AGAZZI Aldo

 

AGAZZI Aldo

n. a Bergamo nel 1906 - m. a Bergamo nel 2000,​​ pedagogista italiano.

1. Figlio di due operai tipografi, primogenito di 8 figli, divenne a 18 anni maestro elementare, a 28 direttore didattico. Diplomato nell’Università Cattolica, con​​ ​​ Casotti, e laureato in Pedagogia all’Università di Torino, divenne insegnante di filosofia all’istituto magistrale, poi libero docente in pedagogia e incaricato a Padova e infine straordinario nell’Università Cattolica (1960), dove fu anche preside di Facoltà e direttore dell’Istituto di Pedagogia.

2. Dotato di vasta e solida cultura umanistica, si aprì alle istanze della socialità e della democrazia, impegnandosi nell’UCIIM, Unione cattolica italiana insegnanti medi, al fianco di​​ ​​ Nosengo, che avrebbe sostituito alla presidenza nazionale, dal 1969 al 1974. Fu anche presidente del Movimento Circoli della Didattica. Partecipò alla Commissione Gonella, battendosi vittoriosamente per la secondarietà della scuola media, fu membro del Consiglio Superiore della P.I. (1951-54 e 1958-62), combattivo membro delle commissioni ministeriali per la stesura dei Programmi della scuola media e degli Orientamenti della scuola materna, fu direttore poi presidente del Centro didattico nazionale per la scuola materna (dal 1950 al 1974), presidente dell’ASPeI, associazione pedagogica italiana, segretario di Scholè, centro di studi fra pedagogisti cristiani, presso l’Editrice la Scuola, dal 1954 al 1968. Presso la stessa Editrice fu anche direttore dal 1948 al 1984 della rivista​​ Scuola Materna​​ e dal 1955 al 1991 della rivista «Scuola e Didattica».

3. I più impegnativi lavori scientifici di A. sono:​​ Saggio sulla natura del fatto educativo,​​ in ordine alla teoria della persona e dei valori​​ (1950),​​ Oltre la scuola attiva. Storia,​​ essenza e significato dell’attivismo​​ (1955);​​ Teoria e pedagogia della scuola nel mondo moderno​​ (1958) e​​ Il lavoro nella pedagogia e nella scuola​​ (1958). Negli anni successivi, oltre alle sue dispense universitarie videro la luce fra gli altri:​​ Gli esami,​​ aspetti pedagogici​​ (1967);​​ Pedagogia,​​ didattica,​​ preparazione dell’insegnante​​ (1968);​​ Le nuove problematiche dell’educazione​​ (1971). Collocatosi nella linea del personalismo educativo (Il discorso pedagogico. Prospettive attuali del personalismo educativo, pro manuscripto, 1963), A. affrontò nei seminari universitari, nelle sedi istituzionali, nei convegni e nei corsi di aggiornamento per docenti e per educatori problemi filosofici, pedagogici, di politica scolastica, didattici, con chiarezza, equilibrio, tenacia, da educatore oltre che da intellettuale impegnato, stimato dai colleghi di tutti gli orientamenti.

Bibliografia

a)​​ Fonti: la bibl. di A.A. (oltre 1600 titoli) è contenuta in:​​ Pedagogia fra tradizione e innovazione.​​ Studi in onore di A.A., Milano, Vita e Pensiero, 1979. b)​​ Studi: Galli N.,​​ A.A., in M. Laeng,​​ Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 216-224; Id.,​​ La pedagogia di A.A., in «Pedagogia e Vita» (2002) 2, 39-91; Scurati C. (Ed.),​​ Educazione,​​ società,​​ scuola: la prospettiva pedagogica di A.A., Brescia, La Scuola, 2005; Corradini L.,​​ Nosengo e A.,​​ attualità di due centenari, in «La Scuola e l’Uomo» (2006) 8-9, 189-194; Pazzaglia L. et. al.,​​ La passione e l’intelligenza educativa. Il patrimonio pedagogico di A.A, in «Scuola e Didattica» 11 (2007) 2, 49-64.

