AMBIENTE

 

AMBIENTE

Dal lat.​​ ambiens,​​ participio da​​ ambire​​ (andare intorno, stare intorno, circondare, essere circostante; ma anche desiderare). Da qui il significato di una proiezione dall’interno verso l’esterno.​​ Lato sensu​​ si parla di a. per indicare: a) il complesso delle condizioni esterne a un organismo dove si svolgono la vita vegetale e quella animale, b) l’insieme delle caratterizzazioni biologiche, sociali, culturali di un dato sistema, c) una specifica parte di spazio. Nelle​​ ​​ scienze dell’educazione, si affaccia,​​ stricto sensu,​​ un’idea di a. quale «mondo» (Welt)​​ culturale in cui avvengono i processi e i percorsi della formazione (Bildung)​​ del soggetto. Non privo di assonanze con l’idea di​​ medius locus​​ presente nella cultura latina, il concetto di a. si è tuttavia sviluppato soltanto di recente. Lo si trova, così, all’interno delle scienze umane, in particolare nella sociologia di​​ ​​ Comte, nella psicologia di​​ ​​ Watson, nella pedagogia di​​ ​​ Rousseau, nella psicanalisi di​​ ​​ Freud. Diviene poi riferimento comune per le scienze naturali e più specificamente nella biologia, nell’ecologia e, ormai, anche in genetica o nelle​​ ​​ neuroscienze. Importanza ragguardevole riveste pure nelle scienze politiche, nelle scienze sociali ed economiche, in urbanistica e architettura, nella semiotica dello spazio, nella​​ ​​ prossemica e nella teoria dei sistemi, infine all’interno delle stesse scienze dell’educazione Sicché, alla desueta «mesologia pedagogica» (dimenticato settore della pedagogia, che studia l’a. ponendolo al centro dell’itinerario di crescita) è venuta sostituendosi una più confacente​​ pedagogia degli a. educativi,​​ orientata a sondare le interazioni istituite tra la formazione, l’educazione e l’istruzione dell’uomo con: a) gli a. abitativi (la casa, gli arredi), b) gli a. scolastici (l’aula, l’edificio scolastico, i laboratori), c) gli a. sociali (la città, l’ecosistema, i mondi culturali dell’extrascolastico, il paesaggio accolto come​​ genius loci).​​ Nel dibattito pedagogico contemporaneo e all’interno della medesima attività educativa, la categoria a. sussume una propria centralità, specialmente in relazione alle tematiche della formazione umana, degli spazi educativi, delle variabili ecologiche e psico-sociali, dei beni ambientali e culturali, di ogni teoria pedagogica sugli a. educativi.

1.​​ A. e formazione umana.​​ La formazione dell’uomo, della sua parte più profonda e nascosta e del suo stesso «mondo» culturale può essere compresa e guidata solo se il processo educativo viene confacentemente saldato all’a. familiare scolastico e sociale. Il nesso tra a. e formazione umana accompagna la stessa genesi della crescita fisico-biologica, socio-relazionale, psicosessuale, emotivo-affettiva, cognitivo-intellettiva, etico-valoriale e spirituale del soggetto in ogni età della vita. Si tratta, allora, di operare una ricomposizione fra le teorie innatistiche (nella struttura genetica individuale vi è già scritto il cammino formativo) e le teorie ambientalistiche (dall’a. di appartenenza dipende il futuro del singolo), al fine di recuperare la positività del legame che unisce​​ natura​​ e​​ cultura,​​ evidenziando la reciprocità fra il soggetto e l’a. in cui vive.

2.​​ Antropologia pedagogica e spazio educativo.​​ Al problema della natura umana colta nella sua specificità ontologica, assiologica e teleologica, si affianca quello della cultura umana percepita nelle dimensioni storiche etologiche ed esistenziali. Il «mondo» del soggetto coincide sia con il suo universo personale più intimo sia con l’onnilateralità delle proiezioni verso cui il soggetto in evoluzione viene (o si sente) orientato. Per questo la scelta degli a. in cui avvengono i processi di formazione risulta decisiva. Ecco allora che un’antropologia pedagogicamente strutturata incontrerà nell’idea di «spazio educativo» il luogo e il fattore a cui ascrivere gli eventi formativi nel macro- e nel micro-cosmo sociale: la​​ ​​ ludicità e il​​ ​​ lavoro, l’educazione e l’istruzione permanente, l’autoeducazione e l’eteroeducazione, il corpo e la mente costituiscono ulteriori riferimenti tematici da non trascurare in una pedagogia degli a. educativi.

3.​​ Ecologia ambientale e sociale.​​ La grave e forse irreversibile crisi ecologica in cui versa il pianeta ha obbligato le scienze umane e, al loro interno, le scienze dell’educazione a ripensare i rapporti con quella branca della biologia che studia gli organismi viventi e il loro a. circostante: l’ecologia. Confermatasi ormai come disciplina dotata di uno statuto epistemologico autonomo, insieme alle scienze sociali ha prodotto importanti teorie sull’habitat​​ umano, sui pericoli che la «modernità» (con la scienza a servizio dell’industrializzazione, delle tecnologie nucleari, delle guerre) ha posto in essere, sui rischi per l’intero ecosistema. La sociologia, più in particolare quella urbana, si è invece misurata con i grandi processi demografici, economici e politici presenti nella gestione di quello smisurato «sociosistema» che è la metropoli contemporanea. L’ecologia sociale, poi, occupandosi dei fenomeni di migrazione, ha ricondotto l’analisi dei​​ sistemi naturali​​ e dei​​ sistemi artificiali​​ verso i confini dell’intercultura, dell’interrazzialità, dell’intersoggettività.

4.​​ Beni ambientali,​​ beni culturali,​​ beni mediali.​​ Nel pensare a un sistema formativo polimorfico, flessibile e integrato in una rete unitaria di saperi e di servizi stesa sul​​ territorio,​​ viene accreditandosi l’idea dell’a. pensato a partire dai «beni» che racchiude e, con l’impegno dell’uomo, custodisce. Fra questi spiccano i​​ beni ambientali,​​ ossia la natura incontaminata e il paesaggio che non è stato deturpato dall’azione umana; i​​ beni culturali​​ ovvero quegli a. ricchi di significato pedagogico (tra cui risaltano le biblioteche, i musei, i teatri, gli archivi, ecc.), che abbisognano di tutela e valorizzazione; i​​ beni mediali,​​ quindi tutti gli a. in cui prevalgono i linguaggi massmediatici (cineteche, fonoteche, mediateche).

5.​​ L’a. educativo e la sua pedagogia.​​ L’a. implica oggi la «responsabilità» dell’uomo che lo abita e quella dei sistemi sociali complessi che lo gestiscono. Se a livello individuale si è evoluta non poco la coscienza ecologica dei singoli, sul piano collettivo l’a. rimane ancora una sorta di immensa zona franca di grande contenitore da riempire, di terra di nessuno dove poter inquinare senza essere perseguiti da una legislazione, peraltro incompleta e permissiva. La pedagogia e le scienze dell’educazione hanno il compito di contribuire a chiarire l’importanza formativa dell’a. per un​​ uomo umano.​​ Inoltre, esse possono maturare una consona teoria degli a. educativi che, muovendo dalla nozione di​​ spazio pedagogico,​​ sappia riconsiderare la casa, la scuola e l’extrascuola come i luoghi in cui viene costruendosi la formazione personale e comunitaria. La​​ città​​ può essere allora considerata come la più significativa estrinsecazione del concetto di a., dal cui dimensionarsi pedagogico dipende il conformarsi della «città educante». L’​​ ​​ educazione ambientale si schiude, così, all’​​ ​​ educazione sociopolitica oltre che alle politiche dell’a. La questione ambientale pone, quindi, a tema​​ la vita della vita,​​ l’ecologia dello sviluppo umano,​​ il nesso tra​​ umanesimo e urbanesimo,​​ i progetti per l’educazione ambientale. È nel segno distintivo dell’umano che tali prospettazioni vanno affrontate, affinché l’a. sia una costante positiva della formazione.

Bibliografia

Spranger E.,​​ A. e cultura,​​ Roma, Armando, 1959; Flores d’Arcais G.,​​ L’a.,​​ Brescia, La Scuola, 1962; Lewin K.,​​ Il​​ bambino nell’a. sociale,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1963; Clausse A.,​​ Teoria dello studio di a., Ibid., 1964; Debesse Arviset M. L.,​​ A. ecologico e didattica,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Norberg Schulz Ch.,​​ Genius loci. Paesaggio,​​ a.,​​ architettura,​​ Milano, Electa, 1979; Giolitto P.,​​ Educazione ecologica,​​ Roma, Armando, 1983; Gennari M.,​​ Pedagogia degli a. educativi,​​ Ibid., 1988; Id.,​​ Semantica della città e educazione,​​ Venezia, Marsilio, 1995, Id.,​​ Filosofia della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001.

M. Gennari

AMERICA DEL NORD:​​ sistemi educativi

Pur comprendendo l’A.d.N. sia gli Stati Uniti sia il Canada, l’attenzione sarà focalizzata principalmente sul primo Paese a motivo del loro ruolo di superpotenza, mentre il secondo verrà trattato dove aggiunge specificità importanti.

1.​​ L’evoluzione.​​ Negli Stati Uniti può essere suddivisa in tre periodi. Il primo, quello​​ coloniale​​ (1607-1787), è stato influenzato dalla cultura europea, in particolare inglese. Le scuole ebbero inizio nella colonia del Massachusetts, dove era preminente lo studio del latino. Il migliore esempio è la​​ Latin Grammar School​​ (liceo umanistico) di Boston (1635). Il periodo​​ nazionale​​ (1787-1890) vide inizialmente la nascita e lo sviluppo dell’American Academy​​ (accademia americana) che, operante a livello locale o regionale e nella maggior parte dei casi privata, ha garantito al Paese, ancora scarsamente colonizzato, una istruzione secondaria, offrendo un programma di studi ampio e persino troppo ambizioso. Con la fine della Guerra Civile le accademie sono entrate in crisi perché erano istituzioni rurali, mentre ormai negli Stati Uniti si stava avviando un notevole sviluppo industriale, accompagnato dalla crescita dei centri urbani. La​​ High School​​ (scuola secondaria superiore), che ha sostituito l’accademia, era invece un’istituzione cittadina. Fondata per la prima volta a Boston (1821), in origine aveva come scopo quello di soddisfare i bisogni dei ragazzi che non avrebbero frequentato l’università. Durante il periodo nazionale, l’istruzione superiore (colleges​​ ed università) ha registrato una forte crescita. Tuttavia, per la maggior parte del XIX sec., i​​ colleges​​ si sono limitati a offrire il 1° ciclo di studi. Anche la Costituzione federale ha esercitato un influsso rilevante sull’istruzione. Per es., sancendo la separazione tra Chiesa e Stato, ha contribuito a creare un sistema di istruzione totalmente privato che non riceve finanziamenti pubblici. Nel XX sec. si è assistito in tutti gli Stati Uniti ad una espansione incredibile della scolarizzazione, dovuta tra l’altro alla ricaduta sull’istruzione delle trasformazioni del sistema socio-economico. Inoltre, nel 1954 con una importante sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Brown v. Kansas)​​ è stata vietata la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Ciò ha messo fine alla prassi, durata un secolo, di educare i giovani afro-americani in «strutture separate, ma uguali». La prima metà del XX sec. ha visto l’emergere di educatori che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’istruzione. Lo sviluppo più controverso e di vasta portata è stato il movimento delle «scuole progressive» di cui​​ ​​ Dewey fu il principale teorico. Diversamente dagli Stati Uniti che hanno puntato sull’assimilazione culturale, il​​ Canada​​ si è caratterizzato per il multiculturalismo, per una struttura a mosaico e la coesistenza non solo delle culture dominanti inglese e francese, ma anche di diversi gruppi etnici. Dal sec. XVII l’obiettivo fondamentale è stato l’adattamento e la collaborazione tra le varie comunità che ha portato al bilinguismo e alla eliminazione delle discriminazioni anche degli altri gruppi. Inoltre, si è registrato il passaggio da colonia dipendente dell’impero britannico (come gli Stati Uniti) a Paese indipendente però entro il Commonwealth (diversamente dagli Stati Uniti).

2.​​ I sistemi attuali.​​ Durante le ultime due decadi si è realizzata anche negli Stati Uniti e nel Canada la transizione verso la società della conoscenza. Negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘80 una serie di rapporti ha sottoposto ad un esame accurato il sistema di istruzione, denunciando un abbassamento preoccupante della qualità. Nonostante il cammino percorso in positivo, la situazione nella decade 90 presentava diversi aspetti problematici; di conseguenza nel 1994 il governo Clinton ha varato un suo programma nel campo dell’istruzione Non si può negare che gli interventi adottati abbiano esercitato un impatto positivo; tuttavia, essi sono lontani dal pieno conseguimento delle mete proposte. Il programma del presidente Bush mira anch’esso ad elevare l’efficienza e l’efficacia del sistema, puntando in particolare a rafforzare la libertà di scelta tra le scuole mediante l’attribuzione alle famiglie di un buono da spendere per l’educazione dei figli anche in istituti privati. Quanto al Canada va sottolineato il balzo in avanti nella percentuale del gruppo di età 25-34 anni che possiede un titolo post-secondario dal 49% del 1991 al 61% del 2001, anche se nel 2001 ben il 29% della popolazione con 25 anni o più non aveva completato al secondaria superiore (Education in Canada: raising the standard, 2003). Negli Stati Uniti e nel Canada esiste il più ampio decentramento, anche se recentemente nei due Paesi si è assistito a una crescita del ruolo del governo federale. I singoli Stati (o province autonome) sono responsabili dell’istruzione e, a loro volta, delegano questa responsabilità alle comunità locali. Occorre notare che a causa della decentralizzazione delle scuole non c’è uniformità nell’organizzazione scolastica o nel curricolo. Anche le scuole private godono dell’autonomia operativa. Negli Stati Uniti la percentuale dei loro iscritti varia dal 35% della pre-primaria, al 12% della primaria, al 10% della secondaria e nel Canada le cifre sono rispettivamente il 5%, il 4% e il 6% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000). Per quanto riguarda la struttura del sistema degli Stati Uniti, la sequenza elementare-media-superiore (elementary-middle school-high school)​​ è di dodici anni. In Canada l’organizzazione tradizionale prevedeva 8 anni per la primaria e 4 per la secondaria. In quasi tutte le province è stata però introdotta la scuola intermedia che comprende le classi 7-9. Flessibilità dei piani di studio mediante discipline opzionali, promozione per materia, valutazione continua sono elementi comuni. In entrambi i Paesi sono diffusi i​​ junior​​ o​​ community colleges​​ (istituti post-secondari o di istruzione superiore) di due anni che offrono una formazione professionale con un’apertura alle materie umanistiche. Dopo i due anni molti studenti si trasferiscono all’università. L’ammissione all’università varia: alcune istituzioni richiedono solo un diploma di secondaria superiore; altre esigono anche un punteggio soddisfacente in un test di profitto amministrato su base nazionale. Complessivamente la percentuale delle iscrizioni all’istruzione terziaria raggiunge l’80.9% negli Stati Uniti e l’87,3% nel Canada (Ibid.).

Bibliografia

Cremin L. A.,​​ American education,​​ New York, Harper & Row, 1980; Cupparoni A., «Canada», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 423-428;​​ Rapporto mondiale sull’educazione 2000, Roma, Unesco / Armando, 2000;​​ Education in Canada: Raising the standard, Ottawa, Ministry of Industry, 2003; Malizia G., «Stati Uniti», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica.​​ Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 28-31; Abernathy S.,​​ No child left behind and the public school, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2007; Sherman J. D. - J. M. Poirier,​​ Education equity and public policy, Montreal, UIS, 2007.

