ALBERIONE Giacomo

 

ALBERIONE Giacomo

1.​​ Nato a San Lorenzo di Possano (Cuneo) il 4-4-1884, educato nel seminario di Alba, G. A. è ordinato sacerdote nel 1908. Sensibile alla sfida laicista fatta alla Chiesa dalla società con temporanea, l’A. medita fin da giovane di dare una risposta pastorale globale al problema dell’evangelizzazione delle masse che si allontanano dalla Chiesa. Nel 1914 dà inizio alla Pia Società San Paolo, pensata come congregazione interamente al servizio dell’evangelizzazione mediante l’uso sistematico della stampa (e in seguito di tutti i mezzi moderni di comunicazione sociale). Fondatore di 10 istituti di vita religiosa e di apostolato (tra cui la Pia Società Figlie di San Paolo, 1915), l’A. rappresenta una delle figure più eminenti del movimento cat. italiano della prima metà del XX sec., per originalità di scelte operative e per efficacia dell’annuncio evangelico.

2.​​ L’inizio del suo apostolato coincide con il grande movimento di riorganizzazione della C. in Italia, sotto l’impulso dato dalla diffusione del catechismo di Pio X. In seguito, nel periodo che corrisponde ai pontificati di Pio XI e di Pio XII, l’A. vive intensamente lo sforzo di organizzazione universale e capillare, di rinnovamento metodologico e di approfondimento contenutistico della C. che hanno i loro riferimenti essenziali in alcuni documenti pontifici di grande rilievo storico:​​ Provido​​ sane​​ (1935),​​ Divino afflante Spiritu​​ (1943),​​ Mastici corporis​​ (1943),​​ Mediator Dei​​ (1947). Sono gli anni dell’istituzione dell’UCN e degli UCD, dell’introduzione dei metodi attivi e del globalismo, della riscoperta della Bibbia e della liturgia, e della dimensione ecclesiale e cristologica della C. L’A. si inserisce in questo vasto movimento con alcune iniziative originali ed efficaci: a) consolidamento ed espansione mondiale delle sue istituzioni religiose dedicate all’evangelizzazione; b) l’attività editoriale al servizio della C., nei tre settori biblico-teologico, pastorale-cat.-liturgico, religiosità popolare; c) la pubblicazione di periodici vari: bollettini parrocchiali (ad es. “La domenica”, 1921), riviste per fanciulli e giovani (“Il giornalino” e “L’Aspirante”, 1924), settimanali e quindicinali per un vasto pubblico (“La domenica illustrata”, “Famiglia cristiana”, 1932; «Dottrina e fatti», 1922), ecc.; d) l’uso dei mezzi moderni di comunicazione di massa (S. Paolo Film, 1938; stazioni radio, 1952, ecc.); e) il → Centro Cat. Paolino (1952) con relativa riv. “Via Verità e Vita” (1952).

In questa fase e anche durante l’ultimo periodo della sua vita, l’A. pur non avendo più il tempo materiale per seguire da vicino lo sviluppo del pensiero cat. e la vasta produzione in continua espansione, riesce ad offrire ancora interessanti contributi dottrinali, sparsi in molteplici opere di carattere autobiografico. Muore a Roma il 26 nov. 1971.

3.​​ L’A. è essenzialmente uomo di azione apostolica, un suscitatore e animatore di iniziative finalizzate all’evangelizzazione dell’uomo contemporaneo, un profeta del nostro tempo, dotato di generosità e intuito; sarebbe però poco realistico parlare di un suo progetto cat. originale e fondato su basi teoretiche. In ogni caso egli appare saldamente ancorato alla teologia del suo tempo (e molto meno alle moderne scienze dell’uomo), fortemente connotato dall’intuizione del valore rivoluzionario dei mezzi della comunicazione sociale e poco preoccupato di raggiungere organicità e completezza di contenuti. Il suo “progetto di evangelizzazione” segue pertanto una sequenza logica abbastanza lineare. Esso parte dall’intuizione del carattere totalizzante e innovatore del → messaggio cristiano; si arricchisce dell’istanza universalistica che è specifica dell’apostolo Paolo, tramutandosi in un’ansia di annuncio illimitato nel tempo e nello spazio; si specifica nell’attenzione all’attualità, cioè all’ascolto dell’uomo contemporaneo e delle sue reali condizioni di vita.

La formula sintetica: “Tutto il messaggio a tutto l’uomo, per tutti gli uomini, con tutti i mezzi possibili” esprime molto bene lo spirito di questo progetto.

Bibbia e liturgia rappresentano i poli essenziali del messaggio cat. L’A. è stato uno dei grandi precursori della riscoperta della centralità della Bibbia nella vita cristiana.

La metodologia cat. è sintetizzata in A. nel trinomio Via-Verità-Vita, che rappresenta però anche un tentativo di sistemazione dei contenuti del Messaggio (dottrina-morale-culto).

4.​​ Particolarmente significativo rimane il contributo dell’A. all’azione cat. mediante l’apporto dei moderni mezzi di comunicazione sociale di massa per l’annuncio del Vangelo. L’annuncio cristiano attraverso i mass-media è per l’A. il banco di prova della capacità della Chiesa di confrontarsi con la sfida della realtà con temporanea. Da questa impostazione originale della C. l’A. trae motivo per una spiritualità nuova, che deve permeare la formazione e l’azione di chi si dedica all’opera di redazione, produzione e diffusione dei mezzi di comunicazione di massa al servizio del Vangelo.

Bibliografia

1.​​ Fonti

Opere fondamentali di A.:​​ Abundantes​​ divitiae gratiae suae. Opera omnia,​​ vol. 1, Roma, Ed. Paoline, 1971;​​ Apostolato stampa,​​ Alba, P. Soc. S. Paolo, 1933;​​ Appunti di teologia pastorale,​​ Torino, Marietti, 1915.

2.​​ Bibliografia

Atti del convegno cat. paolino,​​ Ariccia 1960, Roma, Figlie di S. Paolo, 1960, 51-61; A. Damino,​​ Bibliografia di Giacomo Alberione,​​ Roma, Archivio Storico Generale della Famiglia Paolina, 1979.

3.​​ Studi

A.​​ Da Silva,​​ Il cammino degli esercizi spirituali nel pensiero di Don Alberione,​​ Ariccia, Centro di spiritualità paolina, 1981; R. Esposito,​​ Da teologia della pubblicistica secondo l'insegnamento di G. Alberione,​​ Roma, Ed. Paoline, 1972; L. Rolfo,​​ Don Alberione, appunti per una biografia,​​ Alba, Ed. Paoline, 1974.

Virginia Odorizzi

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ALBERIONE Giacomo

ALCOLISMO

 

ALCOLISMO

L’a., detto anche etilismo, è descritto come una condizione di dipendenza dall’assunzione di bevande contenenti alcol. Può essere definito​​ cronico​​ o​​ acuto.​​ Il primo esprime lo stato patologico di chi da tempo ormai assume dosi eccessive di alcol, mentre il secondo fa riferimento alla semplice ubriachezza vissuta in modo episodico. Elementi da tenere in considerazione per una corretta definizione sono soprattutto due: il grado di dipendenza e la gravità dei danni organici e non prodotti dall’alcol. Per quanto riguarda i disturbi psichici o di comportamento in un alcolista cronico si possono evidenziare la bassa tolleranza delle frustrazioni e dell’​​ ​​ ansia, la mancanza di responsabilità, la labilità emotiva unite ad alterazione del tono e dell’umore con impulsività e irritabilità, disturbi della memoria, diminuzione dell’intelligenza.

1. Le teorie sull’a. sono numerose e tengono conto dei vari «ambienti» in cui si muove la persona umana mettendo in primo piano o l’ambiente biologico, o quello socioculturale o quello psicogenetico; a)​​ teorie biologiche​​ che fanno riferimento a un fattore ereditario descritto come responsabile non tanto dell’a., quanto dello strutturarsi di una personalità fragile e incapace a resistere alla sollecitazione di assumere alcol. Ultimamente si è più propensi a parlare non tanto di genesi ereditaria, quanto di predisposizione determinata da un condizionamento familiare; b)​​ fattori socio-ambientali​​ la cui importanza è dimostrabile dal fatto che l’assunzione di alcol viene incoraggiata da alcuni gruppi sociali o viene addirittura ritenuta indispensabile per determinate professioni o sollecitata come segno di «virilità». Interessanti anche gli studi sulle società dei nomadi, sul rapporto metropoli / immigrazione e quelli condotti nell’area della emarginazione. Diversi autori inseriscono soprattutto in questo contesto l’aumentata percentuale di giovani che consuma sostanze alcoliche; c)​​ teorie psicologiche e psicodinamiche:​​ la psicodinamica classica interpreta l’a. come una regressione allo stadio orale in cui si è fissata l’organizzazione istintuale.​​ ​​ Freud ha trattato questo problema in margine a quello della paranoia (caso Schreber). A livello più generale diversi autori hanno messo in relazione l’a. con alcuni tratti di personalità, anche se non si è mai chiaramente dimostrato se i tratti descritti (ad es. stati di tensione, sentimenti di insicurezza, incapacità di affermazione personale, bisogno di gratificazione...) siano antecedenti o successivi all’abuso alcolico.