L. Corradini

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AGAZZI Aldo

AGAZZI Rosa e Carolina

 

AGAZZI Rosa e Carolina

Rosa n. a Volongo-Cremona nel 1866 - m. ivi nel 1951 e Carolina n. a Volongo-Cremona nel 1870 - m. a Brescia nel 1945, educatrici italiane.

1. Alle sorelle A. (ma particolarmente a Rosa) si riconosce il merito di aver attuato la riforma del fröbelismo in Italia e di aver realizzato a Mompiano (Brescia) un sistema di educazione infantile che si rivelò capace di soddisfare con puntualità e con congruenza, le esigenze dei bambini e della società rurale in cui vivevano. In questo sistema interagiscono vari elementi (i bambini, le educatrici, le loro famiglie, i locali, gli spazi esterni, il materiale didattico, le esperienze educative, lo stile magistrale, le modalità comunicative). Al centro c’è il bambino, visto come «germe vitale che aspira al suo armonico sviluppo», che è protagonista attivo del suo apprendimento e partecipe della vita della scuola, grazie alla qualità dell’organizzazione dell’ambiente, delle relazioni, dell’animazione educativa della maestra che è la «regista» della «grande casa e dell’allegra famiglia».

2. R.A. dalla conoscenza del bambino fa scaturire due curricoli: uno (che oggi potremmo chiamare​​ implicito) legato alla qualità dell’ambiente che consente ai bambini di soddisfare la loro curiosità, «di chiedere, di domandare, di guardare e di osservare», il bisogno di conoscere le loro cose, quelle dei loro compagni, il mondo fisico, «la scuola, l’orto, gli oggetti, le piante, gli animali, le persone che vi si trovavano», di fare, di costruire, di interagire; e l’altro​​ esplicito​​ relativo alle attività comunemente considerate a carattere intellettuale quali «la lingua e le abilità in genere». Accanto a questo programma c’è tutta la vita della scuola, con i rapporti che si instaurano tra bambini, tra i bambini ed educatrici e con le occasioni che si presentano per le lezioni, per i dialoghi, per la conversazione, per il racconto e la discussione.

3. Il sistema di Mompiano «si impernia intorno ad un ambiente di vita fisica ed operativa», in cui il bambino prova la gioia di vivere, respira un’atmosfera educativa ed apprende ad essere autonomo e competente, capace di mangiare da sé, di apparecchiare e di sparecchiare, di vestirsi e di spogliarsi, di provvedere ai suoi bisogni, di muoversi nel suo spazio vitale, di organizzare il suo tempo, di fare, di trasformare la materia attraverso il gioco-lavoro, di ben pensare e di esprimere con chiarezza il suo pensiero. Tra i bisogni del bambino, oltre a quello di stare bene, di maturare la propria identità, di autonomia e di competenze, R.A. colloca anche quelli di armonia, di bellezza e del sacro, sostenendo che la sua «incontrastabile individualità impone all’educatrice di attingere da se stessa quanto occorre per promuoverla», per vivificare l’umanità che egli custodisce ed attende di attuare.

Bibliografia

Agazzi A. - S. S. Macchietti,​​ L’educazione dell’infanzia nella scuola materna e il metodo A., Brescia, La Scuola, 1991; Macchietti S. S. et al.,​​ Scuola materna gioia di vivere crescere apprendere, Brescia, Ist. Mompiano «Pasquali-Agazzi», 1996; Macchietti S. S. (Ed.),​​ Alle origini dell’esperienza agazziana: sottolineature e discorsi, Azzano San Paolo (BG), Junior, 2001.