M. Ribotta - G. Malizia

AMERICA LATINA:​​ sistemi formativi

La diffusione universale del​​ ​​ sistema formativo è stata ritenuta un assioma e la scolarizzazione della gioventù una meta indeclinabile, cosa che porta ad assumere il sistema formativo come una​​ variabile indipendente.​​ La sua genesi ed il suo consolidamento riconducono alla Rivoluzione industriale, convergenza di cambiamenti radicali nella dimensione​​ produttiva​​ (macchina a vapore), in quella​​ politica​​ (Rivoluzione francese) e​​ scientifica​​ (scienza empirica) che portano ad un modello di​​ società urbano-industriale,​​ la cui complessità fa nascere l’esigenza di un sistema formativo. L’educazione scolastica da​​ privilegio​​ diventa​​ diritto universale​​ che deve preparare e condurre gli individui alla partecipazione sociale (democrazia). L’iter del cambio sociale in Occidente e le sue tappe di modernità e post-modernità non sono universali.

1. La​​ storia​​ dell’A.L. ha comportato un cammino di 500 anni non solo di sviluppo della​​ ​​ cultura, ma anche di acculturazione imposta dall’alto e dall’esterno, a cui la​​ ​​ Chiesa ha contribuito in positivo e in negativo creando un’immensa rete di scuole per la popolazione indigena, università e seminari per le classi dirigenti della colonia. L’indipendenza dell’A.L. nelle due prime decadi del sec. XIX (quella dei Caraibi inglesi è del 1960 ca.) fa sì che i nuovi poteri politici contestino alla Chiesa il monopolio educativo; questo di fatto perdurerà fino all’arrivo con ritardo della Rivoluzione industriale in A.L. a metà del sec. XX, quando comincia veramente la trasformazione rurale-urbana che impone l’espansione del capitalismo industriale dell’immediato dopoguerra. Come risposta positiva all’effervescenza sociale in A.L. ma anche per scongiurare il pericolo di rivoluzioni come quella di Cuba, nel 1961 è stata stretta l’Alleanza per il Progresso tra USA e A.L., che entrò nel​​ modello di sviluppo​​ occidentale con propri fini di trasformazione socio-economica.

2.​​ L’educazione per lo​​ ​​ sviluppo​​ si tradusse nell’espansione, nel consolidamento e nella modernizzazione del fino allora incipiente sistema formativo, processo che si può collocare negli ultimi cinquanta anni. Esistono dei parametri che bisogna assumere come riferimento per analizzare i sistemi scolastici in A.L. Nel 1950 il 60% della popolazione era rurale; questo dato e il tasso di analfabetismo globale del 50% (quello rurale era del 64% ) denota antecedenti di scolarizzazione molto scarsa e forte discriminazione territoriale. In seguito avvengono grossi cambiamenti: nel 1950 / 75 la popolazione ha registrato la maggiore crescita del mondo, raddoppiandosi, e la percentuale urbana è passata al 60% ed è arrivata intorno ai tre quarti nel 2000. Gli indici decrescenti di analfabetismo rivelano grandi sforzi per sviluppare la scolarità di base soprattutto nelle zone rurali: nel 1970 il tasso di analfabetismo è del 28%; nel 1980 del 20%; nel 1990 del 15% e nel 2000 del 12% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). L’espansione scolastica in questo periodo si accompagna ad una percentuale molto elevata di abbandoni nei primi anni di scolarizzazione, sistemi e curricoli inadeguati per la popolazione alla quale sono destinati, organizzazione e amministrazione carenti, condizione sfavorevole nelle zone rurali e suburbane. Per questo l’intera regione assunse allora il​​ Proyecto Principal de Educación​​ (PPE), che aveva tra i suoi obiettivi quello di offrire una educazione generale minima dagli otto ai dieci anni e proporsi come scopo quello di incorporare nel sistema formativo tutti i ragazzi in età scolastica prima del 1999 e di adottare una politica utile ad eliminare l’analfabetismo prima della fine del secolo oltre che dedicare investimenti gradualmente maggiori alla educazione. Il PPE diviene il principale catalizzatore dell’educazione a partire dal 1980. Gli investimenti reali, tuttavia, sono molto lontani dalle mete e troppo inferiori a quanto si investe in educazione nel mondo sviluppato.

3. Dal 1960 in poi i dati della scolarizzazione in tutti i livelli del sistema formativo mostrano la grande trasformazione educativa della regione nelle ultime decadi. I dati evidenziano un livello prescolastico ancora insoddisfacente con un tasso di scolarizzazione che va dal 33% della Colombia al 98% del Cile con la maggioranza dei Paesi che si collocano intorno al 50% (Ibid.). Nella scuola primaria è chiara la tendenza alla copertura totale della domanda potenziale; l’educazione secondaria cresce più di sette volte rivelando dinamiche di scolarizzazione di massa. L’istruzione superiore presenta la maggior crescita relativa del sistema formativo, quindici volte, cosicché il tasso raggiunge la quinta parte della domanda potenziale; rimane tuttavia il carattere elitario della educazione superiore.

4. Le disparità evidenziate dai dati globali diventano enormi per effetto di fattori strutturali, come le notevoli discontinuità rurali-urbane nella maggior parte dei Paesi; le molteplici etnie indigene con lingue proprie e maggioritarie in varie nazioni; i ritmi diversi di modernizzazione in senso urbano-industriale; il fatto che, fino al PPE, l’espansione del sistema formativo raramente è stato il risultato di previsioni e azioni politiche; inoltre, il controllo esercitato dai sottosistemi privati sulla crescita dei livelli secondario e superiore, ha prodotto la segmentazione dei sistemi educativi in favore delle classi medio-alte a discapito della promozione dei gruppi popolari maggioritari, cosa che spiega la maggiore crescita nei livelli citati del controllo per l’accesso. Così il sistema formativo presenta tratti di «macrocefalia» ed è assoggettato agli interessi privati con tutti i loro poteri. I gruppi rurali e suburbani non sono rimasti emarginati, ma piuttosto confinati, e le culture indigene sono state soppiantate dall’imposizione di lingue che esprimono la cultura occidentale (urbano-industriale) dominante. In questo quadro rientrano indici elevati di mortalità scolastica, ripetenze, impossibilità di promozione universitaria, emarginazione culturale.

5. L’espansione del sistema formativo e la meta del PPE di generalizzare nove anni di educazione di base si è raggiunta in buona parte per il 1999, ma non è stato lo stesso per gli obiettivi di promozione sociale: l’immagine dell’educazione come canale di mobilità sociale sta piuttosto producendo frustrazioni. Inoltre l’aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, oltre al permanere della condizione di sottosviluppo in A.L., dimostrano che il sistema formativo è la variabile meno indipendente, una delle più condizionate dal sottosviluppo. Tra l’altro, gli obiettivi del sistema formativo in A.L. appaiono sempre più superati dalla produzione di conoscenze nel mondo, tanto che esse appaiono irraggiungibili. Questo insieme di successi e frustrazioni esige delle analisi reali e profonde in vista del dilemma che bisogna porsi:​​ Occidentalizzazione del mondo,​​ o educazione per A.L. e Caraibi?

Bibliografia

Unesco,​​ Reflexiones y sugerencias relativas al Proyecto principal de educación en A.L. y el Caribe,​​ 1981 / Promedlac / 3; Unesco-Cepal,​​ Evolución cuantitativa de los sistemas educativos de A.L. y el Caribe-Análisis estadístico,​​ 1987 / Minedlac / 2; Unesco-Oreal,​​ Situación educativa en A.L.​​ y​​ el Caribe 1980-1990,​​ Santiago, 1992;​​ Rapporto mondiale sull’educazione 2000, Roma, Unesco / Armando, 2000;​​ Oferta e procura de professores na A.L. e no Caribe: garantindo uma educação de qualidade para todos; UIS perfil regional, Brasilia,​​ Unesco, 2006;​​ Panorama regional: A.L. y Caribe, Paris, Unesco, 2006;​​ Blanco R. et al.,​​ Educação de qualidade para todos: um assunto de direitos humanos, Brasilia, Unesco, 2007.

J. Rodríguez - G.Malizia

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AMBIENTE

AMBROGIO di Milano

 

AMBROGIO di Milano

Ambrogio di Milano venne a trovarsi in una situazione paradossale quando si vide acclamato vescovo, quella cioè di dover insegnare prima ancora di aver imparato, e di imparare insegnando. Ma ciò fu anche provvidenziale, perché nel contatto assiduo col suo popolo attraverso il ministero diuturno della predicazione egli maturò ritmato talento della parola liberandola da ogni formalismo astratto e ridondante per renderla nitido veicolo di comunicazione della Parola di Dio. Egli divenne così uno dei più grandi pastori e catecheti dell’occidente cristiano.

1. Vita. Nato a Treviri, probabilmente nel 339, ma educato a Roma, A. ebbe​​ un’ottima formazione negli studi classici e giuridici, giungendo anche ad esercitare la professione di retore e avvocato a Sirmio. Iniziò la carriera politica nel 370, quando venne nominato governatore della Liguria e dell’Emilia con sede a Milano. Alcuni anni dopo, un fatto inaspettato doveva sconvolgere la sua vita. Nel 374 era intervenuto col prestigio della sua carica a sedare i tumulti sorti fra cattolici e ariani in occasione dell’elezione del successore dell’ariano Aussenzio, e all’improvviso si sentì acclamare vescovo. Inutili furono le sue resistenze col manifestare a più riprese la sua impreparazione. Era ancora catecumeno, ma in una settimana ricevette il battesimo e gli altri sacramenti, e venne consacrato vescovo il 7 die. del 374. Sentendosi impari al grave compito, cercò un ricupero intensivo dedicandosi con passione allo studio e alla meditazione della Sacra Scrittura, che divenne il centro del suo universo mentale. In tale studio si lasciò guidare soprattutto dagli autori greci, specialmente Filone, Origene e Basilio, che furono i suoi maestri preferiti. La fatica quotidiana della predicazione, nella quale si era impegnato fin dagli inizi del suo ministero, fu il crogiolo che lo costrinse a filtrare e ad affinare i moduli espressivi del suo classicismo, alla ricerca di una parola semplice, duttile e luminosa che fosse veramente eco fedele (catechesi)​​ della Parola di Dio. In tal modo egli si formò pastore e catecheta eminente della Chiesa milanese. Su questo sfondo visse da protagonista tutti i più importanti eventi storico-politici e religiosi del suo tempo, fino alla morte che lo colse il 4 apr. del 397.

2.​​ Opere cat.​​ Riferimenti e accenni più o meno ampi a temi cat. sono reperibili un po’ ovunque nella vasta produzione ambrosiana. Ma le opere dedicate in modo esplicito alla C. sono le seguenti quattro.

1)​​ De Abraham​​ I (AI): appartiene al primo periodo delle opere esegetiche di A. con datazione probabile verso il 382-383. Sulla sua autenticità non ci sono dubbi. AI ha per soggetto Abramo visto come il modello di comportamento per i​​ competenti,​​ cioè i candidati al battesimo. Si tratta di un’opera in cui A. svolge la C.​​ morale​​ che ha di mira la conversione della vita. La virtù fondamentale messa in evidenza è la fede di Abramo intesa come totale adesione a Dio. Inoltre il Pastore milanese si sofferma con particolare insistenza sulla C. preparatoria al matrimonio.

2)​​ Explanatio symboli​​ (ES): strettamente connessa con le due opere seguenti, ES forma con esse una specie di trilogia cat. dell’iniziazione cristiana. La datazione è incerta (forse il 389). L’autenticità è stata a lungo contestata, ma oggi è universalmente accolta. Si tratta di una istruzione elementare di commento ai dodici articoli del Simbolo romano. ES dunque contiene la C.​​ dogmatico-dottrinale​​ di A., che ha come scopo quello di fare assimilare il “breviario della fede” (ES, 2) ai​​ competenti​​ attraverso la consegna (traditio)​​ del simbolo e la sua restituzione (redditio).

3)​​ De Sacramenti​​ (= S): forma un tutt’uno con l’opera seguente, avendo entrambe lo stesso contenuto. S raccoglie la C.​​ mistagogica​​ di A. allo stato ancora​​ parlato,​​ in una stesura stenografica. La datazione non è sicura (probabilmente verso gli anni 380). L’autenticità è stata oggetto di una lunga polemica durata secoli, con qualche strascico che perdura ancora ai nostri giorni. Ma la più recente critica ha ormai rivendicato convincentemente la paternità ambrosiana di entrambe le opere. S comprende 6 sermoni tenuti ai​​ neofiti​​ nella settimana dopo Pasqua e riguardanti le varie fasi del rito battesimale, la celebrazione eucaristica e la C. alla preghiera concentrata intorno al “Padre nostro”. S è importante anche per la storia della liturgia.

4)​​ De Mysteriis​​ (M): è una rielaborazione più condensata del materiale contenuto nell’opera precedente. M infatti è un breve trattato che contiene la C.​​ mistagogica​​ ambrosiana destinata alla​​ pubblicazione​​ per un cerchio più vasto di destinatari. La datazione è posteriore di alcuni anni a quella di S.

5)​​ Il pensiero cat.​​ Anche da questi accenni sommari si potrà constatare che la C. ambrosiana, al pari di quella di → Cirillo di Gerusalemme, è strutturata su tre elementi fondamentali. Prende le mosse dalla C.​​ morale,​​ così intesa dallo stesso A.: “Abbiamo trattato ogni giorno di morale, quando si leggevano la storia dei patriarchi e le massime dei Proverbi, affinché formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei padri e a seguire il cammino nell’obbedienza ai precetti divini, perché rinnovati per mezzo del battesimo, conduceste il genere di vita che conviene a coloro che sono stati purificati” (M, 1,1). Non una morale astratta dunque, ma presentata nel vissuto di persone concrete, entro il tessuto della storia sacra, e che deve sfociare nella conversione della vita. A. ottiene così il duplice risultato di introdurre i suoi catecumeni nella “via dei padri” e di iniziarli contemporaneamente alla familiarità con le Scritture.

Così purificati essi possono accedere alla seconda tappa, quella della C.​​ dogmatico-dottrinale,​​ con la consegna del simbolo e la sua successiva restituzione, che li mette in grado di assimilare i fondamenti del credere. Finalmente con la C.​​ mistagogica​​ l’itinerario cat. ambrosiano giunge al suo vertice. Ormai i fedeli, illuminati dal battesimo, possono fissare gli occhi sul mistero. A questo punto il catecheta cede il posto al mistagogo, e A. con passione conduce per mano gli iniziati nell’universo dello spirito alzando il velo e comunicando loro una nuova capacità visiva, cioè quella di fare l’esperienza della salvezza nell’oggi deha celebrazione liturgica (i​​ sacramenti).​​ “Sei andato, ti sei lavato, sei venuto all’altare, hai cominciato a vedere ciò che prima non eri riuscito a vedere. Cioè, mediante il fonte del Signore e l’annuncio della sua passione, i tuoi occhi si sono aperti in quel momento. Tu che prima sembravi accecato nel cuore, hai cominciato a vedere la luce dei sacramenti” (S, 111,15). Anche da questo splendido testo si può arguire che il metodo mistagogico ambrosiano è retroattivo e unitario, e va al di là di una semplice istruzione morale-intellettuale. Esso mira a una C. globale che termini a una conoscenza esperienziale dell’universo della fede, segnando il primato della vita sui concetti.