2. L’eterogeneità del disturbo porta diversi autori contemporanei a parlare non di a. ma di «alcolismi». Ciò mette in evidenza il fatto che la dipendenza da alcol avviene in una persona. «Un individuo può sviluppare a. come punto d’arrivo di una complessa interazione di carenze strutturali, predisposizione genetica, influenze familiari, contributi culturali, e altre diverse variabili ambientali. Una completa valutazione psicodinamica del paziente considererà l’a. e tutti i fattori che vi contribuiscono nel contesto dell’intera persona» (Gabbard, 1995, 341). Da questo punto di vista anche il​​ ​​ recupero viene inteso come la messa a disposizione del soggetto di una molteplicità di tecniche e di interventi, a volte utilizzati su vari fronti, in modo da tener conto della personalità del singolo e della sua disponibilità a mettersi in gioco per migliorare.

Bibliografia

Furlan P. M. - R. L. Ricci,​​ Alcol,​​ alcolici,​​ a.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1990; Gabbard G. O.,​​ Psichiatria psicodinamica,​​ Milano, Raffaello Cortina, 1995; Sanfilippo B. - G. L. Galimberti - A. Lucchini (Edd.),​​ Alcol,​​ alcolismi: cosa cambia?, Milano, Angeli, 2004; Trevisani F. - F. Caputo (Edd.),​​ A., Bologna, CLUEB, 2005; Memmi A.,​​ Il bevitore e l’innamorato. Il prezzo della dipendenza,​​ Roma, Edizioni Lavoro, 2006.

L. Ferraroli

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ALCOLISMO

ALESSANDRIA – Scuola di

 

ALESSANDRIA (Scuola di)

Sulla traccia di alcuni dati forniti da Eusebio (Star, eccl.,​​ 5,10,1.4; 6,6) e da Filippo di Side (PG 39,329) consideriamo la Scuola​​ (Didaskaleion)​​ di Alessandria come un centro di studi superiori di esegesi e di teologia cristiana, patrocinato e in qualche modo controllato dal vescovo locale; ma la mancanza di documentazione non permette di arricchire di dettagli questa presentazione schematica e fors’anche un po’ anacronistica. Piuttosto che pensare ad una regolare successione, al vertice della scuola, di Panteno, → Clemente, → Origene, è preferibile considerare quelli di Panteno e Clemente come due insegnamenti privati di cultura cristiana, mentre la Scuola vera e propria sarebbe sorta nel momento in cui Origene, intorno al 220, divise il suo insegnamento di C. in due livelli, affidando a Eracla l’insegnamento elementare e riservando a sé quello superiore, frequentato anche da qualche uditore pagano. Dopo la sua condanna ad Alessandria (233 ca.) Origene trasferì la sua scuola a Cesarea di Palestina, che così divenne centro di irradiazione di cultura alessandrina in ambiente siropalestinese, mentre ad Alessandria lo sostituivano prima Eracla e poi Dionigi.

L’ambiente cristiano di Alessandria, alla metà del II secolo, era dominato culturalmente dagli gnostici. Costoro, presentando il loro insegnamento come una sorta di rivelazione di livello superiore rispetto all’istruzione elementare che veniva impartita ad ogni cristiano, si assegnavano il ruolo di​​ élite​​ culturale della società cristiana, e per questo facilmente attiravano a sé i cristiani d’alta condizione sociale, intellettualmente più esigenti. L’iniziativa culturale di Clemente e di Origene mirò proprio a spezzare questo monopolio culturale, mercé un approfondimento del dato elementare di fede tale da soddisfare l’ambizione intellettuale dei cristiani che gravitavano nell’area gnostica. Questo approfondimento fu conseguito mediante lo studio sistematico della Sacra Scrittura interpretata alla luce di procedimenti ermeneutici e moduli filosofici in uso presso le scuole filosofiche greche. Tale iniziativa certamente attirava sui promotori il sospetto e il malcontento dei cristiani più diffidenti nei confronti dell’influsso, considerato pervertitore, della cultura greca, ma consentiva una effettiva apertura d’ordine esegetico-teologico-culturale in genere, che nel giro di alcuni decenni valse non solo a svuotare di contenuto la pretesa gnostica di superiorità intellettuale, ma anche a presentare il messaggio cristiano in veste adatta per interessare pure i ceti colti della società pagana di Alessandria.

La condanna che a Origene fu inflitta ad Alessandria non sembra che abbia nuociuto all’indirizzo culturale della scuola, di larga apertura al mondo greco e di grande libertà di discussione e interpretazione. Se infatti il passaggio di alcuni scolarchi all’episcopato​​ (Erada,​​ Dionigi, Achilia, Pietro) sta a significare lo stretto rapporto intercorrente fra scuola e gerarchia, la presenza a capo della scuola di personaggi che sappiamo legatissimi culturalmente a Origene, come Teognosto e Pierio (ultimi decenni del III secolo), ci assicura che la linea culturale da questo imposta fu sostanzialmente continuata. Col IV secolo il prestigio della scuola sembra decadere: lo scolarca Macario è per noi soltanto un nome. Gli successe, a quanto sembra, Didimo (seconda metà del IV secolo) e con lui l’insegnamento della scuola riacquistò parte dell’antico splendore. Ma fu una rinascita effimera. La violenza dei contrasti dottrinali e l’acuirsi della controversia origeniana non potevano non nuocere radicalmente a quella libertà di discussione che aveva rappresentato il carattere distintivo della scuola, a beneficio di imposizioni sempre più autoritarie anche nel campo della cultura. In effetti Rodone, ch’era succeduto alla fine del IV secolo a Didimo, è figura del tutto evanescente, e dopo di lui nulla più si sa di certo sulla scuola. Nata dall’incontro fra messaggio cristiano e cultura greca, essa non poteva sopravvivere nel clima di chiusura culturale che caratterizzò con Teofilo e Cirillo l’ambiente alessandrino.

Bibliografia

G.​​ Bardy,​​ Aux origines​​ de​​ l’École d’Alexandrie,​​ in “Recherches​​ de​​ science religieuse” 27 (1937) 65-90; W. Bossuet,​​ Jüdisch-christlicher​​ Schulhetrieb in Alexandria und Rom,​​ Göttingen 1915;​​ P.​​ Brezzi,​​ La gnosi cristiana di Alessandria e le antiche' scuole cristiane,​​ Roma 1950; A.​​ Mehat,​​ Étude​​ sur​​ les​​ Stromates de​​ Clément​​ d’Alexandrie,​​ Paris 1966, 62-70.

Mario Simonetti

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ALESSANDRIA – Scuola di

ALFABETIZZAZIONE

 

ALFABETIZZAZIONE

In genere il termine si contrappone ad analfabetismo, versione negativa in quanto assenza di a.; può assumere valore​​ strumentale,​​ spirituale,​​ funzionale.​​ Nel primo caso ci si riferisce all’insegnamento della lettura e della scrittura in contesto scolastico ed extrascolastico; nel secondo ci si rapporta alla crescita matura del soggetto sotto il profilo politico e civile, nonché alla sua partecipazione sociale professionalmente qualificata; nel terzo ci si richiama alla funzionalità dell’​​ ​​ apprendimento rispetto a fini occupazionali e socioeconomici. Questi tre aspetti possono essere più o meno e con diversa intensità, compresenti. Ad es. può darsi una sorta di a. spirituale nei casi di trasmissione di culture fondate sulla tradizione orale.

1.​​ Ambiti di applicazione.​​ Va distinta l’a. spontanea e indotta, nel caso dell’apprendimento di lettura e scrittura come conquista prescolastica e scolastica dei bambini, dall’a. differenziata a seconda del​​ ​​ linguaggio, verbale-non verbale, preso in esame. Inoltre si distingue l’a. dell’infanzia, comunemente messa in atto dalla​​ ​​ scuola e dalla famiglia, dall’a. degli adulti. Quest’ultima nasce come idea di educatori che in vari Paesi hanno promosso progetti intesi a fornire a chi è fuori del circuito scolastico la strumentazione di base per una migliore partecipazione sociale. In questo senso vanno ricordate tutte quelle iniziative di istruzione popolare che da Grundtvig in Danimarca, a Condorcet in Francia, a Cena in Italia caratterizzano una parte della storia europea dell’educazione dalla fine dell’800 ai primi decenni del ’900. Dopo la seconda guerra mondiale l’a. viene letta da più parti in senso motivazionale: apprendere per scopi precisi e per mete concrete. Nei Paesi socialisti l’a. è strettamente connessa alla concezione politecnica e alla congiunzione del lavoro intellettuale con quello manuale: si alfabetizza trasmettendo un sapere operativo da spendere a vantaggio della collettività. Altro esempio originale è quello dell’India dalla spiritualità multiforme, che​​ ​​ Gandhi ha fatto conoscere al mondo intero non più solo sotto l’aspetto della povertà e dell’analfabetismo, ma della nazione intenta ad uscire dalle strettoie della istruzione occidentale elitaria per cercare mezzi di a. di massa all’interno della propria tradizione spirituale. A livello internazionale l’Unesco si occupa della questione in modo costante e registra annualmente le statistiche che evidenziano l’andamento del fenomeno. Il tasso di scolarizzazione è uno degli indicatori dell’a. con punte minime nei Paesi emergenti (​​ Asia,​​ ​​ America Latina,​​ ​​ Africa) e punte massime nei Paesi industrialmente più avanzati. Nel 1961 l’Unesco lancia la campagna mondiale di a. intesa a favorire l’autosviluppo e l’auto-emancipazione dei Paesi più poveri attraverso la cooperazione economica internazionale. L’ipotesi del «Programma sperimentale mondiale di a.» (PEMA) attivato dall’Unesco in 20 Paesi tra il 1967 e il 1973 è che solo entro un quadro socio-economico favorevole ed organizzato è possibile promuovere un percorso formativo basato su obiettivi di crescita e tale da procurare agli individui interessati i mezzi intellettuali e tecnici capaci di farne attori efficienti nell’intero processo di sviluppo.

