​ Psicologia dell’a. scolastico. Gli aspetti cognitivi,​​ Torino, UTET, 1986; Cornoldi C.,​​ A. e memoria nell’uomo,​​ Ibid., 1986; Gagnè E. D.,​​ Psicologia cognitiva e a. scolastico,​​ Torino, SEI, 1989; Montuschi F.,​​ Competenza affettiva e a. Dalla alfabetizzazione affettiva alla pedagogia speciale,​​ Brescia, La Scuola, 1993; Ronco A.,​​ Introduzione alla psicologia,​​ vol. 2:​​ Conoscenza e a.,​​ Roma, LAS, 1994; Fiorin I.,​​ La relazione didattica:​​ insegnamento e a. nella scuola che cambia, Brescia, La Scuola, 2004.

A. Ronco

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APPRENDIMENTO

APPRENDIMENTO AUTODIRETTO

 

APPRENDIMENTO AUTODIRETTO

In ing.​​ Self-directed learning, in fr.​​ autoformation.​​ Dirigere se stessi nel proprio a. culturale e / o professionale può essere riletto secondo due prospettive complementari, integrando tra loro i concetti di autodeterminazione e di autoregolazione. Con il termine «autodeterminazione» si segnala la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore, della intenzionalità dell’azione: è il registro della motivazione, della decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il termine «autoregolazione», che evoca monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un sistema d’azione si insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione. Al primo livello, nel dare senso, finalità, scopo all’azione ci si colloca sul piano del controllo di tipo «strategico», che mette in evidenza la componente motivazionale, di senso, di valore. Al secondo livello si richiede, invece, di sorvegliare la coerenza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o pilotarla; si tratta di un livello «tattico».

1. Nel caso dell’a. scolastico, le indagini finora svolte (Pellerey, 2006) hanno messo in luce le caratteristiche che distinguono gli studenti che sono in grado di autodirigere il proprio a. da quelli che non lo sono. 1) Essi hanno famigliarità e sanno utilizzare un insieme di strategie cognitive (memorizzazione, elaborazione, organizzazione), che li aiutano a considerare, trasformare, elaborare, organizzare e recuperare le informazioni. 2) Sono in grado di pianificare, controllare e dirigere i propri processi mentali al fine di conseguire obiettivi personalmente scelti. 3) Mostrano un insieme di convinzioni motivazionali ed emozioni favorevoli, come senso di autoefficacia scolastica, orientamento ad apprendere e non solo a conseguire buoni voti, sviluppo di emozioni positive nei riguardi dei compiti da affrontare (gioia, soddisfazione, entusiasmo, ecc.) e la capacità di controllarle e modificarle secondo le esigenze dei compiti e delle situazioni. 4) Sanno pianificare e controllare il tempo e lo sforzo coerentemente con gli impegni assunti, riuscendo a strutturare ambienti favorevoli all’a. e cercando nelle difficoltà l’aiuto degli insegnanti e / o dei propri compagni. 5) In base alle possibilità esistenti, mostrano grande impegno nel partecipare alla gestione degli impegni scolastici, del clima della classe e della sua organizzazione. 6) Sono capaci di mettere in atto una serie di strategie volitive, dirette ad evitare distrazioni interne ed esterne, a mantenere la concentrazione, lo sforzo e la motivazione, mentre portano a termine i loro compiti.

2. Come si può facilmente notare, le prime due indicazioni si riferiscono ad aspetti comportamentali di tipo metacognitivo, in quanto tengono conto di conoscenze, sensibilità, monitoraggio e governo di processi di natura cognitiva. La terza indicazione tocca aspetti di gestione della dimensione emozionale e motivazionale. La quarta e la sesta coprono competenze di natura volitiva, mentre la quinta evoca senso di partecipazione e responsabilità alla vita della comunità di a.