Bibliografia

1.​​ L’edizione critica fondamentale delle quattro opere cat. è quella dello CSEL: AI = CSEL 32/1 (1897) 499-564, ed. C. Sciienkl; ES = CSEL 73/7 (1955) 1-12; S =​​ ibid.,​​ 13-85; M =​​ ibid.,​​ 87-116, ed. O. Faller (di tutte e tre). In​​ italiano​​ esiste ora un’eccellente edizione bilingue (latino e italiano) nella collana “Opera otnnia di S. Ambrogio” a cura della Biblioteca Ambrosiana e pubblicata da Città Nuova Ed.: AI =​​ Opere esegetiche​​ 2/II (1984) 29-127, ed. F. Gobi; ES =​​ Opere dogmatiche​​ (1982) 25-39; S =​​ ibid.,​​ 41-133; M =​​ ibid.,​​ 135-169, ed. G. Banterle (di tutte e tre).

2.​​ Studi.​​ A. G. Martimort,​​ Attualità della catechesi sacramentale di Sant’Ambrogio,​​ nel vol.​​ Rinnovati in Cristo e nello Spirito. L'iniziazione cristiana,​​ Bari 1981, 107-132; V. Monachino, 5.​​ Ambrogio e la cura pastorale a Milano nel secolo TV,​​ Milano 1973; B. Parodi,​​ La catechesi di S. Ambrogio. Studio di pedagogia pastorale,​​ Genova 1957; L. F. Pizzolato,​​ Le componenti della catechesi in S. Ambrogio,​​ in S. Felici (ed.),​​ Cristologia e catechesi patristica,​​ Roma 1981, 77-91 (bibl.).

Ferdinando Bergamelli

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AMBROGIO di Milano

AMERICA LATINA

 

AMERICA LATINA

1.​​ La II Conferenza Generale dell’Episcopato​​ Latinoamericano​​ (ott. 1968) significò un momento molto importante nel rinnovamento della C. nel Continente. Il tema cat. è trattato nel capo VIII delle Conclusioni di Medellin. Il suo contenuto è in stretto rapporto con le conclusioni della VI Settimana Internazionale della C. (ag. 1968), organizzata dalla CLAF (Commissione​​ Latinoamericana​​ per la Fede), che oggi ha il nome di “Departamento​​ de la​​ Catcquesis​​ del CELAM”. Le conclusioni di detta Settimana sono passate quasi integralmente al Documento di​​ Medellín.​​ Sono però state attutite le critiche più dure riguardanti persone e istituzioni ecclesiali.

2.​​ Dopo la cosiddetta C. → kerygmatica (Eichstàtt 1960), il contributo più valido di​​ Medellín​​ consiste nell’aver accentuato l’aspetto antropologico (→ antropologia) della C.: il messaggio evangelico non viene annunciato a un uomo astratto (filosofico), ma all’uomo concreto, nella sua situazione. Non è sufficiente che la C. sia fedele a Dio (al kerygma), è necessario che lo sia anche all’uomo-in-situazione. Si può riassumere il pensiero di​​ Medellín​​ in quattro aspetti: a)​​ l’amore all’uomo​​ latinoamericano​​ appare nell’enfasi data al soggetto della C., specialmente ai giovani e agli adulti e non soltanto ai bambini​​ (Medellín,​​ VIII,1,2,3,17); nell’attenzione posta alla religiosità popolare e tradizionale (M VIII,2,6,11 ); nell’impegno per la formazione di catechisti autoctoni (M VIII,14,17j); nel desiderio di “situare” l’annuncio salvatore, cioè che si catechizzi a partire dalla situazione delle persone (si parla di C. situazionale, M VIII,6,12,17c); nel riconoscimento dell’importanza che hanno i mezzi di comunicazione sociale per la C. (M VIII, 3,12,17h); nel carattere scientifico e nell’attenzione dovuta alle scienze umane nella C. (M VIII,2,12,16,17); b)​​ l’enfasi data all’aspetto comunitario​​ si scopre specialmente nel posto assegnato alle comunità di base nella C. (M VIII,10); nell’importanza riconosciuta alla famiglia come educatrice della fede (M VIII,10) e all’esperienza ecclesiale come luogo della fede (M VIII,6); nell’interesse per l’iniziazione ai segni liturgici (M IX, 7); nell’apprezzamento dell’azione d’insieme e della collaborazione ad ogni livello (M VIII,13,17i); nel riconoscimento di un sano pluralismo nella pastorale (M VIII,8,17e); c)​​ il marchio evangelizzatore kerygmatico della C.:​​ a partire dalla constatazione che l’America Latina è un continente battezzato ma non evangelizzato, i Vescovi parlano di “C. evangelizzatrice”. Ciò appare a​​ Medellín​​ nella preoccupazione di non presupporre la fede nel destinatario (M VIII,3,9); nella proposta di un catecumenato per battezzati (M VIII,9,17f); nel criterio biblico e cristologico per assicurare l’autenticità del messaggio (M VIII,6,15,17k); nella proposta di una nuova ermeneutica degli avvenimenti alla luce della Parola di Dio (M VIII,5,6); nell’accento posto sugli aspetti profetici e interpellanti dell’annuncio (M VIII,3,9); nella preoccupazione del linguaggio cat. per una riespressione del messaggio (M VIII,15); nello sforzo ecumenico e in quello di centrare tutto nell’amore (M VIII,11); d)​​ l’accentuazione storico-liberatrice della fede​​ la troviamo nel sincero interesse per la promozione integrale dell’uomo (M VIII,7,17c); nel carattere storico riconosciuto alla Parola di Dio (M VIII,6); nell’impegno di interpretare la storia come un divenire inseparabile dal Mistero Pasquale di Cristo (M VIII,6); nel desiderio di orientare cristianamente il cambio sociale (M VIII,5,6,17c); nell’intuizione escatologica dell’unità tra il temporale e l’eterno, cioè nel superamento del dualismo (M VIII,4,17b).

3.​​ Medellín​​ ebbe una profonda ripercussione cat. nel Continente. Il CELAM stimolò costantemente il lavoro attraverso incontri internazionali. Possiamo segnalare: a) Il grande sforzo fatto per​​ integrare vita e fede-,​​ la C. si impegnò a non essere soltanto dottrinale, ma ad abbracciare anche il vissuto. Si iniziò un​​ metodo induttivo​​ che, partendo dalla situazione e dall’avvenimento per illuminarli con la Parola di Dio, arriva a una vita nuova che ha Dio al suo interno. La vita viene illuminata dalla fede, e la storia umana scopre in se stessa la presenza di Dio che la fa storia di salvezza affinché “l’uomo raggiunga la sua vera liberazione”​​ (Puebla​​ 979). Ancora oggi però ci sono alcuni che restano chiusi nel fatto puramente esperienziale, asistematico, occasionale, socializzante, senza arrivare al vero equilibrio e all’integrazione tra fede (messaggio) e vita, b) Coloro che usano​​ la Sacra Scrittura​​ imparano a illuminare progressivamente la vita e la realtà, insegnando ai catechizzandi a giudicare le situazioni e gli avvenimenti con una nuova mentalità. Sta sorgendo un nuovo senso critico, di sapore evangelico, sui fatti della storia e della vita. C’è una grande diffusione della Bibbia, c) Ciò fa scoprire anche “una pedagogia positiva che parte dalla persona di Cristo”​​ (Puebla​​ 980). La C. acquista la sua​​ caratteristica cristocentrica​​ e kerygmatica. La liberazione definitiva non è possibile senza Cristo, d) Cresce ogni giorno lo​​ spirito comunitario.​​ La C. non è opera esclusiva di sacerdoti e di religiose, ma diventa compito comune, “in modo tale che la comunità ecclesiale si sta responsabilizzando della C. ad ogni livello: famiglia, parrocchia, comunità di base, comunità educativa scolastica e organizzazioni diocesana e nazionale”​​ (Puebla​​ 983). Per formare tanti agenti pastorali si moltiplicano dappertutto gli istituti per la formazione dei catechisti​​ (Puebla​​ 985).

4.​​ Non tutto però è perfezione e prodigio. Si nota ancora una mentalità dicotomica, che contrappone evangelizzazione e sacramentalizzazione. Si sente dire che si deve evangelizzare e non sacramentalizzare, come se fosse possibile evangelizzare senza arrivare ai sacramenti o si potessero celebrare i sacramenti senza una previa C. Non si è ancora superato completamente il concetto della fede circoscritta a un’adesione intellettuale a determinate verità. Nel campo opposto esiste la tendenza a una C. che pretende di essere autentica omettendo ogni concetto, formula, definizione, sistematizzazione della fede, a vantaggio del vissuto. Si dimentica che ogni C. deve illuminare la situazione esistenziale con la Parola, che include un insegnamento di Dio all’uomo.

5.​​ È importante ricordare anche gli influssi negativi di cui soffre la C. nell’America Latina e che provengono dalle​​ ideologie.​​ Esse offrono una visione parziale dell’uomo, dei rapporti interpersonali, dei beni, del mondo, dello sfruttamento delle sue energie. Le ideologie alle volte contengono dei valori, ma parziali e distorti. Le correnti ideologiche principali sono il liberalismo con il suo derivato, il capitalismo, il marxismo e la dottrina della sicurezza nazionale. Il liberalismo difende la libertà a spese della giustizia; il marxismo difende la giustizia a spese della libertà; la sicurezza nazionale difende l’ordine e la sicurezza a spese della libertà e dei diritti umani.

6.​​ In queste condizioni la Chiesa celebrò la​​ III Conferenza Generale dell’Episcopato​​ Latinoamericano​​ a​​ Puebla​​ (Messico 1979). Nel suo documento il capitolo della C. va dal n. 977 al n. 1011. Segnaliamo in essi alcuni criteri e alcuni orientamenti pratici.​​ Criteri per la C.:​​ a) Il criterio delle tre fedeltà (P 994-997): a Dio in Cristo, alla Chiesa nei Vescovi, all’Uomo​​ latinoamericano.​​ Si noti che generalmente si era parlato di fedeltà a Dio e all’Uomo.​​ Puebla​​ sentì il bisogno di sottolineare anche la fedeltà alla Chiesa poiché nell’America Latina, per influsso delle ideologie, c’è una forte tendenza a separare la fede cristiana dalla Chiesa. La terza fedeltà è all’Uomo.​​ Puebla​​ la concretizza aggiungendo l’aggettivo “latinoamericano”. Ciò viene a ricordare che la C. deve “situarsi” e rivolgersi all’uomo-in-situazione. b) Il secondo criterio consiste nel considerare la C. come un​​ processo​​ che accompagna lo sviluppo della fede (P 998,1007). La preoccupazione dei catechisti non deve essere principalmente la recezione dei sacramenti o la trasmissione di determinati contenuti dottrinali, ma l’educazione della fede dei catechizzandi. Essa deve sollecitare in loro un processo di crescita nella fede. Si supera così il concetto di C. solo-insegnamento per trasformarla in “educazione della fede”. Questa assomiglia molto alla C. mistagogica dei Padri e al processo catecumenale. Tale opzione significa un progresso nei confronti di Medellin, che aveva centrato la sua attenzione sull’uomo-in-situa-zione.​​ Puebla​​ colloca al centro “la fede dell’uomo-in-situazione”. c) La C. deve essere​​ integrante-,​​ non può essere un’azione di annuncio isolata nella pastorale: “In ogni catechesi completa bisognerà sempre unire in modo inseparabile: la conoscenza della Parola di Dio, la celebrazione della fede nei sacramenti e la confessione della fede nella vita di ogni giorno” (P 999).

Orientamenti pratici di​​ Puebla:​​ a) Traccia il profilo del cristiano che si deve formare superando l’antico modello del “cristiano praticante”. Assegna alla nuova personalità cristiana quattro caratteristiche: lo sviluppo dell’umano nella persona, l’impegno personale con Cristo, la capacità di comunione e partecipazione alla vita e missione della comunità ecclesiale, il servizio ai fratelli, agli uomini, nel compito di trasformare il mondo in regno di Dio (P 1000). b) Per ciò che riguarda il metodo si suggerisce l’idea di un processo che implica diverse tappe di maturazione nella fede (mistagogia): la conversione e la fede in Cristo, la vita comunitaria e fraterna, la vita sacramentale e l’impegno apostolico (P 1007). c) L’educazione morale va concepita in forma positiva ed evangelica come “sequela di Cristo, accentuando la vita secondo le beatitudini” e senza dimenticare la formazione graduale per una positiva etica sessuale e la formazione alla vita politica alla luce della dottrina sociale della Chiesa, d) Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione sociale (→ mass media) si fa un’opzione consapevole per i mezzi → audiovisivi di gruppo, perché permettono la comunicazione diretta e la personalizzazione. Si tratta dei “mezzi poveri”, alla portata di qualunque catechista: il disegno, il canto, la drammatizzazione, le danze religiose, i fotolinguaggi (P 1001).

7.​​ Dopo​​ Puebla​​ la riflessione del CELAM si centrò sui seguenti aspetti. Si realizzarono incontri internazionali con il tema:​​ “La formazione dei catechisti di base”.​​ La cosiddetta “Prima Settimana di C.​​ Latinoamericana”, realizzata a​​ Quito​​ (1983), studiò la situazione​​ latinoamericana​​ per situare in essa il compito della comunità ecclesiale (ossia la parrocchia e le sue comunità di base, la famiglia e la scuola). Si mise l’accento sulla Bibbia come elemento vitale per la formazione di una comunità. Questa non si deve chiudere su se stessa ma deve aprirsi alla cultura, e la sua grande opzione è quella dei poveri, allo scopo di arrivare a costruire la civiltà dell’amore. L’aspetto mariano è essenziale per identificare la comunità cattolica tra le invadenti comunità evangeliche e protestanti.

Bibliografia

1.​​ Fonti.​​ CELAM,​​ Medellin. Documenti,​​ Bologna, EDB, 1969;​​ Id.,​​ Puebla.​​ La Evangelización​​ en​​ el presente​​ y​​ en el futuro de America Latina,​​ Bogotá​​ 1979;​​ Id.,​​ Catcquesis​​ para America Latina,​​ Bogotá​​ 1977;​​ Id.,​​ Vision​​ pastoral​​ de America Latina. Libro​​ auxiliar​​ 4,​​ Bogotá​​ 1978;​​ La​​ comunidad​​ catequizadora​​ en​​ el presente y futuro de​​ América​​ Latina.​​ Ponencias y conclusiones​​ de la I.​​ Semana Latinoamericana de catcquesis, Quito 3-10 de octubre, Bogotá, Departamento de Catcquesis CELAM, 1983; Semana Internacional de Catcquesis,​​ Catcquesis y Promoción Humana. Medellin 11-18 de agosto 1968,​​ Salamanca, Sígueme, 1969.

2.​​ Studi.​​ I. Alvarez Gómez​​ et​​ al.,​​ Puebla y la catcquesis,​​ in​​ “Cuestiones teológicas Medellín” 6 (1979) 16, 58-76; M.​​ Barello,​​ La Catcquesis​​ de Medellin​​ a Puebla,​​ in​​ «Medellín» 5 (1979) 17-18, 115-129; anche​​ in​​ «Catcquesis Latinoamericana» 11 (1979) 39, 33-50; Comisión de catcquesis del Celam...,​​ La catcquesis en América Latina,​​ in​​ “Catcquesis Latinoamericana” 10 (1978) 37, 247-267; E. García Ahumada,​​ Puebla-, une​​ catéchèse prophétique,​​ in​​ «Lumen Vitae” 34 (1979) 197-214; F. Merlos,​​ Lectura catequética de Puebla,​​ in​​ “Medellín” 5 (1979) 20, 479-507; G. Sáenz de Ugarte,​​ La catcquesis en América Latina de Medellin a Puebla,​​ in​​ “Sinite” 21 (1980) 64, 155-183; B. Spoletini (a​​ cura di),​​ Panoramica della catechesi​​ latinoamericana da Medellín a Puebla,​​ in​​ Via Verità e Vita” 28 (1979) 72, 70-78.