2.​​ Esperienze significative.​​ Famose sono le iniziative di coscientizzazione degli «oppressi» promosse negli stessi anni da​​ ​​ Freire in America Latina (​​ educazione liberatrice): vere e proprie testimonianze di servizio e di elevazione culturale di persone per generazioni tenute lontane dall’istruzione. Negli anni ’40 sorgono in Italia diversi movimenti di ispirazione democratica che operano, soprattutto nel Sud, per l’a. della popolazione rurale. La legge istitutiva della «scuola popolare» è del 1947 e per circa trent’anni si moltiplicano, differenziatamente su tutto il territorio, centri di lettura e corsi di richiamo scolastico, iniziative di bibliobus e di telescuola, attività di formazione professionale gestite da enti vari. In seguito al decentramento amministrativo (L. n. 382 / 75) viene data la possibilità alle Regioni (DPR n. 616 / 77) di dare inizio ai corsi della durata di «150 ore» frequentati con eventuale congedo pagato, al fine di favorire il conseguimento, nelle sedi appropriate, del titolo di scuola media a chi lavora, alle casalinghe, alle collaboratrici domestiche, a tutti coloro i quali sono sprovvisti di tale certificato che permette di fatto un migliore inserimento occupazionale ed eventualmente la mobilità sociale. In diversi Stati del mondo non sembra più sufficiente far coincidere l’a. minima dell’infanzia e dell’adolescenza con la generalizzazione dell’istruzione primaria e secondaria di primo ciclo, in quanto crescono le aspettative delle famiglie, dei figli, della società internazionale rispetto a livelli di formazione che spostano più avanti negli anni il termine dell’​​ ​​ obbligo scolastico. Per l’Italia l’elevamento appena introdotto è fino ai 16 anni. In termini scolastici istituzionali l’a. comincia con l’educazione preprimaria e termina con la fine o l’interruzione della frequenza scolastica; in termini sostanziali essa inizia con la gestazione, considerando l’influenza feto-madre, e termina forse con la morte. Alla scuola e alle diverse sedi formative anche extrascolastiche spetta indubbiamente il compito di costruirsi come ambienti nei quali il soggetto sperimenta metodi didattici funzionali alla maturazione al pensiero critico.

3.​​ Estensione contenutistica.​​ Concettualmente l’a. significa molto di più della acquisizione delle capacità di leggere e scrivere poiché riguarda la padronanza di più modelli di comprensione, l’elaborazione di conoscenze diverse, la flessibilità e la coerenza dei collegamenti tra molteplici contenuti e forme culturali. La storia dell’a. dimostra che progressivamente ci si muove in modo da comprendere temi via via più vasti e variegati non esauribili nell’apprendimento di automatismi tradizionali e di tecnicità, sempre più sofisticate, si pensi ad es. agli sviluppi dell’informatica, bensì necessariamente comprendenti questioni correlate come quelle dell’arricchimento culturale, dell’uguaglianza delle opportunità educative, della dispersione scolastica, dell’educazione delle minoranze etniche, della formazione permanente, del diritto allo studio, dell’acquisizione di nuove professionalità e dell’​​ ​​ istruzione a distanza. La locuzione «competenze alfabetiche» delle indagini internazionali stabilisce categorie e livelli del sapere e del saper fare. La Dichiarazione di Lisbona dell’UE (2000) annovera nella strategia politico-sociale per il 2010 l’intensificazione della lotta contro l’analfabetismo.

Bibliografia

Mencarelli M.,​​ Scuola in prospettiva. Insegnare ad apprendere,​​ Brescia, La Scuola, 1973; Potts J.,​​ Insegnare a leggere,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1981; Fiorini F. - L. Pagnoncelli,​​ Quale alfabetismo?,​​ Torino, Loescher, 1988; Cives G. (Ed.),​​ La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Gallina V. (Ed.),​​ La competenza alfabetica in Italia: una ricerca sulla cultura della popolazione, Milano, Angeli, 2000; Nardi E.,​​ Come leggono i quindicenni. Riflessioni sulla ricerca OCSE-PISA, Ibid., 2002; Chistolini S., «Competenze alfabetiche», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 343-359.

S. Chistolini

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ALFABETIZZAZIONE

ALFONSO MARIA DE LIGUORI

S. ALFONSO MARIA DE LIGUORI

(1696-1787)

 

Agostino Favale

1. La maturazione della vocazione al sacerdozio

2. Le cappelle serotine

3. La missione popolare

4. La fondazione della congregazione sul SS.mo Redentore

5. L’attività letteraria

 

Nel secolo in cui numerosi intellettuali, appellandosi ai lumi della ragione e al progresso delle scienze naturali, cercavano di screditare il cristianesimo come religione rivelata, Alfonso Maria de Liguori con una prodigiosa attività pastorale spese le sue migliori energie a difendere il valore dell’interiorità della fede e della preghiera e a dimostrare ciò che lo spirito umano può compiere, quando si ispira a Dio. Egli, nobile per i natali e aristocratico per cultura, si fece povero per annunciare con il linguaggio del «cuore» la Buona Novella del Regno specialmente agli umili, ai semplici e ai deseredati.

1. La maturazione della vocazione al sacerdozio

Liguori nacque a Marinella, presso Napoli, il 27 settembre 1696, e morì a Pagani, presso Salerno, il 1° ottobre 1787. Fu canonizzato da Gregorio XVI nel 1839, proclamato dottore della Chiesa da Pio IX nel 1871 e dichiarato patrono dei confessori e dei moralisti da Pio XII nel 1950.

Primogenito di otto figli, Alfonso venne educato nell’ambiente patrizio della famiglia dalla mite mamma Anna Cavalieri (†l755) e dall’autoritario babbo Giuseppe (†1745), capitano comandante delle galee napoletane, con la collaborazione di scelti maestri. Per espresso volere del padre, egli, oltre le discipline umanistiche, scientifiche, e giuridiche, dovette studiare disegno, pittura, architettura, poesia e musica. Giovane superdotato, Liguori conseguì appena sedicenne la laurea in​​ utroque iure​​ con dispensa sull’età di vent’anni richiesta per il riconoscimento del titolo da parte della Facoltà di diritto dell’università di

Napoli. Nell’esercizio dell’avvocatura egli si rivelò subito un buon conoscitore del diritto e un oratore brillante. Nel mese di luglio del 1723, Liguori difese con calore e abilità Filippo Orsini, duca di Gravina, contro il granduca di Toscana, Cosimo III de’ Medici in una lite sul feudo di Amatrice, in Abruzzo.

Il corso del dibattito, condizionato da interferenze politiche esterne, si concluse con una sentenza sfavorevole all’Orsini. Disgustato per l’insuccesso e per il modo con cui si era svolta la causa, Liguori decise contro la volontà del padre di abbandonare per sempre la vita forense e di farsi prete.

La sconfitta subita in tribunale è insufficiente a spiegare questa sua decisione. Vissuto in una famiglia molto religiosa, Liguori aveva appreso a coltivare un amore tenero all’Eucaristia e una devozione filiale alla Vergine. Fin da bambino aveva frequentato l’Oratorio dei Filippini ed era entrato nel 1706 nella «congregazione» dei giovani nobili, e nel 1715 in quella dei Dottori, dirette ambedue dai preti dell’Oratorio, dove ebbe a maestro di spirito lo zio materno, padre Tommaso Pagano; aveva fatto più volte gli esercizi spirituali e aveva capito l’importanza della preghiera nella vita del cristiano; e, infine, aveva maturato il proposito, trasformato forse in voto, di vivere celibe. In questa sua esperienza di vita spirituale va ricercata la motivazione ultima che lo spinse ad abbracciare il sacerdozio.

Varcate le porte del seminario nel 1723, Liguori, mentre espletava nel giro di tre anni gli studi teologici sotto la guida del dotto canonico Giulio Torni, lesse anche gli scritti di Santa Teresa d’Avila e di San Francesco di Sales, si addestrò nella catechesi ai fanciulli, nella predicazione a contatto con i membri delle Apostoliche Missioni e nell’assistenza dei condannati a morte con i Bianchi della Giustizia. Dopo l’ordinazione presbiterale, avvenuta nel 1726, egli rinunciò al maggiorascato e intraprese la sua instancabile opera a favore dell’evangelizzazione dei poveri.