Bibliografia

Zimmerman B. J.,​​ A social cognitive view of self-regulated academic learning, in «Journal of Educational Psychology» 81 (1989) 329-339; Boekaerts M. - P. R. Pintrich - M. Zeidner (Edd.),​​ Handbook of self-regulation, San Diego, CA, Academic Press, 2000; Carré P. - A. Moisan,​​ La formation autodirigée.​​ Aspects psychologiques et pédagogiques, Paris, L’Harmattan, 2002;​​ Pellerey M.,​​ Dirigere il proprio a., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey

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APPRENDIMENTO COOPERATIVO

 

APPRENDIMENTO COOPERATIVO

L’a.c. (Cooperative learning)​​ è un metodo d’​​ ​​ insegnamento che si contrappone a metodi di tipo individualistico e competitivo. In senso generale può essere definito come un insieme di tecniche per la classe secondo le quali gli studenti lavorano in piccoli gruppi per attività di a. e ricevono valutazioni in base ai risultati conseguiti dal gruppo. In questo modo esso si propone di coinvolgere maggiormente le risorse e la responsabilità degli studenti nel loro a.

1. Dell’a.c. si conoscono varie modalità di applicazione: a) per D. W. Johnson e R. T. Johnson (1994), gli elementi fondamentali del​​ Learning together​​ sono: l’interdipendenza positiva, l’interazione promozionale faccia a faccia e l’uso di competenze interpersonali, la valutazione individuale e di gruppo, la revisione dell’attività di gruppo; b) per Slavin (1990) lo​​ Student team learning​​ ha i suoi punti forza nell’interazione del piccolo gruppo ma, soprattutto, nella responsabilità individuale e nell’elargizione di incentivi e ricompense il cui conseguimento stimola il gruppo all’impegno; c) secondo Kagan (1994), lo​​ Structural approach​​ propone come principi chiave: l’interazione simultanea, la partecipazione, l’interdipendenza positiva e la responsabilità individuale nei risultati di a. conseguiti; d) il​​ Group investigation​​ (Sharan-Sharan, 1992; Sharan, 1994) è un approccio particolarmente seguito e sviluppato in Israele. Esso sottolinea come elementi efficaci dell’a.: la ricerca, l’interazione, l’interpretazione e la motivazione intrinseca; e) la​​ Complex instruction​​ (Cohen, 1994) organizza l’a.c. a partire dalla constatazione che la formazione del piccolo gruppo favorisce i migliori e indica strategie da seguire affinché sia data a tutti i membri di un gruppo la stessa opportunità di esprimersi e di apprendere. In questo orientamento gli elementi essenziali sono: correggere i pregiudizi sulle abilità, educare gli studenti all’interazione e alle specifiche competenze secondo il compito richiesto, organizzare compiti complessi, attribuire a ogni studente un ruolo da svolgere, valutare il lavoro di gruppo per poterlo migliorare; f) il​​ Collaborative approach​​ (Cowie, 1995) raccoglie un vasto movimento che unisce al tema della mediazione del gruppo interessi e punti di vista diversi: l’a., prospettive curricolari, temi specifici (politici, sociali, psicologici).

2. Gli elementi essenziali per la scuola suggeriti dalla Cowie sono: organizzazione dei gruppi non basati sull’amicizia, insegnamento esplicito delle competenze sociali, gestione positiva del conflitto. Affinché i gruppi di studenti compiano un a.c., è necessaria la messa in atto di quattro elementi fondamentali: l’interdipendenza positiva, l’interazione faccia a faccia e l’uso di competenze sociali, la valutazione individuale e, infine, la revisione e il miglioramento continuo del lavoro di gruppo.

Bibliografia

Slavin R. E.,​​ Cooperative learning: theory,​​ research,​​ and practice,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1990; Sharan Y. - S. Sharan,​​ Expanding cooperative learning through group investigation,​​ New York, Teachers College Press, 1992; Cohen E. G.,​​ Restructuring the classroom: conditions for productive small groups,​​ in «Review of Educational Research» 64 (1994) 1-35; Johnson D. W. - R. T. Johnson - E. J. Holubec,​​ Cooperative learning in the classroom,​​ Alexandria, ASCD, 1994; Kagan S.,​​ Cooperative learning,​​ San Juan Capistrano, Kagan Cooperative Learning, 1994; Kagan S. - M. Kagan, «The structural approach: six keys to cooperative», in S. Sharan (Ed.),​​ Handbook of cooperative learning methods,​​ Westport, Greenwood Press, 1994, 115-133; Cowie H.,​​ International perspectives on cooperative and collaborative learning: an overview,​​ in «International Journal of Educational Research» 23 (1995) 197-200; Marín S.,​​ Aprender cooperando: el aprendizaje cooperativo en el aula, Madrid, Dir. General de Ordenación, 2003.

M. Comoglio

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