Mario Borello

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AMERICA LATINA

AMICIZIA

 

AMICIZIA

Relazione interpersonale affettiva, nata da una scelta generalmente basata sulla gratuità leale, sulla reciprocità costante, sulla comunicazione umana, sulla simpatia istintiva, sulla comunanza di interessi, di ansie e di ideali.

1.​​ Il profilo genetico dell’a.​​ Con alcuni studiosi di antropologia filosofica e di psicologia sociale (​​ Buber, Lévinas, Gevaert,​​ ​​ Nuttin) si può giustamente affermare che «in principio è la relazione», perché la verità dell’uomo non è nel suo essere soggetto, in sé considerato, ma nel suo essere in correlazione strutturale con altri soggetti. L’identità non è nel soggetto – afferma Heidegger – ma nella relazione. Un individuo è ciò che viene fuori dal suo sistema di relazioni umane. Entrare in armonia con «l’altro», allora, sembra soprattutto il compito dell’a., che si presenta come completamento di esperienze relazionali. L’a. è una forma di​​ ​​ amore con caratteristiche del tutto particolari, perché è svincolata da obblighi normativi e dipende solo dalla lealtà reciproca, dalla gratuità dell’incontro, dal rispetto della individualità di ciascuno, dalla consuetudine del rapporto, dalla generosità nelle difficoltà, dalla condivisione delle gioie, dagli interessi comuni, dal lavoro armonizzato per uno scopo comune. L’a. è caratterizzata dal sentimento della​​ parità:​​ gli amici, infatti, non si inquadrano in una gerarchia, si sentono tutti uguali e se talvolta nascono conflitti o competizioni, questi sono superati dalla profonda lealtà e dalla disinteressata gratuità che dà vita al rapporto. Nella relazione amicale entra in gioco un’altra importante caratteristica: la​​ similarità,​​ il processo cioè che trasferisce il bisogno di identità verso l’identificazione, grazie alla quale ogni amico tende ad assumere valori e comportamenti simili o identici a quelli dell’altro. In questo contesto l’a. ci libera dalla solitudine, consolida vincoli affettivi di gruppo, è un conforto, un sentimento di sicurezza, un calore umano che non ha bisogno di parole per esprimersi, perché comunica anche solo con la semplice presenza.

2.​​ Aspetti evolutivi dell’a.​​ Ogni periodo della vita si esprime nell’a. secondo modalità diverse. Sotto l’aspetto evolutivo si possono individuare tre tappe di questo processo: a)​​ l’a. sensibile-affettiva,​​ che si sviluppa nel periodo prepuberale e puberale ed è prevalentemente motivata da aspetti di carattere emozionale e sensibile. È un tipo di a. che nasce per lo più tra soggetti dello stesso sesso e presenta a volte alcuni tratti dell’amore eterosessuale. Questo tipo di a. deve considerarsi come una tappa biologicamente obbligatoria e rappresenta la prima incerta trasformazione dell’affettività della fanciullezza, di natura egocentrica, nell’affettività matura, di natura allocentrica; b)​​ l’a. captativo-egocentrica,​​ che è tipica dell’​​ ​​ adolescenza ed è contraddistinta da aspetti narcisistici, simbiotici e consumativi. Essa è dominata dal bisogno e dal sentimento di essere «l’uno​​ con​​ l’altro», per cui gli amici si vogliono bene perché ognuno vede nell’altro un mezzo per la propria affermazione. Nell’adolescenza l’a. rappresenta una forma elevata di comunicazione emotiva e di condivisione di esperienze. Si tratta di una naturale inclinazione a convivere con l’amico e a vedere in questo fatto uno strumento di personale compiacenza, più che un mezzo di reciproco perfezionamento, essendo l’adolescente prevalentemente centrato più su di sé che nell’altro; c)​​ l’a. operativo-oblativa,​​ che rappresenta la pienezza matura di questa relazione interpersonale. Essa è contraddistinta dal bisogno di essere «l’uno​​ per​​ l’altro», ossia dalla coscienza del fatto che la vita degli altri impone alla propria una certa responsabilità; presuppone un amore fondato sulla gratuità, che è un atteggiamento non motivato da altra ragione che non sia la «libertà del donare e del ricevere», per cui si vuole bene all’altro per quello che​​ è​​ e non tanto per quello che​​ serve.​​ Un’a. siffatta stimola gli amici ad un fattivo interscambio di esperienze personali, ad una concreta manifestazione di stima e simpatia, ad un’effettiva condivisione delle difficoltà e delle gioie, ad una comunicazione personale che si fa progressiva donazione nella sincerità e nella lealtà, proiettandoli nel domani in una comunione di intenti, di impegni, di aspirazioni e di speranze.

3.​​ Educare all’a.​​ Da queste rapide annotazioni sull’a. emerge una logica conseguenza: chi ha responsabilità educative deve avviare all’a., favorendola, orientandola, proteggendola. Sembrano perciò opportune due annotazioni a questo proposito: siccome i legami affettivi di natura amicale non possono ovviamente essere imposti, l’educatore deve innanzitutto vivere e testimoniare in prima persona l’esperienza dell’a. con quel calore umano e quella lealtà che sono già di per sé un fatto educativo; in secondo luogo deve saper creare luoghi di incontro e di aggregazione, in cui soprattutto i ragazzi e le ragazze possono «conoscersi», «capirsi», «stimarsi», «impegnarsi», «esprimersi», «giocarsi» in definitiva in un tipo di a. che sia feconda e costruttiva per la crescita della loro persona.

Bibliografia

Bucciarelli C.,​​ I​​ ragazzi,​​ le ragazze,​​ la coeducazione,​​ Roma, AVE, 1973; Padiglione V.,​​ L’a.: storia antologica di un bisogno estraniato,​​ Roma, Savelli, 1978; Riva A.,​​ A.,​​ Milano, Ancora, 1985; Bucciarelli C.,​​ Adulti-adolescenti: comunicazione cercasi,​​ Roma, AVE, 1993; Pizzolato L.,​​ L’idea di a.,​​ Torino, Einaudi Paperbacks, 1993; Galli N.,​​ L’a. dono per tutte le età, Milano, Vita e Pensiero, 2004.

C. Bucciarelli

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AMICIZIA

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

 

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

La definizione non è facile anzitutto perché negli Stati Uniti e nel Canada a.s. indica la gestione del​​ ​​ sistema formativo sia a livello di Stato o di distretto sia a quello di singola scuola, mentre in Europa ci si limita al primo senso: qui si seguirà l’uso del nostro continente. Inoltre, vi è incertezza sul piano teorico se l’a.s. sia una disciplina separata o abbia natura pluridisciplinare: in questa voce si adotta la prima ipotesi, perché non sembra che si possa negare che l’a.s. abbia metodo e oggetto propri. Pertanto, l’a.s. si può definire come quella disciplina delle​​ ​​ scienze dell’educazione che studia la gestione dei sistemi formativi a livello​​ macro​​ (Federazione, Stato, Regione, Provincia, Distretto) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace. Per il livello micro (singola scuola)​​ ​​ organizzazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci, si consiglia di leggerle insieme. L’a.s. è anche quel settore dell’a. pubblica, comprensivo di organi, persone e strutture, che si occupa del funzionamento delle scuole come servizio pubblico.

1.​​ Approcci allo studio dell’a.s.​​ Per quello​​ giuridico​​ ​​ legislazione scolastica. L’approccio delle​​ ​​ scienze sociali ha esercitato un forte influsso sull’evoluzione dell’a.s. per tutto il sec. XX, soprattutto tra la metà degli anni ’50 e ’70. Lo scopo era di potenziare l’insegnamento universitario e la ricerca, facendoli uscire da uno stile prevalentemente esortatorio e impressionistico; d’altra parte, gli amministratori operavano in organizzazioni, comunità, gruppi, in situazioni cioè studiate proprio dalle scienze sociali. In particolare sono le teorie organizzative a influire sull’a.s. Così le posizioni tayloristiche risultano visibili nell’enfasi sull’efficienza, i risultati, la competenza, la responsabilità soprattutto nei Paesi anglosassoni; la concezione weberiana della burocrazia nella costruzione dei sistemi formativi centralizzati delle nazioni in via di sviluppo; la teoria delle relazioni umane nella domanda diffusa di democrazia e di una​​ leadership​​ partecipativa; le impostazioni sistemiche nell’affermarsi dell’autonomia e della pedagogia del progetto. Agli inizi degli anni ’70 il panorama delle scienze sociali è percorso da forti dinamiche orientate al cambiamento. Anzitutto è la società ad essere scossa da un intenso attivismo politico che trova la sua espressione paradigmatica nella​​ ​​ contestazione giovanile. Inoltre, viene denunciato da più parti il positivismo delle scienze sociali, cioè la pretesa che gli unici criteri di verità siano la verifica empirica e la logica analitica, che la metodologia delle scienze naturali debba essere trasferita senza adattamenti alle scienze sociali, che l’obiettivo di queste ultime consista nella elaborazione di leggi, che la ricerca debba essere neutrale sul piano dei valori. Emergono nuove prospettive tra cui va ricordato il​​ soggettivismo​​ che rifiuta ogni scientismo per affermare la necessità di tener conto nell’a.s. anche dei valori e dei sentimenti. Pertanto, il campo degli studi va esteso dagli aspetti descrittivi a quelli normativi e la ricerca empirica non può limitarsi al quantitativo, ma deve affrontare temi come la volontà, le intenzioni, il linguaggio, ciò che è giusto o sbagliato nell’a.s.: di conseguenza la metodologia si orienta verso gli studi etnografici e qualitativi. Le carenze maggiori di tale prospettiva riguardano la concezione superata di scienze sociali che prende in considerazione, ed il relativismo in cui rischia di cadere per la mancanza di criteri oggettivi di valutazione. Le​​ teorie critiche,​​ che si ispirano alla​​ ​​ scuola di Francoforte, focalizzano l’analisi sulla falsa coscienza che viene creata nella massa della gente da sottili meccanismi sociali, istituzionalizzati nel mondo del lavoro, nell’educazione, nei mass media, nel tempo libero, in funzione degli interessi della classe dominante. Sul piano dell’a.s. si parte dalla constatazione della funzione riproduttiva della scuola e del diverso trattamento prestato agli studenti secondo la classe sociale, per affermare che gli amministratori scolastici sarebbero al servizio dei ceti dirigenti e, pertanto, non si impegnerebbero per realizzare una maggiore eguaglianza delle opportunità nell’istruzione. Le teorie critiche riflettono tutti i limiti delle posizioni marxiste (​​ marxismo pedagogico): nell’ambito dell’a.s. hanno espresso più critiche che proposte, appaiono estranee alla realtà scolastica e le loro ipotesi sulla funzione riproduttiva della scuola sono messe in discussione dai risultati della ricerca empirica. Altri approcci da ricordare sono: il «postmodernismo» o «poststrutturalismo» che, a motivo del suo orientamento antintellettuale e antistituzionale, si rivela particolarmente critico nei confronti della scienza e della maggior parte delle forme di organizzazione e di a.; l’area degli studiosi impegnati nella promozione dei gruppi svantaggiati a causa del sesso, della razza o della nazionalità, che evidenziano la situazione di sottorappresentazione e di diseguaglianza di tali gruppi nell’a.s.; le interpretazioni che rifiutano lo scientismo e il positivismo, ma accettano la scienza e una molteplicità di metodi e che si ispirano al pragmatismo, alla fenomenologia ed al realismo. Gli anni ’90 e 2000 offrono un quadro di riferimento sociale molto diverso: il crollo del socialismo reale, l’avvento di regimi moderati o conservatori, la sostituzione delle antiche controversie ideologiche con nuove problematiche, come l’inquinamento ambientale, il rapporto nord / sud, il nazionalismo, l’intolleranza, il terrorismo, la globalizzazione. Anche nelle scienze sociali, mentre perdono quota le impostazioni radicali, prevalgono tendenze sia alla conciliazione tra analisi strutturale e culturale e fra prospettive macro e micro, sia a un empirismo pratico che fa comunque uso del metodo scientifico qualunque sia l’approccio teorico seguito. Anche nell’a.s. si affermano prospettive meno polemiche, più flessibili e anche più sofisticate; una coscienza più acuta della complessità dell’oggetto porta sia all’accettazione di una​​ pluralità di approcci e di metodologie,​​ sia ad un aumento della diversificazione, della frammentazione e della specializzazione. Si placa lo scontro tra sostenitori della ricerca quantitativa e qualitativa, benché sia quest’ultima a ricevere un forte impulso. I valori assurgono al centro della scena soprattutto nel contesto dei processi decisionali e della definizione di soluzioni alternative. L’a.s. è riconosciuta come uno strumento indispensabile per il raggiungimento di obiettivi organizzativi e sociali.

2.​​ Problemi e prospettive sul piano dei contenuti.​​ L’azione degli amministratori si scontra spesso con​​ ostacoli e limiti​​ esterni particolarmente forti che ne condizionano l’efficacia. Tra essi vanno ricordati i fattori geografici, che possono pesare negativamente sulla costruzione delle scuole o sul calendario, quelli demografici, che incidono sulla lingua di insegnamento o sulla moltiplicazione dei turni, quelli storici quali il freno rappresentato dall’eredità coloniale o quelli economici come la povertà, che può bloccare lo sviluppo del sistema formativo. Alcuni di questi ostacoli si sono trasformati in problemi gravi in molti Paesi: in vari casi si tratta delle ristrettezze delle risorse, dell’inflazione, del pagamento dei debiti, della esplosione della popolazione, della modesta preparazione dei docenti; altri riguardano la domanda di maggiore efficienza o la ricerca di fonti alternative di finanziamento. Di fronte a queste difficoltà le capacità di risposta dell’a.s. risultano inadeguate. Di qui l’impegno di molti Paesi a migliorare la preparazione degli amministratori, a potenziare l’efficienza dell’a.s., ad accrescere la responsabilità del personale, a rafforzare la democrazia locale, ad ampliare il ruolo della​​ ​​ scuola libera, ad introdurre elementi di mercato. Un argomento tradizionale di dibattito è quello dei meriti reciproci della​​ centralizzazione​​ e del​​ decentramento​​ dell’a.s. La prima significa che obiettivi, contenuti e strategie sono fissati da una struttura centrale, normalmente un ministero, che dirige le strutture periferiche attraverso norme ed orientamenti circa le modalità più efficaci per l’implementazione. Il decentramento implica lo spostamento del potere a livello locale, che può assumere forme diverse: dal semplice riconoscimento di un certo spazio per la pianificazione, le decisioni e il controllo, alla delega di determinate responsabilità, fino all’attribuzione di poteri legali anche di imporre tasse. A sostegno del centralismo si citano ragioni quali la realizzazione di una maggiore eguaglianza a favore delle zone e dei gruppi svantaggiati, il contributo all’unità nazionale e alla coesione sociale, la riduzione di duplicazioni o sovrapposizioni, la rapidità nell’introduzione di una​​ ​​ innovazione; al tempo stesso, però, esso può trascurare i bisogni della periferia, manca di flessibilità e, pertanto, non tenendo conto delle diversità locali, non assicura di per sé una maggiore efficienza. L’altra ipotesi viene affermata perché favorisce la partecipazione dal basso, la rispondenza alla domanda sociale, la costruzione di una scuola della comunità, l’​​ ​​ autonomia scolastica, l’innovazione, l’efficacia. Va, però, detto che questi effetti non sono automatici, ma richiedono a monte una cultura organizzativa corrispondente ed un corretto rapporto con il centro; inoltre, non vanno dimenticati i rischi connessi con il particolarismo dei gruppi di interesse e con la corruzione locale. Pertanto, la maggior parte dei Paesi cerca di trovare un equilibrio tra un forte potere locale d’iniziativa e la propulsione, il coordinamento ed il controllo centrale. Da una parte bisogna procedere a un ampio decentramento dei sistemi formativi che si fondi sul trasferimento di responsabilità alle istanze regionali e locali, sull’autonomia degli istituti e sulla partecipazione effettiva degli attori locali; il principio fondamentale è che la decisione è locale, mentre l’impulso, il coordinamento, il controllo e la determinazione degli standard nazionali sono centralizzati. D’altra parte, è anche necessario che l’autorità politica si assuma tutta la responsabilità che le compete.