A questo punto la storia del Liguori si confonde con la sua molteplice attività pastorale, che si esplica nella predicazione, nella fondazione della Congregazione del SS.mo Redentore e negli scritti.

 

2.​​ Le cappelle serotine

Appena ordinato egli si lanciò sulle strade dell’apostolato, cominciando da Napoli con la gente di bassa condizione sociale. I poveri, gli artigiani, i venditori ambulanti, gli operai e i ragazzi emarginati, che venivano dai sobborghi più depressi della città, trovarono in lui un amico e consigliere. Liguori si rese conto che queste categorie di persone, invise alla nobiltà, all’alto clero e alla borghesia in ascesa, costituivano un terreno fertile per l’evangelizzazione. Vedendo che le chiese funzionavano in orari inadatti al popolo, scelse le piazze come luoghi di incontro per adunanze religiose, dove all’aperto, di sera, si pregava, si cantava, si predicava, si amministrava il sacramento del perdono e si impartivano lezioni di buona educazione e di vita cristiana tra lo stupore e il timore della Napoli benestante. Sorsero così le​​ Cappelle sentine,​​ le quali nulla avevano in comune con le Confraternite o i Circoli di persone dedite alla carità o ad opere di bene, né possedevano una loro organizzazione, né avevano problemi di natura ideologica, ma si preoccupavano soltanto di portare la gente, per lo più rozza e ignorante, alla conversione del cuore. Liguori, appoggiato da preti della Congregazione dei Cinesi, fondata nel 1724 da Matteo Ripa, e assistito da laici volenterosi, seppe infondere nei suoi uditori il gusto della preghiera e del canto, il senso della vita cristiana e la coscienza della solidarietà sociale. E lo fece non condannando né minacciando, ma con un linguaggio semplice e persuasivo. Nel comportamento, Liguori restò sempre un gentiluomo, attento a non creare distanze tra lui e gli interlocutori e a farsi capire. Mise al servizio di quanti lo avvicinarono la sua scienza teologica e la sua pienezza di umanità, riuscendo a instillare nei peccatori una grande fiducia nella misericordia di Dio e nel suo perdono. Il successo delle​​ Cappelle sentine​​ fu grande. Esse divennero scuole di rieducazione civile, di maturazione cristiana e di impegno sociale. Molti dei partecipanti alle adunanze riscoprirono la gioia di essere e di vivere come persone, capaci di amarsi, comprendersi e aiutarsi.

Ci si può chiedere come mai l’apostolato, che Liguori stava svolgendo a favore delle classi popolari, abbia potuto impensierire l’autorità civile e quella ecclesiastica! Resta il fatto che nel mese di settembre del 1728 la polizia napoletana, probabilmente per motivi di ordine pubblico e per ragioni di carattere sanitario, eseguì il mandato di scioglimento del gruppo dei seguaci del Liguori, e il cardinale Francesco Pignatelli gli proibì di continuare a radunarli in piazza.

 

3.​​ La missione popolare

Questa proibizione segnò l’inizio di una nuova fioritura di bene. Infatti Liguori, accompagnato da alcuni collaboratori, estese il suo apostolato della parola in varie parti del regno di Napoli, sia fra l’umile e povera gente di campagna sia nelle città più popolose, dove si viveva una religiosità e un devozionismo esteriore non privo di magia e pratiche superstiziose, anche a causa di una certa ignoranza e incuria del clero. La sua predicazione assunse la tipica forma della​​ Missione popolare.​​ Edotto da precedenti iniziative come fratello della Congregazione delle Apostoliche Missioni e come ammiratore dei Pii Operai, a partire dal 1732 fin verso il 1745 egli si unì ad altri preti e lavorò in questa forma di apostolato con zelo e coraggio, spinto dal desiderio di applicare i frutti della Redenzione agli uomini. Liguori non inventò le missioni popolari, ma diede loro un nuovo impulso e una fisionomia propria di tipo «eclettico». La loro durata variava tra i dodici e i quindici giorni.

Secondo il pensiero alfonsiano arricchito dal contributo dei suoi figli spirituali, la finalità della Missione era quella di lottare contro il peccato, convertire i peccatori e aiutarli a vivere nell’amicizia di Dio. Il valore della missione nella vita cristiana venne espresso in questi termini dal Liguori nelle Costituzioni dei Redentoristi del 1764: «Le S. Missioni altro non sono che una continuata redenzione che il Figlio di Dio sta tutto il giorno facendo per mezzo de’ suoi ministri. Elle sostengono la Chiesa e la mantengono nel suo fervore, fortificano i deboli, confermano i forti, rialzano i caduti: per esse si scuotono gli errori, si dilegua l’inganno, e bisogna dire che è uno dei mezzi più principali e potenti, se non vogliamo dire l’unico, per conservare la fede e mantenerla stabile sulla pietra che è Cristo». Gli elementi costitutivi della Missione erano: la preghiera di petizione e di ringraziamento, la recita del Rosario, la penitenza personale e comunitaria, l’istruzione religiosa, la predica e la recezione dei sacramenti.

Preoccupato che la Missione non si riducesse a un fuoco di paglia, Liguori non si limitava a raccomandare la preghiera e la penitenza, ma cercava di dare molta importanza all’istruzione religiosa o catechesi quotidiana riguardante i misteri della fede, i sacramenti, i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa. Insisteva perché vi fosse un’istruzione riservata ai ragazzi e un’altra agli adulti. Raccomandava ai missionari di essere comprensivi verso i ragazzi, ma non a tal punto da permettere che la loro esuberanza fosse di pregiudizio all’approfondimento dell’insegnamento religioso proposto, che doveva servire a illuminare le loro menti e a orientare la loro condotta morale.

La predica aveva due forme. Vi era quella del mattino detta più propriamente meditazione su l’una o l’altra verità di fede, che mirava a creare forti convinzioni cristiane da testimoniare nella vita. Alla sera vi era la predica «grande», che costituiva l’atto più significativo di tutta la predicazione alfonsiana. Il contenuto di questa predica verteva in genere sul peccato mortale, sulla confessione sacrilega e sui novissimi e si prefiggeva di inculcare negli uditori la detestazione del peccato, concepita dopo aver eccitato il dolore e il proposito di evitare ogni offesa volontaria a Dio e di fare il bene. Nella predica «grande» gli affetti avevano il sopravvento sugli stessi concetti, perché era in gioco la mozione dei sentimenti e Lintenerimento dei cuori dei presenti per far loro vivere e gustare la gioia della riconciliazione con Dio.

La strategia della Missione tendeva prossimamente a preparare gli uditori alla recezione fruttuosa dei sacramenti della confessione e della comunione. In ogni Missione si facevano quattro comunioni generali, incominciando da quella dei ragazzi per poi continuare con quella delle giovani, delle vedove e spose e, infine, con quella degli uomini. Negli ultimi giorni della Missione, dopo le comunioni generali, vi era una predicazione speciale sulla «vita divota» — importanza della preghiera, devozione alla Vergine, frequenza dei sacramenti, pratica delle virtù —, destinata ad assicurare il frutto della Missione stessa e a consolidare negli uditori i vincoli dell’amore filiale a Dio e la volontà di vivere una fervorosa vita cristiana.

Un breve cenno va pure fatto agli esercizi spirituali nella Missione alfonsiana. Si trattava per lo più di prediche e istruzioni date a determinate categorie di persone — preti, chierici, monache, artigiani, carcerati —, che per un motivo o l’altro non potevano seguire la Missione nella chiesa parrocchiale. Ad esse si offriva la possibilità di radunarsi per categoria in un luogo stabilito, dove si intrattenevano solo il tempo necessario per ascoltare il missionario.

È noto che in Italia l’oratoria sacra del secolo XVIII era appesantita da uno stile ricercato e artificioso, in cui l’esposizione delle verità rivelate era intramezzata da storie profane, favole mitologiche e massime di filosofi pagani. Liguori invece usava e raccomandava ai suoi missionari di usare un linguaggio tale che ogni uditore, qualunque fosse stato il suo grado di cultura, potesse facilmente comprenderlo. Fra i documenti del Capitolo Generale dei Redentoristi del 1747 si trova la «Costituzione circa la semplicità e modo di predicare». In essa si affermava: «Le parole vane, i periodi sonanti, le descrizioni inutili (...) sono la peste della predica, il cui unico intento deve essere di muovere al bene la volontà degli uditori e non già a pascer inutilmente gli intelletti».

Convinto tuttavia che «muove più quel che si vede che quel che si sente», Liguori non disdegnava di inserire nella predica «grande» una certa «coreografia» — flagellazione del predicatore, presentazione al pubblico di immagini strazianti dell’«Ecce Homo», di crocifissi, di statue della Madonna o di teschi, funzione delle torce — per indurre i più renitenti a cambiare vita. È l’aspetto discutibile della Missione alfonsiana, che va inteso nel quadro del suo tempo.

Uno dei momenti più commoventi della Missione era la «pacificazione» delle famiglie che, per incomprensioni o litigi a sfondo sociale, avevano rotto i loro rapporti. Il «prefetto della pace», che faceva parte del gruppo dei missionari, doveva informarsi con cautela dello stato di litigiosità dei contendenti, esplorare le vie per arrivare a un incontro e stabilire il tempo della «pacificazione», che consisteva nel deporre ogni arma in chiesa e nel perdonarsi reciprocamente.

Tra il 1749 e il 1775, Liguori si dedicò soprattutto all’apostolato della penna. Intanto, nel 1762, Clemente XIII, nonostante le resistenze dell’interessato, gli impose l’accettazione della guida della diocesi di Sant’Agata dei Goti, dove egli continuò a profondere l’ardore del suo zelo pastorale. Provvide alla riforma del seminario e alla formazione dei seminaristi; estese le sue premure al rinnovamento culturale e spirituale del clero; promosse la vita cristiana del popolo con l’assidua predicazione e Tamministrazione dei sacramenti, istituendo in ogni parrocchia una specie di Missione permanente; e, per ultimo, trasformò l’episcopato in un centro di assistenza caritativa nella carestia del 1764, combattendo la piaga del mercato nero. Pensò anche a elevare il basso tenore di vita dei diocesani, sollecitandoli a coltivare la piantagione dei gelsi per l’allevamento dei bachi da seta. Nel contempo continuò, come rettore maggiore perpetuo, a difendere la Congregazione dei Redentoristi dalle minacce di soppressione.

Costretto dalla malferma salute, nel 1775 Liguori rinunciò alla diocesi e si ritirò tra i suoi religiosi nel collegio di Nocera dei Pagani, dove trascorse gli ultimi anni tra durissime prove fisiche e psichiche, dimostrando così l’eroismo delle sue virtù.

 

4.​​ La fondazione della congregazione del ss.mo redentore

Fin dai primi inizi della sua Missione nelle campagne napoletane, Liguori aveva constatato il disagio morale, in cui versavano quelle popolazioni a causa dell’impreparazione di un clero numeroso, poco sensibile a organizzare una evangelizzazione capillare. Da una di queste sue missioni, data a un gruppo di caprai sulle colline di Santa Maria ai Monti, presso Scala, nacque l’idea di creare una Congregazione religiosa, che si dedicasse all’evangelizzazione dei poveri. Mentre predicava in un monastero di clausura di Scala, una suora, Maria Celeste Crostarosa, gli rivelò di aver visto «in spirito (...) una nuova Congregazione di preti tutta sollecita di aiutare milioni di anime; e (...) tra questi Alfonso che presiedeva tutti». Dopo incertezze e dubbi, dietro consiglio del suo amico e confidente Tommaso Falcoia, vescovo di Castellammare di Stabia, il 9 novembre 1732 Liguori fondò la Congregazione del SS.mo Salvatore, formata da preti e fratelli laici con voti semplici.

La nuova Congregazione, sorta in un’epoca di esasperato regalismo e giurisdizionalismo ostili al riconoscimento di nuovi Istituti religiosi, ebbe vita difficile, Con pazienza e abilità, il fondatore riuscì a cattivarsi la benevolenza del re Carlo III e a diffonderla nel regno di Napoli e nel vicino Stato della Chiesa. Benedetto XIV, approvandone la regola, le impose il nome di Congregazione del SS.mo Redentore. A causa dell’anticlericalismo aggressivo di Bernardo Tanucci, primo ministro di Ferdinando IV, re di Napoli, Liguori dovette difendere la sua Congregazione dalle contestazioni e minacce della Reai Giurisdizione e dai sospetti e ostilità che gli venivano da Roma.

Per il Liguori lo scopo precipuo della Congregazione dei Redentoristi doveva essere quello della santificazione dei suoi membri attraverso l’imitazione di Cristo Salvatore e la dedizione all’evangelizzazione e salvezza degli altri, specialmente dei più poveri e sprovvisti di «soccorsi spirituali», con le missioni popolari, gli esercizi spirituali e altre forme di apostolato, compreso quello della penna.

 

5.​​ L’attività letteraria

Anche l’attività letteraria del Liguori ebbe un’impronta fondamentalmente pastorale. In effetti, questa attività prese le mosse dal suo apostolato missionario, di cui analizzò le varie situazioni, compendiandone il risultato in 111 scritti di contenuto dogmatico-apologetico, morale, predicabile e ascetico. Senza dubbio, il Liguori scrisse avendo di mira la salvezza degli uomini. Egli fu più un professionista della pastorale che un professionista della teologia

Il suo pensiero dogmatico esulava dalle questioni astratte. Alla luce della Rivelazione e della Tradizione, esponeva il contenuto essenziale delle verità della fede per poi trarne le regole per una retta condotta cristiana. Affrontando, ad esempio, lo spinoso problema della predestinazione e della grazia, Liguori, in polemica con Giansenio, ammetteva che la dottrina della redenzione universale implicava l’esistenza di una grazia sufficiente ugualmente universale, valida per la posizione di alcuni atti, che egli chiamava incoativi, ossia preliminari per ottenere la grazia efficace. Liguori insegnava che il Signore ci dona la grazia sufficiente per pregare, la preghiera ci impetra la grazia efficace, e la grazia efficace ci aiuta a compiere il bene e a evitare il male. La sua apologetica, ricca di uno stile brioso, aveva lo scopo di condurre gli uomini alla conoscenza e all’accettazione delle verità della fede, insidiate dall’indifferentismo e dalla crescente incredulità del secolo XVIII, facendo appello all’intelligenza e, nello stesso tempo, ai fattori psicologici e morali.

Come studente di teologia, Liguori aveva aderito a una morale di tendenza rigorista. Solo dopo una lunga e sofferta revisione e autocritica a confronto con lo studio di vari moralisti, confortato dalla sua diretta esperienza pastorale, egli si fece promotore del probabilismo, dove la ricerca e l’adesione alla verità oggettiva non dovevano prescindere dai dati soggettivi della coscienza personale. Con grande lucidità affermò sia i diritti della libertà della coscienza di fronte alla legge dubbia, sia l’obbligo di attenersi al contenuto della legge, quando questa avesse in suo favore ragioni tali da eliminare le probabilità contrarie. Anche nella controversia sul prestito ad interesse, egli si schierò per la liceità purché rimanesse entro i limiti stabiliti dalla legge civile, tenendo conto dell’evoluzione di un tipo di mentalità, che reclamava il diritto di scegliere il proprio lavoro e di farlo fruttare. Con la rivalutazione del probabilismo, Liguori portò la pratica della vita cristiana, turbata dalle controversie fra il rigorismo giansenista e il lassismo, sulla strada aurea dell’equilibrio e della moderazione. Egli riuscì veramente a ristabilire un rapporto di fiducia fra il peccatore e il confessore, fondato su di una considerazione più attenta alla vita quotidiana dei penitenti e su di una valutazione più realistica delle loro esitazioni, debolezze e reticenze. Consapevole che l’atto di fede e le scelte del cristiano richiedono l’esercizio della libertà, si preoccupò di orientare tale legittimo esercizio con il supporto della carità. A mano a mano che in Europa si venne a conoscenza della morale alfonsiana, le si riconobbe il merito di aver opposto una opportuna resistenza contro l’offensiva rigorista dei giansenisti e di aver riportato nel giusto alveo le tendenze più discusse dello stesso probabilismo.

Il successo ottenuto dai «predicabili» del Liguori è dovuto al fatto che essi erano accessibili al clero, esprimevano un’oratoria popolare, affettiva e convincente, ed erano il frutto di una riuscita simbiosi di dottrina e di pietà a sfondo parenetico.

Il suo messaggio ascetico non subì l’influsso determinante dell’ima o dell’altra scuola di spiritualità. Si ispirò alla tradizione, valorizzando quanto di buono vi si trovava, con lo sguardo rivolto ai cambiamenti della società del suo tempo per coglierne gli aspetti positivi e per denunciarne e correggere i risvolti negativi.

Per Liguori, il cammino della perfezione cristiana ha come punto di partenza il distacco dalle cose create e l’accettazione della croce, e come traguardo l’unione con Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, perché la vera chiave della santità consiste nell’amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come noi stessi.

Tra le grandi verità, sempre attuali, proposte dal Liguori nella sua predicazione e nei suoi scritti, si possono ricordare in modo schematico: la vocazione universale alla santità; la centralità dell’amore nella vita cristiana, pervasa dalla presenza vivificante dello Spirito Santo; la ricerca e Tuniformità alla volontà di Dio nell’esercizio della perfezione; l’inesauribile misericordia e bontà di Dio verso i peccatori; la sovrabbondante redenzione di Cristo, meritataci con la sua passione e morte; l’Eucaristia centro della vita ecclesiale; la funzione mediatrice di Maria e la difesa del suo immacolato concepimento; il «senso» della Chiesa come punto di riferimento ineludibile nell’esposizione della dottrina e nell’attività pastorale; l’ascolto della Parola di Dio; l’importanza della preghiera come mezzo indispensabile per la salvezza; la pietà liturgica nel contesto del suo tempo; il richiamo insistente ai novissimi, «che muovono i cuori a vivere bene»; e, infine, il sacramento della penitenza.