3.​​ L’a.s. italiana.​​ Risale alla L. Casati n. 3725 / 1859 ed è caratterizzata dal​​ centralismo​​ delle origini. Fino alla prima guerra mondiale l’organizzazione dell’a. centrale tende a oscillare tra burocrazia e collegialità. Un altro passaggio importante dell’evoluzione è rappresentato dalla riforma​​ ​​ Gentile del 1923 che globalmente porta ad una espansione del ministero. L’entrata in vigore della​​ Costituzione repubblicana​​ (1948) ha segnato un vero rovesciamento di fronte: da una parte si è affermata la validità del principio delle autonomie e dall’altra il sistema scolastico viene impostato sulle grandi opzioni della libertà, del pluralismo e della convergenza delle iniziative. Nonostante ciò, nei primi anni ’60 il Ministero si è ulteriormente dilatato in una macrostruttura anche se nelle decadi ’70 e ’80 si sono avute alcune riduzioni per effetto della istituzione del Ministero dei Beni Culturali (1975) e dell’Università (1989); inoltre, la L. n. 477 / 73 sugli organi collegiali ha compiuto un primo passo verso l’autonomia di gestione che, però, è rimasta molto limitata. Negli anni successivi è emerso con sempre maggiore chiarezza che il sistema di governo della scuola esigeva un​​ rinnovamento profondo.​​ Questo è avvenuto soprattutto con la riforma del Titolo V della nostra Costituzione (L. n. 3 / 01): in base alla nuova normativa, lo Stato ha competenza esclusiva per quanto riguarda le norme generali sull’istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni; lo Stato e le Regioni hanno competenza concorrente sull’istruzione, fatta salva l’autonomia delle scuole; a loro volta le Regioni hanno competenza esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale. In altre parole la volontà del Costituente è che Stato e Regioni, da una parte, e Regioni ed Enti territoriali con le istituzioni scolastiche, dall’altra, cooperino insieme e, che, pur nel rispetto dei poteri propri di ciascuno, predispongano una politica formativa al servizio dei giovani e delle famiglie, rispondente alle esigenze del territorio, senza perdere in unitarietà e coordinamento. Il passaggio da un modello centralistico e gerarchico a uno​​ poliarchico, che valorizza le autonomie territoriali e scolastiche, comporta un diverso ruolo dello Stato che viene investito di tre compiti: governare in modo unitario il sistema educativo di istruzione e di formazione; verificarne la qualità globale in modo che si raggiungano in tutto il Paese i livelli essenziali di prestazione; ovviare alle disparità esistenti tra le scuole prendendo le opportune misure perequative. Contribuiscono nella medesima direzione anche i compiti programmatori e di coordinamento che sono affidati agli enti territoriali. Rientra in questo quadro anche la ristrutturazione del Ministero della Pubblica I. che in grande sintesi si ispira ai seguenti principi: la pubblica istruzione è chiamata a trasformarsi da a. di gestione autoritativa in a. di governo e di servizio e, pertanto, dovrà rafforzare le proprie competenze tecniche rispetto a quelle gestionali che sono destinate a perdere la rilevanza centrale ad esse assegnata nel passato; inoltre, la tradizionale struttura verticale per ordini e gradi di scuola viene sostituita da una orizzontale per grandi tematiche e che comporta l’abolizione delle articolazioni duplicate e la normalizzazione delle funzioni.

Bibliografia

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G. Malizia

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AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

AMORE

AMORE

Giovanni Cereti

 

1. L’amore nella cultura giovanile contemporanea

1.1. Alcune tappe più significative nella riflessione sull’amore nella storia del pensiero europeo e occidentale

1.2. La cultura dell’amore nella gioventù contemporanea

2. Una rinnovata comprensione del messaggio cristiano intorno all’amore

2.1.​​ L’amore nella Scrittura

2.2.​​ Una riflessione teologica sull’amore

2.2.1. Dio è Amore

2.2.2. A colui che lo ha amato per primo, l’uomo è chiamato a dare una risposta di amore

2.2.3. L’amore è dono e responsabilità

2.2.4. L’opzione fondamentale caritativa

2.2.5. L’amore di amicizia

2.2.6. L’amore coniugale

3. L’educazione all’amore nella pastorale giovanile

3.1. L’amore verso sé stessi

3.2. Amore alle cose

3.3. Amore agli altri

3.4. Amore di Dio

3.5. Educare ad amare

3.6. L’amore fra l’uomo e la donna

4. Conclusione

 

La tematica evocata dal termine «amore» è estremamente vasta e complessa, in quanto esso fa riferimento alla tendenza fondamentale della persona, che la spinge verso ogni essere percepito come «bene», e che quindi si rifrange in tutti i suoi rapporti, con la natura, con sé stessa, con gli altri esseri umani, con Dio, articolandosi in modalità molto diverse. Ciò spiega la pluralità di significati che il termine amore può assumere nel linguaggio comune.

In un primo significato, forse quello maggiormente presente nell’immaginario e nel linguaggio giovanile, il termine amore viene utilizzato per indicare il sentimento o l’attrazione che una persona può nutrire nei confronti di un’altra, sentimento che implica una scelta e che tende alla reciprocità e all’unione. In questo senso, l’espressione «fare l’amore» evoca con discrezione il raggiungimento di questa piena unione interpersonale, attraverso il compimento di quegli atti e di quei gesti che la realizzano anche fisicamente.

Lo stesso termine tuttavia, forse non soltanto a causa della povertà e della mancanza di rigore delle lingue moderne e della lingua italiana in particolare, ma con un fondamento antropologico preciso, viene utilizzato anche per indicare il sentimento positivo, l’apprezzamento, l’attrazione, il desiderio, che si nutre nei confronti di un oggetto, un’arte, un comportamento, o di altri esseri viventi, e che giustifica anche i più grandi sacrifici e le più grandi dedizioni compiute in vista dell’appagamento del proprio desiderio e della realizzazione delle proprie aspirazioni. La significazione di questo termine si estende infine sino ad abbracciare tutti i possibili rapporti affettivi interpersonali e l’orientamento dell’uomo alle realtà spirituali supreme e in ultima istanza a Dio stesso.

 

1. L’amore nella cultura giovanile contemporanea

La riflessione intorno alla tematica dell’amore non è iniziata oggi. Una lunga tradizione di pensiero esercita il suo influsso sin nella cultura contemporanea.

 

1.1. Alcune tappe più significative nella riflessione sull’amore nella storia del pensiero europeo e occidentale

Il mondo greco, nel quale l’attuale cultura occidentale riconosce uno dei suoi punti di partenza, utilizzava termini differenti per indicare l’amore nelle sue diverse modalità. Fra questi termini particolare rilevanza ebbero eros e filia. Per Platone, le cui riflessioni sul tema dell’eros sono esposte soprattutto nel​​ Convito​​ e nel​​ Fedro,​​ l’eros deve essere identificato con il sentimento di attrazione suscitato dalla bellezza, e le sue diverse forme sono legate alle diverse forme del bello: dalla bellezza sensibile si ascende alla bellezza dell’anima e poi alla bellezza intelligibile, che è la bellezza suprema, di cui tutto ciò che è bello sulla terra non costituisce che un pallido riflesso. Aristotele nella​​ Metafisica​​ ci presenta invece l’eros quasi come una sorta di energia cosmica, una forza vitale attraverso la quale il primo Principio ordina e muove l’universo. Nell’Etica​​ a Nicomaco​​ tratta poi della filia, intesa come amore di amicizia, legame affettivo di libera scelta, amore interpersonale caratterizzato dal desiderio del bene dell’altro, dalla gioia di essere accettato e dal piacere di trovarsi assieme all’amico. L’incontro del pensiero antico con il messaggio cristiano dell’agape avvenne in un’epoca che era profondamente influenzata dallo stoicismo, con il suo invito all’apateia​​ (assenza di passioni), e nella quale si diffondevano ogni sorta di dottrine gnostiche, legate alla concezione di un eros cosmogonico e affermanti il primato della conoscenza sull’amore. I primi secoli dell’era cristiana furono così segnati da innumerevoli tentativi di riflessione sul mistero dell’agape divina e sui suoi rapporti con le potenzialità naturali di amore dell’uomo. Il vertice di queste riflessioni può essere considerato raggiunto con Agostino, che insegnò a distinguere fra l’amor sui,​​ o​​ cupiditas,​​ inteso come ripiegamento egoistico su sé stesso e proprio della città terrena, e l’amor​​ Dei,​​ o​​ caritas,​​ inteso come apertura e tensione verso il sommo bene, nel quale si ritrova ogni amore bene ordinato, anche verso sé stesso e verso le altre creature. Questa caritas è dono gratuito di Dio all’uomo, e deve tornare alla sua origine attraverso il nostro amore al prossimo e a Dio.

Un forte influsso sul successivo pensiero cristiano fu esercitato anche dal neoplatonismo di Plotino, che vede Dio come bene assoluto, di cui tutto è emanazione; l’essere generato tende a ritornare alla perfezione da cui è stato emanato; l’amore umano è espressione di questa tensione verso il bene, e quindi in ultima istanza verso Dio, al quale potrà ricongiungersi passando attraverso vari stadi di purificazione. Di dottrine neoplatoniche è infatti impregnato il pensiero del teologo siriaco, che assunse lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita, il quale propose la dottrina dei tre gradi nella ascesa spirituale (purificazione, illuminazione, unione), che soprattutto attraverso la mistica spagnola del sedicesimo secolo sono entrati nell’insegnamento della teologia spirituale, e dell’amore estatico divinizzante, che porta il credente a perdersi nell’amato.

Queste diverse concezioni continuarono a essere presenti attraverso vari intrecci in tutta la riflessione medioevale. Da una parte l’amore continuava a essere inteso come un’energia cosmica, una forza vitale, un principio che pervade e anima tutti gli esseri, e da identificarsi infine con la realtà più profonda di Dio, «l’Amor che muove il sole e l’altre stelle»; dall’altra esso era interpretato nella categoria dell’amicizia, nella quale veniva ad essere incluso anche il rapporto di amore fra Dio e l’uomo. Nel corso del medioevo venne elaborandosi anche la riflessione sulla virtù teologale della carità, che comunque deve essere considerata sempre assieme alla fede e alla speranza come un altro aspetto del nostro orientamento totale a Dio. Contro coloro che accentuavano l’importanza della riflessione teologica sulla fede, considerandola quasi anticipazione della visione beatifica, la teologia monastica continuò a dare la preferenza alla contemplazione del mistero attuata nell’amore. Il primato dell’amore sulla conoscenza venne infine sottolineato soprattutto nell’esperienza dei mistici, che intesero l’amore come atteggiamento di abbandono incondizionato alla volontà di Dio, in una completa donazione di sé.

Il rapporto fra l’amore naturale per Dio e l’amore a Dio, che nell’uomo è frutto della grazia, e fra l’amore per Dio, considerato come sommo bene per noi, e l’amore che invece ama Dio per sé stesso, continuò ad essere oggetto di vivaci discussioni fra i grandi teologi e spirituali dei secoli successivi, soprattutto in Francia, per la quale devono essere ricordati almeno san Francesco di Sales, con il suo​​ Trattato dell’Amore di Dio,​​ e la polemica che intorno all’amore puro di Dio oppose Bossuet e Fénelon.

Nel corso degli ultimi secoli la riflessione filosofica è tornata a ripiegarsi sulla tematica dell’amore, inteso volta a volta come partecipazione all’eterno amore divino (Spinoza), come orientamento pratico del nostro essere a Dio, al di là di ogni negazione speculativa (Kant), o ancora come energia cosmica. Profondamente vicine a una concezione cristiana, al di là delle rispettive posizioni speculative, devono essere considerate le riflessioni sulla «simpatia», come fondamento di comunicazione fra gli uomini, di David Hume, come quelle sulla «compassione» per la sofferenza dell’uomo e di tutti gli esseri, in Schopenauer, forse a sua volta influenzato anche da concezioni buddhiste.

In epoche più recenti, la riflessione filosofica sull’amore viene progressivamente sostituita da ricerche a carattere psicologico. Mentre alcuni esaltano il sentimento dell’amore come l’espressione massima del volere il bene degli altri o come una sorgente ricca di emozioni, fonte di indicibile felicità, altri definiscono l’amore come una insidia che «il genio della specie» tende al singolo al fine di perpetuare la vita (von Hartmann), o infine interpretano l’amore come la sublimazione di un impulso istintivo originario, denominato​​ libido,​​ come fa Freud.

Una visione più positiva dell’amore, come la grande forza nascosta al cuore stesso della materia che anima e guida l’evoluzione del cosmo e dell’umanità e la conduce verso uno stadio ultraumano, verso il punto omega, è infine proposta, con prospettive estremamente suggestive, da Teilhard de Chardin.

 

1.2. La cultura dell’amore nella gioventù contemporanea

Nel mondo contemporaneo, nel quale l’accentuata personalizzazione porta a far avvertire sempre di più all’uomo il senso della propria separatezza e della propria solitudine, e nel quale i progressi della scienza e della tecnica inducono l’umanità a ricercare con ansia crescente valori umani autentici, l’amore ha assunto una nuova centralità, anche per il mondo giovanile. Esso è stato profondamente influenzato dalle acquisizioni delle scienze umane e in particolare di quelle psicologiche, che hanno contribuito enormemente al superamento di molte paure e a un cammino di liberazione e di umanizzazione. Una profonda modifica dei comportamenti giovanili, non sempre in senso positivo, è anche il frutto degli avvenimenti del sessantotto e dell’influenza che in esso hanno avuto pensatori come Reich e Marcuse.

L’amore è stato posto dalla cultura occidentale contemporanea sempre più decisamente al cuore della relazione che unisce l’uomo e la donna nella coppia stabile e nel matrimonio, e questo a differenza di quanto accadeva in epoche passate e di quanto accade ancora oggi in altre culture. A questo proposito tuttavia, nel nostro mondo occidentale, l’anticipazione progressiva dell’età nella quale i giovani cominciano a formare una coppia e realizzano i primi rapporti completi con persone dell’altro sesso, sembra un dato avvalorato dalle ricerche sociologiche, almeno in rapporto a quanto accadeva nelle generazioni passate. Nella cultura giovanile attuale, quando esiste l’«amore», sembra che qualsiasi comportamento nei rapporti di amicizia o di «fidanzamento» con coetanei dell’altro sesso debba essere considerato legittimo. Una tale convinzione, che si è imposta anche in ragione della migliore conoscenza e della divulgazione delle tecniche contraccettive e della libertà consentita alle giovani generazioni, sia per convinzione teorica, sia come conseguenza di circostanze pratiche (automobile, diffusione del benessere), se presenta il vantaggio di superare quelle diversità fra il comportamento riconosciuto lecito all’uomo o alla donna in epoche passate, sembra rendere più difficile la formazione di una coppia permanente e fedele e non è senza porre interrogativi dal punto di vista di una pienezza umana e della fede cristiana. Spostando invece il discorso sull’amore inteso come centro del messaggio cristiano, come insegnamento di amore agli altri e a Dio, non si può negare che esso ha una larga eco nella coscienza giovanile attuale, portata a cogliere l’essenza del messaggio, il quale poteva essere in epoche passate occultato da un maggior numero di insegnamenti legalistici e ritualistici, che ostacolavano il riconoscimento del primato della carità. L’importanza attribuita dai giovani ai rapporti interpersonali, anche se spesso vissuti solo in gruppo e solo fra coetanei, la facilità con cui essi fraternizzano al di là di tutte le frontiere, il senso di rispetto per gli altri, prevalente anch’esso nella cultura giovanile, sembrano un frutto positivo del messaggio cristiano dell’amore, dal quale certamente sono poi profondamente influenzati altri valori largamente diffusi nel mondo giovanile e testimoniati dalle mille forme di servizio e di volontariato presenti nella nostra società, come il senso di solidarietà nei confronti degli altri e in particolare dei più sofferenti, l’impegno alla lotta per la pace e i diritti umani, il superamento di ogni forma di razzismo, l’aspirazione a una migliore condivisione delle ricchezze della terra.