Gli scritti del Liguori ebbero una grande accoglienza e una vasta risonanza. Si parla di complessive circa 20.000 edizioni in 70 lingue. Questa quantificazione documenta l’interesse per un pensiero, che fece di sant’Alfonso uno degli autori più letti nel secolo XIX e nei primi decenni del nostro secolo. Al di là di certe formulazioni e limiti, che risentono un po’ dell’impoverimento dell’annuncio kerigmatico e del gusto del tempo in cui fu elaborato, il pensiero alfonsiano continua ad essere attuale per la prudenza e il senso di misura che Io caratterizzano, e la perennità delle grandi verità patrocinate dal Santo. Uomo apostolico e vero amico del popolo, Liguori guardando attorno a sé, comprese l’urgenza di offrire alla gente il servizio di un’azione pastorale assidua e rinnovata per evangelizzarla. A quest’azione egli dedicò le sue eccellenti doti di mente e di cuore e ne affidò la prosecuzione ai suoi figli spirituali, i Redentoristi.

 

Bibliografia

Fonti

Un elenco completo delle opere di sant’Alfonso con una rassegna delle edizioni e traduzioni con brevi in. dicazioni bibliografiche sotto le singole opere si trova in: Meulemeester M. de,​​ Bibliographie générale des écrivains Rédemptoristes​​ (fino al 1939), 3 voll., La Haye-Louvain 1933-39. Per ulteriori aggiornamenti si veda: «Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris» 1953ss, passim.​​ L’edizione critica delle Opere ascetiche iniziò a Roma nel 1933, e furono pubblicati 7 voll. È stata in seguito ripresa con nuovi criteri, nella nuova serie in 18 volumi presso le Edizioni di Storia e Letteratura di Roma. Di questa serie, particolarmente preziosa per le introduzioni critiche dei curatori, sono stati pubblicati finora:​​ Introduzione generale​​ (Gregorio O., Cacciatore G., Capone D.), 1960;​​ Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini, 1962 (Cacciatore);​​ Apparecchio alla morte e opuscoli affini,​​ 1965 (Gregorio);​​ Via della salute e opuscoli affini,​​ 1968 (Gregorio).

Studi

Cacciatore G., S.​​ Alfonso de Liguori e il giansenismo,​​ Libreria Ed. Fiorentina, Firenze 1944; Id.,​​ Alfonso Maria de Liguori, santo,​​ in «Dizionario Biografico degli Italiani», Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1960, II, 342-350; De Maio R.,​​ Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna,​​ Napoli 1971; De Rosa G.,​​ S. Alfonso e il secolo dei lumi,​​ in «Rassegna di Teologia» 28 (1987) 1, pp. 13-31; Gregorio O.,​​ Alfonso Maria de Liguori, santo,​​ in «Dizionario degli Istituti di Perfezione», diretto da G. Pelliccia (1962-68) e da G. Rocca (1969), Ed. Paoline, Roma 1974, I, coll. 482-488; Mazzoni P. A.,​​ Le missioni popolari nel pensiero di Sant’Alfonso Maria de Liguori,​​ Tipografia del Seminario di Padova, Padova 1961 (Excerpta ex dissertatione ad lauream); Orlandi G.,​​ La missione popolare redentorista in Italia. Dal Settecento ai giorni nostri,​​ in «Spicilegium Historicum Congregationis SS.mi Redemptoris» 33 (1985) 51141, in particolare, pp. 60-96; Id., S.​​ Alfonso Maria de Liguori. La fondazione delle​​ «Cappelle serotine» di Napoli,​​ in «Lateranum» 53 (1987) 504-526; Raponi S.,​​ S. Alfonso M. de Liguori maestro di vita cristiana,​​ in «Le grandi scuole della spiritualità cristiana», a cura di Ancilli E., Ed. O.R., Milano, 1984, pp. 621-651; Rey-Mermet Th.,​​ Il santo del secolo dei lumi. Alfonso de Liguori (1696-1787),​​ Città Nuova Ed., Roma 1983; Id.,​​ La moral selon St. Al. de Liguori,​​ Ed. Cerf, Paris 1987; Vidal M.,​​ Frente al rigorismo morale, benignidad pastoral. Alfonso de Liguori (1696-1787),​​ Madrid 1986.

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ALFONSO MARIA DE LIGUORI

ALGORITMO

 

ALGORITMO

Successione ordinata e finita di operazioni e decisioni che conduce a un risultato preciso.

Il termine deriva dalla latinizzazione del nome del grande matematico arabo Muhammed Ibn Muza Al Kuvaritzmi (Algorismus). Leonardo Fibonacci nel suo​​ Liber abaci​​ (1202) inizia spesso le sue affermazioni con l’espressione​​ «Dixit Algorismus».​​ Tale termine è stato ben presto applicato a molti procedimenti matematici universalmente noti e significativi come l’a. euclideo delle divisioni successive, procedimento usato per trovare il massimo comun divisore tra due numeri. Per estensione, con lo sviluppo dell’​​ ​​ informatica e dei computer, esso è stato utilizzato per indicare ogni tipo di procedimento che può essere progettato, tradotto in un linguaggio formale conveniente e fatto eseguire da un sistema di elaborazione automatica. È stato anche usato nell’ambito pedagogico e didattico per designare procedure e strategie formative. L. Landa (1974) ha sviluppato una sua teoria dell’insegnamento definita «algo-euristica», che integra metodi di insegnamento di tipo procedurale-esecutivo e di tipo esplorativo-creativo.

Bibliografia

Landa L.,​​ Algorithmization in learning and instruction,​​ Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1974; Luccio F.,​​ La struttura degli a., Torino, Boringhieri, 1982; Pellerey M.,​​ Informatica,​​ fondamenti scientifici e culturali,​​ Torino, SEI, 1986; Wirth N.,​​ A. + Strutture Dati​​ =​​ Programmi,​​ Milano, Tecniche Nuove, 1987; Goldsch-Lager L. - A. Lister,​​ Introduzione all’informatica. A.,​​ strutture,​​ sistemi,​​ Torino, SEI, 1988;​​ Fondamenti di informatica. Vol. 2: Reti,​​ basi di dati,​​ multimedia,​​ linguaggi,​​ a., Bologna, Zanichelli, 2006; Guida G. - M. Giacomin,​​ Fondamenti di informatica, Milano, Angeli, 2006.

M. Pellerey

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ALLEANZA

 

ALLEANZA

1.​​ Per una definizione del concetto di A.​​ La parola A. traduce l’ebraico berit, di incerta etimologia. Potrebbe essere derivato dall’accadico biritu = legame e significherebbe quindi accordo vincolante; un’altra derivazione parte da birit = fra, e quindi andrebbe nella direzione di una mediazione; un’ulteriore spiegazione deriva berit dalla radice ebraica brh I = mangiare, e quindi potrebbe riferirsi alla cena cultica che accompagna la conclusione di un’A.

E. Kutsch et al. partono dalla radice brh II, che significa vedere/scegliere/eleggere; in tal caso berit significherebbe l’elezione, il destino che l’autore dell’A. ha scelto. La Bibbia greca,​​ i​​ LXX, e al loro seguito il NT, traducono berit con diatheke (invece di syntheke, che ci si aspetterebbe), il che significa, come il latino testamentum (e analogamente molte lingue moderne), ultima disposizione della volontà. Il significato di berit non si riferisce primariamente a un accordo reciproco, ma esprime il solenne obbligo che Dio si assume. Secondo N. Lohfink, sarebbe sinonimo di giuramento.

Nella Bibbia berit significa quindi in primo luogo l’accondiscendenza misericordiosa di Dio: non una situazione ma un evento. A. non sottolinea primariamente la prestazione alla quale ambedue i partner sono vincolati, ma l’iniziativa presa da Dio. Secondo M.​​ Buber​​ va comunque tenuto presente l’elemento di “evento dialogico”. Questa A. che Dio dona all’uomo, e che in ultima analisi è indipendente dalle prestazioni da parte dell’uomo, implica comunque un obbligo per colui che la riceve: occorre ascoltarla, corrispondervi, agire in conformità con essa. Perciò, come in​​ Es​​ 34,27, berit può anche avere il seguente significato: una Legge, promulgata da Iahvè in quanto Signore, per la quale aspetta obbedienza. Nell’”antica A.” (2​​ Cor​​ 3,14) diventa manifesto che la risposta da parte dell’uomo non è proporzionata all’accondiscendenza di Dio. Perciò i Profeti aspettano una “nuova A.” (Ger​​ 31,31), in cui gli obiettivi di Dio, cioè la salvezza dell’uomo, vengono di fatto raggiunti. Questo però si realizza soltanto in Cristo, il quale “così adempie ogni giustizia” (Ali 3,15). Il suo comportamento, pienamente conforme all’A., offre a tutti gli uomini, nella fede, la possibilità di conformarsi, e di partecipare in pienezza, per mezzo suo, alla fedeltà dell’A. da parte di Dio.

L’ → AT conosce una serie di A. Il punto di partenza è la realtà della → creazione (Gn​​ 1), che da parte di Dio è irrevocabile, come viene garantito dalle A. con Noè (Gn​​ 9), Àbramo (Gn​​ 15-17), Mosè (Es)​​ e Davide (2​​ Sam​​ 7). Il vincolo con il quale Dio obbliga se stesso, come pure l’accettazione del vincolo da parte del popolo dell’A., vengono celebrati liturgicamente, e in diversi modi vengono codificati per iscritto, per es. nel libro dell’A. (Es​​ 20-23), nel nucleo originario del​​ Dt​​ (cf 2​​ Re​​ 23), e anche in formule brevi liturgiche, per es. nella cosiddetta formula dell’A.: “Io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo!”; una promessa da parte di Dio, che include però la esclusività del culto verso di lui. Il popolo dell’A. conosce anche altri organi dell’A.: re, sacerdote, profeta. Fino a non molto tempo fa si dava grande importanza al fatto che i formulari dell’A. nell’AT mostrano paralleli con i contratti dei vassalli hittiti e di altre culture orientali. Oggi invece si preferisce parlare soltanto di una connessione indiretta, dovuta al contesto culturale comune dell’antico oriente. Il termine tecnico dell’AT per indicare l’A. è karat berit: tagliare un’A.; secondo​​ Gn​​ 15 e altri passi i partner dell’A., con una specie di rito di automaledizione, passano attraverso le due metà degli animali uccisi, per esprimere che così capiterà a chi non osserverà l’A. Anche in questo caso l’accento è messo sull’accettazione solenne del vincolo, e sulla promessa vincolante nei confronti del partner dell’A.

2.​​ Diversi significati di A.​​ Nell’AT a seconda delle epoche e degli strati teologici il termine A. ha significati diversi, anche se rimane sempre presente l’idea che l’A. è un dono di Dio, il quale benevolmente prende la parte dell’uomo. Per descriverla più concretamente si ricorre a concetti quali pace, salvezza, popolo e terra, conoscenza di Dio. Nei testi precedenti all’esilio — risalenti in parte al periodo che precede l’Israele storico e anche più in là, nei racconti di J, E, JE e deuteronomista, che però non è possibile stabilire con esattezza — noi incontriamo autentiche pre-formulazioni del successivo concetto di A., che è stato formulato dalla teologia deuteronomica-deuteronomistica nel periodo dell’esilio e postesilico.

Anche le presentazioni del codice sacerdotale, della legge della santità, di Ezechiele et al., sono da considerarsi parallele al suddetto concetto. Così pure nel tardo giudaismo e nell’epoca del NT, dove A. significa la totalità dell’agire salvifico di Dio e l’insieme delle sue promesse nell’AT, e quindi anche la nuova A. in Gesù Cristo. Anche nel NT è possibile distinguere diversi concetti di A.

Comune a tutti i testi dell’AT e del NT è la promessa da parte di Dio: la promessa che egli opererà la salvezza dell’uomo; come pure il fatto che, in Cristo, anche la controparte umana ha dato una risposta positiva ed è finalmente disposta ad accettare la piena gratificazione da parte di Dio.

3.​​ Rapporto con la C.​​ L’A., decisione sovrana da parte di Dio in favore dell’uomo, deve sempre essere presentata nella C. come parte essenziale del Lieto Annuncio; non come qualcosa di statico, ma come una realtà dinamica e personale. Occorre richiamare l’attenzione sulla affidabilità e sulla fedeltà di Dio, anche in presenza di infedeltà da parte dell’uomo. L’A. va quindi annunciata come l’esperienza gioiosa che Dio non ci dimentica mai e non ci cancella mai. L’A. significa dunque la realizzazione del senso della vita e il compimento dell’esistenza umana.

Nella presentazione cat. dell’A. occorre evitare l’errore quasi inestirpabile di Marcione (a. 160), il quale rifiuta l’AT, perché scorge in esso soltanto il Dio dell’ira, a cui viene contrapposto il Dio dell’amore del NT. In realtà tutte le promesse dell’AT trovano il loro compimento in Cristo. La novità consiste soprattutto nel fatto che Cristo offre ora all’uomo la capacità di aderire all’offerta da parte di Dio, di vivere nella Chiesa di Cristo e nei suoi sacramenti, e nella forza dello Spirito di Cristo, come partner vitale dell’A. con Dio, e di partecipare pienamente alla forza vitale di questa A. con Dio, che non delude mai.

Bibliografia

K.​​ Baltzer,​​ Das Bundesformular,​​ Stuttgart 19642; A.​​ Deissler,​​ L’annuncio dell’Antico Testamento,​​ Brescia,​​ Paideia,​​ 1980;​​ J.​​ Giblet – P. Grelot,​​ Alleanza,​​ in X. Léon-Dufour (ed.),​​ Dizionario di teologia biblica,​​ Torino, Marietti, 1968; E.​​ Kutsch,​​ Berit/impegno,​​ in E. Jenni – C.​​ Westermann,​​ Dizionario di teologia dell’Antico Testamento,​​ vol.​​ I, Torino, Marietti, 1978; N. Lohfink,​​ La promessa della terra come giuramento,​​ Brescia,​​ Paideia,​​ 1973; D.​​ J. McCarthy​​ et al.,​​ Per una teologia del patto nell'Antico Testamento,​​ Torino, Marietti, 1973; G. Quell –​​ J. Behm,​​ Diatheke,​​ in G.​​ Kittel​​ (ed.),​​ Grande Lessico del Nuovo Testamento,​​ Brescia,​​ Paideia,​​ 1966,​​ vol.​​ II, 1017-1094.

Otto​​ Wahl

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ALLEANZA

ALLEGRIA

 

ALLEGRIA

L’a. è un sentimento dell’animo lieto, che si rivela vivido nelle molteplici espressioni umane: volto e aspetto, movimenti e gesti... Scaturisce dall’emozione primaria della gioia e si manifesta con vivacità nella​​ ​​ festa. Ciò che rallegra nutre la mente, tonifica il cuore e facilita la comunicazione.

1. Nella prospettica pedagogica l’a. trova la sua collocazione formale nel discorso sull’ambiente educativo. Più che configurare solo il «pädagogischer Bezug», il rapporto educativo (Nohl), trova il suo luogo proprio nel «pädagogisches Feld», il campo pedagogico (Winnefeld), provocando i mondi vitali alla scoperta di significati e alla loro stessa produzione. Di certo il sentimento d’a. incontra solchi fertili nell’animo umano, specie giovanile. Il terreno più fecondo per il​​ ​​ dialogo educativo e la comunicazione dei​​ ​​ valori è senza dubbio un ambiente di a. A tale scopo occorre offrire, nell’età della crescita, ampio spazio alla libera espressione (​​ musica e canto,​​ ​​ sport e gioco, danza e​​ ​​ teatro, gite e pellegrinaggi) e alla manifestazione spontanea (emblema di un esuberante spazio estroverso è il «cortile», la «piazza»). L’hanno intuito educatori capaci, come don​​ ​​ Bosco, che nella giovinezza fondò la «Società dell’a.» e nella sua proposta educativa forgiò il trinomio: a., studio, pietà, in cui lo spazio-cortile e l’espressività giovanile assumono dignità pedagogica. Da qui la rilevanza educativa di creare un clima di a. e la convinzione di garantire un sereno tessuto dei rapporti amichevoli.

2. L’a. rivela così valenze interiori (sua fonte è la gioia) e insieme espressioni manifeste. Ne diventa metafora la festa, scandita dalle varie ricorrenze della vita, ma spesso vissuta nei momenti più quotidiani (esistenza come festa). Nell’età evolutiva il soggetto tende spontaneamente all’a. e alla festa: sa che queste nutrono i suoi sentimenti, creano fiducia e sostengono la crescita. L’a. è contagiosa: attraverso la dinamica empatica, come vissuto affettivo, l’a. coinvolge e trascina, creando una feconda piattaforma di relazioni positive e un ambiente costruttivo. Di certo festa e a. sono soggette all’ambivalenza, o addirittura alla deriva; e tuttavia rimangono sempre seducenti nella loro valenza educativa. Nella società contemporanea prevale una visione esistenziale di festa, vissuta nella realtà quotidiana: si cerca perciò una compresenza di evasione e di ricarica, di divertimento e di condivisione, di rapporti consueti e di relazioni inedite, di gratuità e di distacco. In tal senso l’a. e la festa giocano un ruolo non marginale, oggi. Si tratta però di assumerne le sfide educative come la socialità che si fa partecipazione, il coinvolgimento che rende protagonisti, i gesti simbolici che evocano e celebrano valori. All’educatore spetta creare le condizioni interiori perché si verifichino eventi valoriali: 1’​​ ​​ ottimismo di base che è fiducia in sé e negli altri; il gusto per i valori altruistici che fa scoprire il sapore della gratuità e solidarietà; il senso dell’​​ ​​ amicizia che fa superare la​​ ​​ solitudine e rafforza i legami sociali. La manifestazione dell’a. nella festa si fa così messaggio della gioia di vivere, non solo nei suoi aspetti più antropologici e culturali, ma non meno nelle sue evidenze etiche e religiose.

Bibliografia

Baggio D. A.,​​ Paz,​​ optimismo,​​ alegría,​​ Petrópolis, Vozes, 1988; De Monticelli R.,​​ L’a. della mente, Milano, B. Mondadori, 2004; Sagramola O.,​​ Educazione e pedagogia in Giovanni Bosco, Viterbo, Sette Città, 2005.