Anche l’amore verso Dio acquista nella coscienza religiosa dei giovani di oggi un valore e una risonanza sempre più profondi. Mentre praticamente assente nella coscienza giovanile attuale è la spinta a operare determinata dal timore del castigo e dell’inferno, si avverte in molti la ricerca di una esperienza spirituale e religiosa autentica capace di far sperimentare e di far crescere questo amore. È anzi proprio questa ricerca che spiega il passaggio di tanti giovani cristiani ad altre esperienze religiose, nelle quali sperano di trovare un cammino di contemplazione e di ascesa verso Dio che disperano ormai di trovare nella propria chiesa, che appare ad essi troppo centrata su aspetti istituzionali e di potere.

 

2.​​ Una rinnovata comprensione del messaggio cristiano intorno all'amore

 

2.1.​​ L’amore nella Scrittura

Al cuore della rivelazione ebraico-cristiana sta l’autocomunicazione di Dio come amore, così come il duplice comandamento dell’amore. Già nelle Scritture del primo testamento viene fatto conoscere all’uomo l’amore misericordioso di Dio che con iniziativa gratuita sceglie il proprio popolo, lo chiama a stringere con lui un patto di alleanza e lo impegna alla fede e all’amore. L’immagine dell’amore coniugale viene adottata dai profeti e dagli autori sacri per aiutare il popolo d’Israele a comprendere l’amore di Dio nei suoi confronti e la risposta di amore che egli si attende da esso (cf Os 1-3; Ger 2,2; 3,1.612; 31,3-4; Is 54,4-8; Sai 45; Cantico dei cantici), per cui ogni infedeltà al Dio d’Israele può essere qualificata come adulterio (cf Ez 16 e 23). Altre immagini tratte dall’esperienza quotidiana dell’amore, come quella di padre, di madre (cf Is 49,15; 66,12-13; Sai 131), di amico, vengono utilizzate anch’esse per rendere sempre più comprensibile al pio ebreo il mistero dell’amore di Dio. La creazione stessa viene progressivamente compresa come il frutto dell’amore e della bontà di Dio (Gn 1). L’amore di Dio non è contraddetto dall’esistenza del male, inteso spesso come il mezzo attraverso il quale Iddio mette alla prova la fedeltà dei credenti o educa i suoi figli (Es 34,6-7; Dt 8,5; 2 Sam 7,14; Prv 3,1112; Sap 11,9-10; 12,22). Il dovere del credente è appunto quello di corrispondere con il proprio amore all’amore di Dio, e di testimoniare tale amore con la propria obbedienza e fedeltà (Es 20,6; Dt 6,5; 7,6-13; 10,12-13). Le Scritture ebraiche insegnano già a collegare l’amore di Dio e l’amore del prossimo (Lv 19,18), e allargano progressivamente la nozione di prossimo al di fuori della cerchia familiare e nazionale, sino a riconoscere come oggetto dell’amore e della sollecitudine di Dio non solo gli stranieri dimoranti sul territorio (Es 22,20; Lv 19,34; Dt 10,19), ma anche i membri degli altri popoli e nazioni (Rut; Giona; Deuterolsaia).

La rivelazione dell’amore di Dio nei confronti dell’uomo e di tutti gli uomini giunge alla sua pienezza nella rivelazione di Gesù. Egli è il figlio prediletto (Me 1,11; 9,7, 12,6 e paralleli), che ci fa conoscere la provvidenza del Padre nei confronti dei suoi figli (Mt 6,2532), il suo disegno di amore e di salvezza (Gv 3,16-17), la sua misericordia nei confronti degli ammalati, degli stranieri, degli stessi peccatori (Le 15). L’amore per i peccatori appare anzi quasi la caratteristica dell’evangelo, e un tale amore ci introduce alla comprensione del mistero del regno che Gesù ha annunciato e al quale tutti sono chiamati. L’esistenza stessa del Figlio è un modello di amore (Gv 13,1). Collegando strettamente l’insegnamento dell’amore di Dio a quello dell’amore del prossimo (Me 12,28-34 e par.), Gesù ci insegna che tutta la legge e i profeti si riducono a questo unico comandamento (Mt 22,40; Rm 13,8-10; Gal 5,14), che è sull’amore che saremo giudicati (Mt 25,31-46) ed esige anche l’amore per i nemici (Mt 5,4348; Le 6,27-35; cf Le 10,25-37; 23,34; Rm 5,8-10; 12,14-16).

La primitiva riflessione cristiana ha riconosciuto come l’amore di Dio, per il quale tutte le cose sono state create, ha raggiunto la sua piena manifestazione nell’autorivelazione di Dio all’uomo e nel suo disegno di salvezza nei confronti dell’uomo peccatore (Rm 5,8; 8,31-35; Ef 1,3-14; Gal 2,20; Gv 3,1617). La risposta dei credenti, chiamati a vivere nell’amicizia col Signore (Gv 15,15), e ad essere santi e prediletti da Dio, a somiglianza del Figlio (Rm 1,7; Col 3,12), deve essere una vita nell’amore, capace di corrispondere all’amore di Dio (Rm 8,28; 1 Cor 2,9; 8,3) e di diffondere il proprio amore su tutti i fratelli (Gal 5,6.14; 1 Cor 13; 1 Gv 4,21). L’amore con il quale siamo stati amati è la fonte e il modello dell’amore che dobbiamo avere gli uni per gli altri (Gv 13,34; 15, 9-12; 17, 20-26). Anche se da soli non saremmo capaci di amare realmente, è l’amore di Dio riversato dallo Spirito nei nostri cuori che ci dà la possibilità di amare (Rm 5,5). A imitazione di quello di Cristo, «che supera ogni conoscenza» (Ef 3,8-19), questo amore può comportare esigenze sempre crescenti, perché non vi è limite nell’accettazione, nell’accoglienza, nel perdono, nella sopportazione degli altri, nel portare i pesi dei nostri fratelli, nel partecipare alle loro gioie e alle loro pene, nel contribuire anche materialmente, con l’ospitalità, con la colletta, con la condivisione, alle necessità dei fratelli (cf Rm 12,3-11; Ef 4,1-6, ecc.). Come l’amore di Dio non conosce confini, così non esistono confini per l’amore fraterno, chiamato a estendersi a tutti gli uomini.

Nei confronti del Signore infine un tale amore può giungere sino a richiedere il dono della vita (Gv 15,13; Mt 10,39 e par). Vivere nell’agape significa vivere in Dio, perché Dio è amore (1 Gv 4,8.16). Questo vertice e pienezza dell’esperienza di fede (1 Cor 13; Rm 13,810), ci rende «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4). Solo colui che ama infatti «conosce Dio» (1 Gv 4,7). Chi non ama, non è in grado di accogliere la rivelazione di Dio (Gv 14,24) e in questo senso non può neppure essere considerato un credente (1 Cor 13,1-3; 1 Gv 3,10; 4,8.20).

La centralità di questo insegnamento sull’amore nella Scrittura dispensa da una più approfondita ricerca su quello dell’amore inteso in senso sessuale, relativamente al quale possiamo dire solo che esso partecipa della bontà riconosciuta da Dio a tutta la sua creazione (Gn 1,31), in quanto corrisponde al disegno di Dio (Gn 2,24), che ha voluto che la propria immagine fosse pienamente realizzata nella complementarità dell’uomo e della donna (Gn 1,27). Il disordine che nel corso della storia si è instaurato nei rapporti fra l’uomo e la donna (dominio dell’uomo sulla donna e oppressione di quest’ultima, difficoltà di padroneggiare i propri istinti) è visto dalla Bibbia come una conseguenza del peccato (cf Gn 3,7.12.17), il cui superamento è reso possibile dalla restaurazione della comunione fra Dio e l’uomo operata con la Pasqua di Cristo. Il semplice fatto che l’amore fra l’uomo e la donna venga assunto a fondamento dell’allegoria dell’amore fra Dio e l’umanità, e a segno dell’amore di Cristo e della chiesa (Ef 5,22-32), mostra quanto esso sia considerato positivo, anche se la Scrittura sembra presupporre che esso sia vissuto nell’ambito dell’esperienza coniugale e soprattutto chiede che esso sia interamente vissuto «nel Signore» (1 Cor 7,39).

 

2.2. Una riflessione teologica sull’amore

Una pastorale giovanile adeguata alle attese della chiesa e del mondo di oggi deve tornare a riaffermare vigorosamente il primato dell’amore nella fede e nella vita cristiana.

 

2.2.1. Dio è Amore

Il mistero dell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito non può essere compreso che come un mistero di amore, nel quale l’amore del Padre, amore fontale, genera il Figlio come parola d’amore, ed entrambi spirano lo Spirito Santo, amore unificante del Padre e del Figlio. Il Dio cristiano non è un Dio solitario, ma un Dio di comunicazione, di condivisione, di comunione. Le persone divine, definite nella teologia tradizionale come relazioni,​​ esse ad,​​ si realizzano pienamente nel dono, nella comunicazione di sé stesse a un altro. Dio è Amore però non solo in sé stesso, ma anche nel suo agire fuori di sé. L’agape divina è la fonte del mondo e della storia, la ragione prima dell’esistenza dell’universo e dell’umanità, il motivo ultimo della storia della creazione e della storia della salvezza, la norma del comportamento di Dio, sorgente di realtà, di valore, di comunione. La creazione non è frutto di necessità, ma atto di assoluta libertà e gratuità, pura espressione della magnificenza dell’amore di Dio. Lo stesso deve essere detto per l’autorivelazione di Dio all’umanità. «Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare sé stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cf Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cf Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (DV 2). La rivelazione dell’amore di Dio, che sulla croce si manifesta come amore per i peccatori, è il cuore del Vangelo. Il suo amore si irradia, come la luce; gli uomini che si lasciano raggiungere da questa luce e da questo amore sono già nella salvezza (cf Gv 1,12-13).

 

2.2.2. A colui che lo ha amato per primo, l’uomo è chiamato a dare una risposta di amore

Corrispondere all’amore di Dio significa nello stesso tempo amare Dio con tutte le forze e amare il prossimo. «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli... Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio... Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; colui che vive nell’amore abita in Dio e Dio abita in lui» (1 Gv 3,16; 4,7.16). Soltanto quando comincia ad amare, l’uomo comincia anche ad esistere autenticamente (1 Gv 3,14). L’amore di Dio che si è reso visibile in Cristo è sorgente di comunione con Dio e con gli altri (1 Gv 1,1-3). La comunità cristiana, generata da questo amore di Dio manifestatosi nella croce di Cristo, è chiamata a rendere testimonianza nel mondo a questa rivelazione dell’amore (Gv 13,35). Essa è stata dotata da Dio di tutto ciò che, nello Spirito Santo, principio di unità e insieme della ricchezza della diversità, la può conservare unita nella carità: un solo evangelo, un solo battesimo, una sola eucaristia, i ministeri e i carismi, la diaconia e il servizio a cui tutti nella chiesa sono chiamati. La comunione ecclesiale, il cui modello ultimo è la stessa comunione trinitaria (Gv 17,20-26), è affidata comunque alla responsabilità dei credenti, che devono corrispondere al dono di amore che hanno ricevuto, come Paolo non si stanca di ripetere nei suoi scritti (cf Ef 4,1-6; Fil 2,1-4, ecc.). Al di là dei confini stessi della comunità cristiana, l’amore deve estendersi infine a ogni uomo, e ama ciascuno per sé stesso, nella sua irripetibile individualità, così come Dio lo ama. Dovunque anzi esiste una presenza d’amore, ivi il Signore stesso rivela la sua presenza.

 

2.2.3.​​ L’amore è dono e responsabilità​​ 

Secondo la rivelazione biblica, l’uomo con le proprie forze è incapace di vivere questa pienezza d’amore. È l’agape divina, il dono dell’amore di Dio in Gesù Cristo, riversato nei nostri cuori dallo Spirito (Rm 5,5; 8,9-17), che ci mette in condizione di amare. Questa agape diventa nel credente un fiume di acqua viva (Gv 7,37-38), che ci colma dell’amore che ha in Dio la sua origine. Essa trasforma i nostri cuori (cf Ez 36,26-27), nella misura in cui non opponiamo resistenza, donando guarigione e salvezza, rendendoci figli di Dio (1 Gv 3,1-2), consentendo l’inabitazione della Trinità in essi (Gv 14,23). La trasformazione operata dall’agape divina fa sì che in Dio possiamo amare autenticamente ogni essere, e quindi amare noi stessi, gli altri, tutto ciò che è oggetto dell’amore di Dio. Essa costituisce così la grande forza di umanizzazione del mondo, la grande energia volta a creare quella pienezza di comunione fra Dio e gli uomini e degli uomini fra loro e con il cosmo, alla quale tende il meraviglioso progetto di Dio per la creazione e per l’umanità.

II fatto comunque che la possibilità di amare con autentica agape sia un dono di Dio, non sminuisce il valore dell’amore di cui l’uomo è capace con le forze della sua natura. L’amore non è infatti l’espressione di un comandamento estrinseco, impostoci dall’esterno, ma corrisponde alla struttura ultima della condizione creaturale e umana, in quanto porta l’essere umano a realizzare una profonda comunione con tutto ciò che è essere. Come tendenza fondamentale della persona, l’amore ne assorbe e armonizza le potenze psichiche e le energie spirituali e fisiche, integrandole in un’unica inclinazione, che sgorga nel cuore dell’uomo, in quel centro in cui il conoscere, il volere e il sentire sono uniti nell’unico io personale. Ora l’agape non distrugge queste energie naturali ma si innesta in esse e le assume, purificandole e perfezionandole, per portare l’uomo alla piena realizzazione del proprio essere, secondo il disegno contenuto già nell’ordine della creazione. Essa integra quindi anche le energie sessuali e le energie dell’eros, che secondo l’originario disegno divino sono destinate anche a una funzione di relazione e di socializzazione (Gn 2,18-25), rendendo così possibile il pieno sviluppo del nostro essere personale, contribuendo alla realizzazione di un mondo amorizzato.

 

2.2.4.​​ L’opzione fondamentale caritativa​​ 

Sotto l’azione della grazia, l’uomo che vive nell’amore compie una opzione fondamentale per Dio, e la approfondisce continuamente. In questo senso l’amore, l’unico amore a Dio e al prossimo, costituisce anche l’anima, la «forma» di tutte le virtù morali, che senza di esso perderebbero ogni valore (1 Cor 13,1-3). Ogni mancanza formale a queste virtù diventa pertanto una mancanza contro l’amore e quindi contro Dio. Ogni peccato è un peccato contro l’amore, una esclusione dell’amore. Anche se di solito esso non giunge a modificare l’orientamento di fondo all’amore, cioè l’opzione fondamentale caritativa, certamente la impoverisce. Proprio perché la scelta per Dio o contro Dio è sempre una scelta nell’ordine dell’amore, si spiega perché anche la liberazione dal peccato abbia potuto essere compiuta soltanto da quella sovrabbondanza d’amore con la quale Cristo si è offerto in atto d’amore e d’obbedienza al Padre. E si spiega come la stessa perfezione cristiana debba essere vista come una perfezione nell’ordine dell’amore, una pienezza per la quale vale il principio agostiniano «Ama e fa’ quello che vuoi». Colui che vive in abituale comunione d’amore con il Signore è guidato interiormente dal Signore stesso a operare sempre in maniera conforme alla sua volontà.