G. B. Bosco

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ALLEGRIA

ALLPORT Gordon Willard

 

ALLPORT Gordon Willard

n. a Montezuma (Indiana) nel 1897 - m. ad Harvard nel 1967, psicologo statunitense.

1. Frequentando la Harvard University viene in contatto con il pensiero di​​ ​​ James e di​​ ​​ Dewey. Conseguito il dottorato nel 1922 con W. McDougall e H. Langfeld, vuole perfezionarsi in Europa, con​​ ​​ Spranger a Berlino, W. Stern ad Amburgo e F. C. Bartlett a Londra, nella ricerca di un complemento fra la tradizione nordamericana e quella europea. Dal 1924 alla morte, eccetto una parentesi di 4 anni, dal 1926 al 1930 trascorsi al Dortmund College, svolge la sua intensa attività accademica alla Harvard University. Nel 1937 diventa direttore del Department of Psychology e inizia contemporaneamente la pubblicazione del «Journal of Abnormal and Social Psychology», che dirigerà fino al 1949. Nel 1946 fonda il nuovo Department of Social Relations, che coordina e promuove le ricerche nell’ambito dei dinamismi personali e sociali. Nel 1939 è eletto presidente dell’American Psychological Association, e nel 1944 della Society for the Psychological Study of Social Issues. Insignito con due lauree​​ honoris causa,​​ è stato membro delle principali società nazionali di psicologia scientifica.

2. La prima sintesi del suo approccio alla psicologia si trova nel volume del 1937​​ Personality: a psychological interpretation.​​ Si tratta di uno dei primissimi manuali che riguardano la personalità normale, che, fin d’allora, esprime i principali tratti della sua psicologia: la preoccupazione per ciò che è tipicamente umano, sano, e caratterizza il singolo individuo, reagendo ad una psicologia attenta principalmente agli aspetti istintivi o patologici, o comuni agli animali, o protesa più a definire leggi universali che a comprendere la persona. In conformità con queste scelte, A. ha dovuto affrontare problemi epistemologici (come sia possibile una scienza dell’individuo) e metodologici: in un clima dove la scienza era equiparata alla quantificazione. A. ha scelto un metodo eclettico, che gli permette di raggiungere con sufficiente oggettività componenti umanamente importanti eppure sfuggenti al controllo quantitativo, come le intenzioni, i sentimenti, i valori e le decisioni a lunga portata, il senso di identità e di responsabilità.

3. Nel quadro di questa opzione «umanistica» si comprendono le sue pubblicazioni: dodici volumi di trattazioni varie, due monografie, due test, circa 150 articoli e numerose recensioni. I principali temi trattati riguardano la religione, il pregiudizio e la personalità. Nella sua opera maggiore sulla personalità (trad. it. 1977), che riprende e rielabora completamente la pubblicazione del 1937, A. ha raccolto il frutto maturo della sua riflessione e della sua ricerca: si ritrovano riconciliate le antinomie dell’unicità della persona e della sua socialità, del peso dell’inconscio e della ricerca di valori, della molteplicità di tratti ed abiti e dell’integrazione in un’intenzione centrale, della religiosità strumentalizzata nel pregiudizio o ricercata e vissuta come valore intrinseco. L’opera stessa si raccomanda come un accostamento sereno e imparziale ai problemi più urgenti per la comprensione della personalità. A. ha esercitato un notevole influsso sugli studiosi suoi contemporanei (Murphy, Maslow, Bertocci, Nuttin, Frankl), e continua ed esercitarlo attraverso gli sviluppi della corrente umanista.

Bibliografia

principali opere di A. tradotte in it.:​​ Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità,​​ Firenze, Editrice Universitaria, 1963;​​ L’individuo e la sua religione. Interpretazione psicologica.​​ Introduzione e traduzione a cura di N. Galli, Brescia, La Scuola, 1972;​​ La natura del pregiudizio,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973;​​ Psicologia della personalità.​​ Introduzione e bibliografia delle opere di A. a cura di A. Ronco, Roma, LAS, 1977.

A. Ronco

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ALLPORT Gordon Willard

ALTERITÀ

 

ALTERITÀ

Il tema dell’altro è diventato centrale nel dibattito culturale contemporaneo. In passato la​​ ​​ differenza è stata vista per lo più come una minaccia per la propria​​ ​​ identità. In generale si è concordi nel vedere il pensiero europeo come un pensiero dell’identità dove l’altro, il diverso, rimane estraneo, viene rimosso e occultato.

1.​​ La tradizione occidentale.​​ L’Occidente non avrebbe elaborato una vera cultura della differenza, come oggi denunciano le stesse donne occidentali in nome di quella cultura al femminile che trova nella «differenza di genere» il suo principio epistemologico ed ermeneutico. Tra i pensatori che criticano la tradizione occidentale per l’oblio dell’a. si segnalano​​ ​​ Buber, Dussel, De Certeau, Irigaray, Vattimo, Derrida, Foucault, Todorov, ecc. Ma fra tutti spicca il nome di Lévinas, il filosofo dell’a. Ripartire dal volto dell’altro, in campo filosofico così come in campo educativo, significa essenzialmente impegnarsi a creare le condizioni per il passaggio dall’umanesimo del soggetto (cioè dell’io) all’umanesimo dell’altro uomo (cioè del tu e dell’egli); dalla logica dell’identità alla cultura della differenza; dall’etica dell’individuo all’etica del volto e della responsabilità. Proprio con quest’ultima espressione, «etica del volto», si è soliti indicare uno dei punti centrali del pensiero di E. Lévinas (1905-1995), filosofo ebreo che ha elaborato una concezione​​ dell’uomo a partire dall’altro,​​ dal tu, dal volto. Per il suo venire «da fuori» il volto dell’altro si presenta sempre anche come una minaccia che provoca in noi la perdita di controllo, di signoria, di dominio su noi stessi. L’altro, per quanto sia nostro «prossimo» conserverà sempre la sua radicale eterogeneità, la sua assoluta differenza, la sua irriducibile a. L’altro sarà sempre, contemporaneamente, il «prossimo» (di qui il carattere di appello) e lo «straniero» (di qui il carattere di mistero).

2.​​ Il rapporto con l’altro nella società multiculturale. Da molti anni la riflessione sull’a. comprende non solo il riferimento alle donne, ai portatori di handicap, agli omosessuali, ma soprattutto la presenza crescente dello «straniero». Strettamente collegato al tema dell’a. è quindi quello del pregiudizio e dello stereotipo fino al razzismo e alla mixofobia (o paura della mescolanza). Educare all’altro significa allora ridefinire il proprio «io», perché prima ancora di essere solidale e oblativo, democratico e partecipativo, sia un «io ospitale» e capace di accoglienza, di ascolto, di reciprocità. Nell’odierna società plurale e interetnica si tratta di scoprire che l’altro è la risorsa più preziosa per accrescere la nostra identità. Chi ci educa, in senso proprio, è la relazione con l’altro. È lui che ci «tira fuori» dall’ego e ci sollecita all’avventura dell’esodo. Se l’altro non ci visitasse con il suo volto, noi non potremmo mai dire «eccomi». E resteremmo nella nostra immanente soggettività. Pieni di noi, indubbiamente, ma senza la trascendenza dell’altro.

3.​​ Verso l’ethos della reciprocità.​​ La riflessione sui temi dell’a., della differenza, della relazione intersoggettiva e interculturale sta portando verso la centralità della categoria della reciprocità, della convivenza e della coesione sociale. P. Ricoeur giunge a parlare di un «ethos della reciprocità», come paradigma della relazione fondata sul valore della differenza. La reciprocità, sia sul piano antropologico, sia su quello psicologico e pedagogico è ancora tutta da esplorare e da comprendere. La reciprocità è contemporaneamente un essere «con» l’altro, un essere «per» l’altro, un essere «grazie» all’altro. Paul Ricoeur riassume così l’ethos della reciprocità: «Aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in istituzioni giuste». Come si vede, si tratta di tre poli ben articolati e uniti tra loro: la stima di sé, la cura dell’altro, l’aspirazione a vivere in istituzioni giuste. Il problema dell’identità non è separabile dal problema della differenza. È nella cornice di una antropologia della reciprocità che troviamo, forse, il luogo più autentico per la fondazione (né ego-centrica né allo-centrica) della relazione educativa.

Bibliografia

Kristeva J.,​​ Stranieri a se stessi,​​ Milano, Feltrinelli, 1990; De Certeau M.,​​ Mai senza l’altro,​​ Comunità di Bose, Qiqajon, 1993; Ricoeur P.,​​ Sé come un altro,​​ Milano, Jaca Book, 1993; Habermas J.,​​ L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998; Cicchese G.,​​ I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Roma, Città Nuova, 1999; Vigna C. - S. Zamagni (Edd.),​​ Multiculturalismo e identità, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Lévinas E.,​​ Dall’altro all’io, Roma, Meltemi, 2002; Currò S.,​​ Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida,​​ Lévinas e Marion, Roma, LAS, 2005.

A. Nanni

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