 

2.2.5.​​ L’amore di amicizia

Parlare dell’amore agli altri non significa parlare dell’amicizia. L’amore infatti si riversa sugli altri, indipendentemente dal fatto di essere ricambiato o meno. Lina piena riuscita nella capacità di amare si esprime anzi nella facilità e attitudine a stabilire contatti, nel partecipare alle vicende degli altri e nell’assisterli in eventuali necessità, senza chiedere nulla in contraccambio. Quando tuttavia questo amore si incontra con un’altra persona, con la quale si stabilisce una relazione di fiducia, di stima, di simpatia reciproca, viene a stabilirsi anche una nuova comunione interpersonale, che ha un immenso valore ai fini della piena personalizzazione del singolo e ai fini di una progressiva amorizzazione del mondo. Essa ha anche un grande valore agli occhi di Dio, che ha voluto rivelarsi come amico dell’uomo, e che dona al cuore umano di diventare capace di amicizia. Anzi, un cuore profondamente abitato dall’amore di Dio è capace di grande amicizia. In quanto amore autentico essa desidera il bene dell’amico, come amore di benevolenza; non si può infatti parlare di amicizia, dove esiste quello che gli antichi chiamavano amore di concupiscenza, che in realtà è soltanto un atteggiamento egoistico che spinge a desiderare un oggetto o una persona per sé stessi e per il proprio piacere o interesse. Nello stesso tempo, un autentico amore di amicizia non tende a una impossibile fusione con l’amico, ma cerca di stabilire con esso una comunione rispettosa dell’identità e della diversità dell’altro, né tende in alcun modo ad essere esclusiva, ma si allarga a incontri e amicizie sempre nuove: «Gli amici dei miei amici sono miei amici».

 

2.2.6.​​ L’amore coniugale

In un caso soltanto l’amicizia tende a diventare esclusiva, e cioè allorquando essa evolve verso quella forma suprema di amore e di amicizia che assume necessariamente caratteristiche di esclusività e di permanenza, e che conosciamo come amore coniugale. Mentre in altre epoche, nelle quali l’umanità lottava per la propria sopravvivenza, l’unione matrimoniale veniva concepita soprattutto nella prospettiva della procreazione e dell’educazione dei figli, e anche per questo motivo la cultura e la società non dava particolare importanza all’amore fra i coniugi, che generalmente fra l’altro non si erano scelti, e il cui amore era considerato tutt’al più come il frutto normale di una vita matrimoniale, la cultura contemporanea, anche a causa del processo di personalizzazione e di crescita di ogni persona al quale abbiamo assistito almeno nel mondo occidentale nel corso degli ultimi decenni, dà oggi molta importanza alla comunione d’amore che deve esistere all’interno di una coppia stabile e del matrimonio. La chiesa stessa ha preso coscienza di questa nuova situazione, e ha esplicitato con il Concilio Vaticano II un insegnamento che tuttavia era restato sotterraneamente presente sin dagli inizi, parlando con grande insistenza dell’amore coniugale, considerato come l’essenza stessa del matrimonio e ricordando che «l’autentico amore coniugale è assunto nell’amore divino» (GS 48). L’amore che unisce gli sposi costituisce il segno sacramentale, che sulla terra è segno dell’amore di Dio per il suo popolo, e questo amore, sorgente di comunione e di fecondità, deve essere custodito dagli sposi con ogni cura, per essere fedeli alla propria vocazione di «non separare ciò che Dio ha unito» e per trovare in esso una fonte inesauribile di gioia e di vita.

 

3.​​ L’educazione all’amore nella pastorale giovanile

La centralità dell’amore secondo il messaggio cristiano porta infine ad applicazioni concrete di cui la pastorale giovanile deve tenere il massimo conto.

 

3.1.​​ L’amore verso sé stessi

Il punto di partenza dell’amore è sempre l’io personale, il quale è in grado di amare nella misura in cui è stato capace anche di accogliere sé stesso con amore. Questo amore per sé stesso, come amore per il proprio essere personale, costituisce un dato fondamentale dell’esistenza umana, legato all’istinto di conservazione e alla legittima aspirazione a realizzare nella maniera più piena possibile le proprie potenzialità, e per il credente, all’accettazione in lieta gratitudine della propria persona come creatura di Dio. Questo amore per sé stessi, che già il libro del Levitico (19,8), e poi la «regola aurea» della saggezza umana (cf Tb 4,15; Mt 7,12; Le 6,31), e infine lo stesso evangelo (Mt 22,39 e par) pongono a misura dell’amore che dobbiamo portare agli altri, non deve essere confuso con l’egoistico ripiegamento su sé stesso, l'amor sui​​ di cui parla Agostino, ma costituisce un autentico amore agapico, pieno di benevolenza e di compassione anzitutto per lo stesso soggetto amante.

Poiché è impossibile all’uomo vivere senza sapersi amato e senza corrispondere all’amore altrui, l’amore e l’accettazione di sé stesso costituisce come un punto di partenza e un’esperienza basilare nella strutturazione della persona, senza la quale non si può essere in grado di amare. Esso ci consente d’altra parte di accettare anche la nostra condizione di solitudine, vivendo in pace e in armonia con la nostra stessa presenza. La crescita nell’amore, la vita nuova in Cristo (Gal 2,20), è comunque sorgente di una crescente capacità di dimenticare sé stesso, di morire a sé stesso, di rinunciare alla propria vita (Mt 16,24-25; Gv 12,24-25), sopportando sacrifici e rinunce, per vivere esclusivamente per Dio e per gli altri.

 

3.2.​​ Amore alle cose

Il problema del rapporto dell’uomo con le cose materiali e dell’atteggiamento nei confronti della natura e del mondo animale presenta oggi una particolare attualità, da una parte a causa della problematica ecologica, che ci invita al rispetto di un ambiente naturale che appare sempre più deteriorato, dall’altra a causa dell’incontro con altre culture e religioni, che sembrano più attente nei confronti del mondo infraumano di quanto lo sia stata la tradizione cristiana.

L’amore di Dio al quale è invitato il cristiano aiuta a scoprire la sua presenza in tutte le cose. È nel creato, nella meravigliosa bellezza e nella sterminata complessità della natura, che il giovane avverte spontaneamente un segno della presenza e dell’amore di Dio ed è portato a cantare la propria riconoscenza al Creatore. Un tale amore porta anche a rispettare la natura: se l’uomo, secondo l’insegnamento di Genesi, è costituito signore dell’universo, ciò non significa che sia autorizzato a violare e a sfruttare la natura, ma che egli è chiamato piuttosto a preservarla e a proteggerla.

Quanto si è detto mostra come, nei rapporti con il mondo infraumano, quello che chiamiamo amore può essere considerato una conseguenza indiretta del nostro amore a Dio, la cui sapienza e presenza si rivela anche nelle cose create, e insieme anche del nostro amore agli altri, che ci vengono ricordati da cose che hanno o hanno avuto in qualche modo riferimento alla loro persona. Un autentico rapporto interpersonale con le cose e con gli animali è infatti non pensabile, anche se nella prospettiva teilhardiana e seguendo l’ipotesi da lui formulata circa lo psichismo di fondo presente in tutta la natura e la crescita contemporanea della complessità-coscienza, le cose appaiono già ordinate a una possibilità di relazione con l’uomo. Inoltre, quanto è detto in Rm 8,19-20, in rapporto a Gn 3, ci lascia intendere un misterioso rapporto fra le vicende della storia umana e le vicende del creato.

Sul piano pedagogico, deve essere infine giudicato importante, in conformità all’evangelo, educare i giovani a evitare un attaccamento alle cose capace di degenerare, costituendo una «ricchezza» che li distoglie oggettivamente dalla ricerca del Regno, e a servirsi tuttavia di esse con letizia e libertà di spirito, sapendo che possono costituire uno strumento prezioso per la propria crescita personale.

 

3.3.​​ Amore agli altri

«Se uno dicesse: “io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). Secondo la fede cristiana, non solo l’amore di Dio è inscindibile dall’amore degli altri, ma l’amore per l’uomo, immagine di Dio (Gn 1,27), costituisce il segno e la misura del nostro stesso amore per Dio.

L’agape versata nei nostri cuori ci porta ad amare gli altri con il cuore stesso di Dio, nella loro realtà esistenziale, con tutto il loro carico di sofferenza, di aspirazioni, di sentimenti, nella loro identità personale unica e irripetibile.

La richiesta di amare gli altri come sé stesso pone un limite all’amore di sé, che deve essere continuamente paragonato all’amore portato agli altri. Il senso di giustizia presente in ciascuno porta a confrontare quanto si desidera o esige per sé stesso, con quanto si desidera o esige per gli altri, e porta ad avere per gli altri la stessa misericordia che si desidera sia esercitata nei propri confronti. L’invito di Gesù ad amarci come egli ci ha amato, e cioè sino a donare la vita, va comunque ancora al di là. Esso può chiederci di amare gli altri sino al dono della vita (Gv 13,1; 15,13). Esso non si estende soltanto ai famigliari o a coloro che ci amano, ma è chiamato a includere tutti, anche coloro che ci fanno del male, anche i nemici (Mt 5,38-48; Le 6,27-36; Rm 12,20-21). In concreto esso si eserciterà nella nostra vita quotidiana, ed anzitutto nella vita di famiglia, e in particolare all’interno della coppia, che costituisce come si è detto la forma suprema di realizzazione dell’amore. La famiglia tuttavia deve essere considerata soprattutto come una scuola d’amore, ma non può pretendere di esaurire le potenzialità d’amore dei propri membri; il cristiano deve anzi imparare a riconoscere come propria famiglia la comunità dei credenti o addirittura il mondo intero (Mt 10,37; 19,29; Le 14,26).

L’amore agli altri si eserciterà inoltre anche attraverso il lavoro professionale, nel quale viene data la possibilità di un autentico servizio agli altri attraverso l’esercizio della propria competenza e della propria dedizione. Altre forme di esercizio concreto dell’amore al prossimo sono comunque offerte dalla vita della società civile, nelle mille occasioni di aggregazioni sociali e di collaborazioni ai fini più disparati. La forma forse più alta di servizio agli altri che possa essere realizzata nel mondo contemporaneo resta infine quella che si esercita attraverso l’impegno politico, e cioè attraverso la ricerca del bene comune, compiuta sia scegliendo coloro che possono meglio operare per la collettività, in occasione di elezioni, sia impegnandosi in prima persona, con dedizione e competenza, con rettitudine e disinteresse, per contribuire all’edificazione di una società migliore, nella quale siano rispettati i diritti di tutti, sia migliorata la qualità della vita per tutti, e sia perseguita la realizzazione di una convivenza umana pacifica e giusta.

 

3.4. Amore di Dio

L’amore attinge la sua forma suprema quando l’uomo, per dono dall’alto, giunge a orientare la propria vita all’amore di Dio. Esso non costituisce una dimensione a parte nella nostra vita; l’amore agli altri è già inscindibilmente amore a Dio; non esiste una separazione fra un mondo sacro, il mondo del culto e del rapporto con Dio, e un mondo profano, che sarebbe quello dell’esistenza quotidiana. Dio è amato in ogni forma di amore autentico, e in ogni istante e circostanza della nostra vita. L’aspetto affettivo dell’amore ha tutta la sua importanza anche nel rapporto con Dio. «Hai fatto il nostro cuore per te, Signore, ed esso resta senza pace fino a che non riposa in te» (Agostino). Esso tuttavia deve diventare amore effettivo, espresso negli atti e nei comportamenti concreti. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

L’esempio di Gesù ci insegna che amare Dio significa porsi in atteggiamento filiale, orientare a lui tutta la propria esistenza, preferirlo agli onori e alle ricchezze, vivere in comunione con lui, anzitutto attraverso la preghiera, compiere la sua volontà, in una obbedienza alla propria missione che può giungere sino all’accettazione della croce e al dono della vita. L’amore a Dio si manifesterà poi in modo particolare per il credente nella sua partecipazione alla vita e alla missione della comunità ecclesiale e soprattutto nella partecipazione alla liturgia e al suo culmine, la celebrazione dell’Eucaristia. Esso si realizzerà in una forma caratteristica nella consacrazione religiosa, che deve essere appunto interpretata come una forma suprema di spoliazione e di povertà accettata per potersi dedicare interamente all’amore di Dio e degli altri.

 

3.5. Educare ad amare

Tutta l’opera di educazione deve essere considerata un’educazione all’amore. L’uomo non nasce infatti già capace di amare. La capacità di amare, sul piano naturale, è il frutto di un processo di graduale maturazione. La persona diventa persona anzitutto in virtù del calore dell’amore ricevuto dagli altri, attraverso i quali si sperimenta in ultima istanza lo stesso amore di Dio. Questa capacità di amare si fonda su una «fiducia originaria», che viene suscitata da un rapporto positivo con il prossimo avuto nella prima infanzia, nel clima di una famiglia unita nell’amore, nella quale il bimbo si apre spontaneamente all’amore degli altri e allo stesso amore dell’Assoluto, la cui misericordiosa presenza è in qualche modo sperimentata nel gratuito amore dei genitori. La capacità di amare matura poi nel corso degli anni nella misura in cui la persona continua a sentirsi accettata e amata. Un ruolo molto importante a questo proposito è anche quello svolto dagli amici, che costituiscono delle persone di riferimento per la nostra vita, sorgente di amore nei nostri confronti e insieme bisognose di essere amate da parte nostra.

Da un amore infantile e immaturo, rivolto agli altri soprattutto nella ricerca del proprio piacere, si passa cosi gradualmente a forme di amore più personalizzato, capaci di stabilire un rapporto interpersonale, che valorizza le stesse potenze legate alla sessualità ai fini della creazione di una maggiore solidarietà umana e di forme di comunicazione e di comunione, e infine alla realizzazione di quel legame duraturo ed esclusivo che è caratteristico della vita coniugale. La maturazione personale si completa nel passaggio a un amore sempre più capace di donazione e di sacrificio per il servizio e la crescita degli altri, nella libertà e nella gratuità, quale si manifesta nell’autentico amore dei genitori per i figli.

Una mancata o errata educazione all’amore può portare lo stesso a estrinsecarsi in maniere sbagliate, da cui spesso discendono forme di nevrosi, di dipendenza, di perversione. Situazioni familiari abnormi, carenze affettive nella prima infanzia, decisioni errate nel corso della propria esistenza sono alla base di deviazioni della tensione amorosa. Esse possono essere corrette solo se al soggetto viene offerto un ambiente colmo di amore, nel quale insieme alle terapie proposte dalle scienze umane, capaci di aiutare lo sviluppo dei rapporti interpersonali e di togliere gli ostacoli o le eventuali repressioni che possono avere paralizzato un normale sviluppo delle potenzialità di amore, la persona si sente incoraggiata a crescere e a fiorire nell’amore. Questa crescita nell’amore è particolarmente favorita da una vita condotta all’interno della comunità cristiana. Essa offre attraverso i sacramenti, che sono sacramenti dell’amore, l’ascolto della Parola, che annuncia il messaggio dell’amore e lo mostra concretizzato nell’esempio di Gesù, e la vita di comunione e di servizio reciproco che la devono caratterizzare, tutti quei mezzi di grazia che possono sostenere il credente nella sua maturazione verso la pienezza dell’agape. La certezza dell’amore di Dio, Padre e Madre, Amico e Sposo, nei confronti dell’uomo, e del fatto che questo amore si è manifestato nella figura fraterna di Gesù di Nazaret, facendo sì che l’uomo si senta amato, lo porta a riversare a sua volta sopra gli altri una sovrabbondanza di amore, che è chiamata a perfezionarsi sempre di più, e a crescere senza limiti.

 

3.6. L’amore fra l’uomo e la donna

La forma più alta di amore nei rapporti interpersonali infine, come abbiamo visto, è costituita da quell’amore fra l’uomo e la donna che abbiamo definito amore coniugale. Esso dà origine alla comunione più grande possibile che sia realizzabile fra persone umane, capace di coinvolgere tutte le dimensioni della personalità e chiamata a essere al cuore di ogni altra comunione interpersonale. La sua dignità è tale, che l’amore coniugale è stato assunto dalla rivelazione come segno dell’amore di Dio per il suo popolo, in Cristo e nella Chiesa (cf Ef 5,22-32). Una tale comunione di amore, che si attua nel contesto dell’esistenza quotidiana e che è intrinsecamente feconda, è sorgente inesauribile di gioia e di carica vitale, ed è atta a suscitare una immensa dedizione reciproca e una inesauribile capacità di donarsi insieme per il bene degli altri e soprattutto dei figli. Anch’essa tuttavia potrà essere realizzata soltanto come conseguenza di una formazione umana e cristiana capace di far apprezzare la bellezza di questo impegno nel matrimonio e nella famiglia, di preparare a una scelta illuminata del compagno della propria vita e di educare a essere attenti alle esigenze e al mondo interiore dell’altro e fedeli al proprio patto nuziale a costo di qualsiasi sacrificio.

 

4. Conclusione

Nel cammino verso l’amore non si può mai dire di essere giunti al termine. Tutta l’esistenza terrena può essere letta come un grande apprendistato dell’amore, non solo per i singoli, ma per l’intera umanità. La pienezza dell’amore si raggiungerà comunque solo escatologicamente. L’amore è infatti l’unica realtà della nostra esperienza terrena che ci accompagnerà, trasfigurata, nel mondo nuovo (1 Cor 13,8.13; GS 39). Qui sulla terra ogni amore resta sempre fragile, provvisorio, incerto. Esso vive l’oscurità della fede, nei rapporti con Dio, e la pesantezza della nostra condizione terrestre, nei rapporti con gli altri. Solo quando ogni persona sarà vista nello splendore che essa possiede di fronte a Dio, solo quando vedremo il Signore «a faccia a faccia» (1 Cor 13,12), esso esploderà in tutta la sua pienezza. Per questo è solo nella morte, che si raggiunge la piena misura dell’agape. Come è stato per Cristo, che proprio nella Pasqua ha svelato pienamente al mondo «l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità» del suo amore, «che supera ogni conoscenza» (Ef 3,18-19).

 

Bibliografia

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AMORE

AMORE EDUCATIVO

 

AMORE EDUCATIVO

Non esiste educazione senza a. Non c’è approdo alla compiutezza dell’umano se non promana da ricchezza di a. offerto, rassicurante e orientante a matura libertà, al servizio della vita e dell’a. Nel quadro delle​​ Lebensformen​​ e dei​​ Lebenstypen, immaginati da​​ ​​ Spranger, l’educatore appare come il tipo sociale, altruistico, mosso dalla passione, dall’eros elevato ad a. spirituale per l’uomo e per il suo perfezionamento. Se ne delineano alcune «figure» più rilevanti.

1.​​ L’a. naturale​​ dei genitori per i figli, in particolare delle madri, è spesso esaltato nella poesia e nell’arte ed è fenomeno diffuso in tutte le culture. Ne prende atto anche​​ ​​ Aristotele, attento osservatore dei fatti: «Si ammetterà anche che l’amicizia consiste più nell’amare che nell’essere amati. Se ne trova un esempio nelle madri che ripongono tutta la loro gioia nell’amare» (Et. Nic.​​ VIII 8, 1159 a 13); «i genitori amano i loro figli perché questi sono come qualcosa di loro» (Et. Nic.​​ VIII 12, 1161 b 18); per la maggior prossimità iniziale «le madri amano i loro figli più di quanto facciano i padri» (Et. Nic.​​ VIII 12, 1161 b 26). Nel mondo ebraico ci si domanda a proposito dell’a. fedele di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno?» (Is 49,15). Esprime analoga persuasione s. Angela Merici alle «Matrone» della sua Compagnia di vergini: «Perché si vede nelle madri carnali, le quali, se havesseno mille figli et figlie, tutti li haveriano nell’animo suo totalmente fissi de uno in uno [...]. Anzi, pare che, quanto più se n’ha, tanto più l’a. et cura cresca a un per uno» (Legati​​ 2°). Tuttavia l’istinto non protegge da fenomeni opposti, attestati dalla storia di tutti i tempi: crudeltà, sevizie, abbandono, esposizione, ius vitae et necis del​​ paterfamilias,​​ infanticidio, abuso sessuale (​​ violenza).

2.​​ L’a. dei genitori,​​ in particolare quello materno, viene considerato primario nell’evento educativo dai classici della pedagogia romantica: «Tutta l’antichità esalta l’a. materno più di quello paterno; e dev’essere ben grande, quest’a. materno, poiché un padre amorevole non può immaginare affetto superiore al suo» (​​ Richter,​​ Levana​​ fr. IV);​​ «il nostro scopo principale è lo sviluppo dell’anima infantile [...] e quale forza più attiva e stimolante dell’a. materno?» (​​ Pestalozzi, II lett. a Greaves); «la madre è la naturale maestra che la Provvidenza ha posto al fianco del bambino. Il sangue non dice molto: è solo la bontà che parla al cuore della tenera creatura» (​​ Girard,​​ Dell’insegnamento regolare della lingua materna,​​ lib. IV, cap. VI, 1);​​ ​​ Fröbel,​​ L’educazione dell’uomo​​ I 6-22; II 24-33: «quanto è stato finora esposto possa destare nei genitori un sincero e sereno, profondo e intelligente a.».

3. L’a. viene esaltato, per una ristrettissima​​ élite​​ sociale e culturale, nella raffinata riflessione platonica sull’eros-pedagogico.​​ Esso vi è teorizzato come sublimazione dell’a. maschile: «volo di due anime intimamente unite al regno della bellezza eterna», «la fusione di passione vera col puro librarsi della speculazione e con la forza di una liberazione morale». È a. che porta gli amanti alla contemplazione del Bello e del Bene, due aspetti dell’identica realtà, «l’esser bello e buono»; e rende capaci di autentica «politica», recuperando alla ragione anche i «custodi», resi permeabili ad essa mediante un sistema educativo congruo (Jaeger, 1959, 299-337).

4. In una vasta prospettiva che attraversa i secoli, l’a.-carità​​ (agápe)​​ costituisce il​​ proprium​​ della pedagogia cristiana (familiare e istituzionale), quando si ispira all’infanzia vissuta in Gesù o da lui amorevolmente accolta ed esaltata (Mt 18,1-6; Mc 9,33-37; 10,13-16; Lc 9,46-48) e non viene, invece, soverchiato, nella realtà effettiva, dall’austera tradizione romana o dei popoli barbarici. Dell’a.e. evangelico sono testimonianza classici testi di​​ ​​ Agostino (De catechizandis rudibus,​​ cap. IV e XII), di s. Anselmo d’Aosta (Vita Eadmeri,​​ I 4, nn. 30-31), di educatori e pedagogisti dall’umanesimo all’età moderna, di fondatori e fondatrici di istituti religiosi consacrati all’educazione della gioventù,​​ ​​ Petites écoles de Port-Royal,​​ ​​ Rollin,​​ ​​ Aporti. S. Agostino mutua dalla letteratura classica come norma del governo della comunità monastica la formula «plus amari quam timeri» (Regula,​​ cap. XI), ripresa da s. Benedetto (Regula,​​ cap. LXIII) e trasferita nello spazio pedagogico da Ratherius, vescovo di Verona (Praeloquiorum,​​ lib. I, tit. XV, n. 30), da Silvio​​ ​​ Antoniano e infine da don Bosco (​​ sistema preventivo).

5. Accanto all’a. paterno e materno, proprio della famiglia nei confronti soprattutto dell’infanzia e delle istituzioni di stile «familiare», esiste​​ una contenuta forma di a.e.​​ deputato piuttosto a stabilire un ordine di​​ razionalità​​ e di​​ disciplina.​​ Ne tratta anche​​ ​​ Kant: «È necessario che l’uomo sia abituato per tempo a sottomettersi ai precetti della ragione [...]. Né la esagerata tenerezza materna che lo circonda durante la fanciullezza gli giova» (La pedagogia,​​ introduzione). È il sistema tipico usato nei monasteri, nelle famiglie patriarcali e, soprattutto, nei collegi, in particolare quelli militari dei secoli XVIII e XIX. Esso si pratica nei confronti di un’adolescenza ritenuta età irrequieta e ribelle, da preparare attraverso rude disciplina all’inserimento adulto nella società. In quest’ottica si determina in Francia, soprattutto nei primi decenni dell’’800, il dibattito polemico tra l’educazione pubblica, esigente e virile, e l’educazione privata, amorevole e condiscendente.

6. L’attuale complessità del compito educativo, nella famiglia e fuori, e lo sviluppo delle scienze dell’educazione sottolineano l’esigenza che l’educatore sappia coniugare l’a. con l’intuizione, la competenza, la familiarità con le scienze dell’educazione «Non basta amare per essere buoni educatori» (Pio XII); o meglio, se si ama, si mette tutta l’intelligenza al servizio dell’a., rendendo l’azione educativa più persuasiva ed efficace. Si insiste, in particolare, sulla necessità che l’a. non freni o blocchi, ma promuova la crescita dell’educando alla libertà matura: l’autenticità dell’a.e. sta in definitiva nel saper operare in modo che i giovani protagonisti siano indotti ad amare ciò che l’educatore ama non semplicemente​​ perché l’educatore è amabile,​​ ma è​​ valido e amabile in sé​​ ciò che l’educatore propone; anzi siano abilitati ad andar oltre con un cammino autonomo, originale e responsabile. Ciò può verificarsi in più alta misura quando l’educatore è l’apriori della coppia che li ha generati donandosi e donando a. permanente, aprendoli nell’uterus spiritualis​​ della famiglia alla pienezza della libertà.

Bibliografia

Jaeger W.,​​ Paideia. La formazione dell’uomo greco,​​ vol. III​​ Alla ricerca del divino,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1959, cap. VIII​​ Il​​ Simposio. Eros,​​ 299-337;​​ Spranger E.,​​ Der geborene Erzieher,​​ Heidelberg, Quelle und Meyer, 1960, 80-106​​ (Die pädagogische Liebe);​​ März Fr.,​​ Erzieherische Existenz. Zwei Essays über das Sein und die Liebe des Erziehers,​​ München, Kösel, 1963;​​ Histoire des pères et de la paternité,​​ sous la dir. de J. Delumeau et de D. Roche, Paris, Larousse, 1990; Delumeau J. (Ed.),​​ La religion de ma mère. Le rôle des femmes dans la transmission de la foi,​​ Paris, Cerf, 1992;​​ Venturelli F.,​​ Il ‘noi’ dei genitori e la relazione con il figlio nella riflessione di Ferdinando Ulrich, in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 43 (2005) 301-313; Galli N.,​​ Competenza ed a. per lo sviluppo del bambino, in «Pedagogia e Vita» 63 (2005) 162-164; Macario L.,​​ A. fonte di vita, Roma, LAS, 2007.

P. Braido

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AMORE EDUCATIVO

AMOREVOLEZZA

 

AMOREVOLEZZA

Il termine a. è quasi caduto in disuso nella lingua it.; ma nei secoli XVI-XIX ricorre con frequenza anche come categoria «pedagogica» (nell’educazione, nella catechesi e nella​​ ​​ pastorale).

1. Esso indica una particolare modalità di rapporti tra padri / madri e figli, tra maestri / educatori-maestre / educatrici e allievi / allieve, tra catechisti e catechizzandi, tra sacerdote / confessore e fedele / penitente. «A.​​ – scrive il Tommaseo – è il segno dell’amore, della benevolenza, dell’affetto; segno che può essere più o meno evidente e sincero.​​ Amorevole​​ indica gli atti esterni di un sincero amore [...] L’a. innoltre è, più d’ordinario, da superiore a inferiore. Può però anco l’a. essere tra pari, così come l’affetto [...]. La vera a. cristiana vien sempre dal cuore» (Nuovo diz. de’ sinonimi,​​ Napoli, 1905, 102-103).

2. Già nelle​​ Constitutioni et Regole della Compagnia et Scuole della Dottrina Christiana​​ (1585) è stabilito per il maestro: «con charità, a. et mansuetudine gli [gli scolari] riceva», seguendo l’esempio «di Christo, che con tanta charità et a. accettò quello fanciullo, che gli andò avanti». Anche​​ ​​ Aporti parla della necessità di «guadagnarsi prima di tutto l’affezione e la confidenza dei fanciulli», tenendo conto che «si ama chi ci tratta con a.» e che «il mezzo che più concorre a conciliare la benevolenza è la benevolenza»​​ (Scritti pedagogici​​ II, Torino, Chiantore, 1945, p. 85, 440-441). Fratel Théoger delle Scuole cristiane, conosciuto da don​​ ​​ Bosco a Torino (Virtù e doveri di un buon maestro,​​ Torino, Paravia, 1863), sviluppa il tema del maestro che «procura colle sue amabili qualità di conciliarsi l’a. degli scolari» (p. 5). Il barnabita A. Teppa,​​ Avvertimenti per gli educatori ecclesiastici della gioventù​​ (Roma / Torino, Marietti, 1868), una delle fonti delle pagine di don Bosco sul​​ ​​ sistema preventivo del 1877, parla di «amorevoli parole», di «amorevoli correzioni», «modi amorevoli», di castighi dati «con dignità e insieme con a.» (pp. 40, 49).

3. Don Bosco fa dell’a. uno dei tre pilastri (gli altri sono la​​ ​​ ragione e la​​ ​​ religione) su cui poggia il «sistema preventivo», la cui «pratica è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo». L’a. è precisamente «amore dimostrato» con immediatezza, sincerità e riserbo, e può considerarsi sinonimo di dolcezza, mansuetudine, benevolenza, amore-carità paziente e comprensiva. Don Bosco raccomanda l’a. anche ai confessori: «Accogliete con a. ogni sorta di penitenti, ma specialmente i giovani» (Opere edite​​ XIII 181); ma più universalmente a tutti coloro che si occupano dell’età in crescita: genitori, educatori, insegnanti, assistenti, animatori. Egli, però, non si nasconde alcune possibili ambiguità pedagogiche nel praticarla; perciò la vuole vissuta in sintesi con la ragione / ragionevolezza e la virtù teologale della carità. In relazione alle cautele e alle avvertenze di don Bosco, una innovativa pista di ricerca di grande forza suggestiva, con preciso riferimento alla sensibilità odierna nei confronti della sessualità e dell’amore, è percorsa e indicata dal salesiano francese Xavier Thévenot.

Bibliografia

Perquin N.,​​ Don Bosco als opvoeder en psycholoog,​​ in «Dux» 29 (1962) 433-439;​​ Rougier S.,​​ L’avenir est de la tendresse. Ces jeunes qui nous provoquent à l’espérance, Paris, Salvator, 1979; Thévenot X.,​​ Don Bosco educatore e il sistema preventivo. Un esame condotto a partire dall’antropologia psicoanalitica, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 701-730;​​ Id., «L’affectivité en éducation», in​​ Éducation et pédagogie chez don Bosco,​​ Paris, Fleurus, 1989, 233-254; Braido P.,​​ Breve storia del «sistema preventivo»,​​ Roma, LAS, 1993; Id.,​​ I molti volti dell’a., in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 37 (1999) 17-46.

P. Braido

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