S. S. Macchietti

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AGAZZI Rosa e Carolina

AGENZIE FORMATIVE

AGENZIE FORMATIVE

Maria Grazia Caputo

 

1. Che cosa si intende per agenzie formative

2. Problematica

3. Prospettive

3.1. Compiti delle agenzie formative

3.2. Condizioni educative

 

1. Che cosa si intende per agenzie formative

Non è facile incontrare nel linguaggio pedagogico il termine «agenzie formative». Gli studi di pedagogia generale e i lessici utilizzano l’espressione «ambienti educativi» o preferiscono analizzare separatamente alcuni di questi ambienti, come la​​ famiglia​​ (*), la scuola, i centri giovanili, i gruppi, la parrocchia... quasi a significare che ognuna di queste «istituzioni» è incaricata di un aspetto particolare della formazione della personalità. Ritorneremo più avanti su questo concetto.

Il termine «agenzia» (da​​ agente)​​ si riferisce generalmente ad una impresa che ha per scopo l’esercizio di funzioni intermediarie per l’assunzione e trattazione di affari di un certo tipo.

L’attributo «formativa» qualifica il tipo di servizio, riconoscendolo «in grado di formare», capace di «mettere insieme» le potenzialità del soggetto e le offerte dell’ambiente. Per comprendere meglio la natura che può assumere un’agenzia formativa si può ricorrere ad una distinzione già utilizzata da Bogdan Suchodolsky (1974) tra​​ educazione naturale, educazione tutelare, educazione organizzata intenzionalmente.

L’educazione naturale è​​ quella che si svolge senza interventi «positivi» di «maestri» o di istituzioni specifiche, ma attraverso la vita stessa.

Il semplice fatto di appartenere ad un gruppo sociale e di parteciparvi attivamente contribuisce in questo caso a far acquistare le strutture di condotta necessarie per una integrazione e relazione. Questo tipo di educazione non si riferisce solo alla società primitiva in via di sviluppo. Una gran parte dell’educazione dell’uomo moderno continua ad essere «naturale», acquisita per il semplice fatto di appartenere ad un ambiente concreto. L’educazione​​ tutelare​​ si fa presente là dove si rende necessaria una preparazione per svolgere determinate funzioni. Questa formazione, pur svolgendosi a contatto con la vita «reale» (per esempio il​​ lavoro)​​ resta sotto la «tutela» di un professionista che pur esercitando il suo lavoro, orienta l’apprendimento di chi si sta iniziando alla professione. Per molto tempo questo tipo di educazione è stata l’unica formula per potersi inserire in una professione e svolgere un ruolo sociale. Ancora oggi vige questo procedimento educativo che fa riferimento soprattutto ad una relazione tra un individuo che sa e sa fare, e un altro che vuole sapere ed ha la capacità per saper fare.

Ciò che contraddistingue l’educazione​​ organizzata​​ dalle prime due è il realizzare sistematicamente in modo cosciente e con un obiettivo determinato un’attività impartita da persone preparate in strutture create appositamente per questa finalità. È intenzionale come la tutelare; però la funzione dell’adulto non si divide tra lo svolgimento della professione e l’insegnarla. Suo compito è informare, insegnare, guidare un’esperienza di apprendimento. È il caso tipico, ad esempio, della scuola.

Questi tre tipi di educazione (naturale, tutelare, organizzata) sono apparsi generalmente in modo successivo nello sviluppo di qualsiasi comunità umana. Oggi le tre coesistono e spesso si incrociano.

Nonostante siano sorti complessi sistemi educativi organizzati, in vari ambienti continua ad avere la sua importanza l’educazione tutelare e l’educazione naturale e spontanea.

 

2. Problematica

Ci potrebbe essere la tentazione di vedere una contrapposizione tra le «forme» naturali dell’educazione (es. la famiglia) e le forme «artificiali» (di cui la scuola è la tipica rappresentante).

Come osserva Clausse (p. 165) «le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare a prima vista. In molti casi la famiglia persegue obiettivi ben precisi e adegua il suo modo di agire in modo da raggiungere i fini proposti. E la scuola a volte promuove apprendimenti che non rientrano direttamente nei suoi schemi». Più che chiedersi se predominano le forme artificiali o naturali si tratta di individuare «quali sono i rapporti di armonia o di conflitto, di collaborazione o di opposizione» (p. 166).

È un fatto che ogni persona è in relazione con uno o più ambienti, nessuno dei quali può riunire in sé stesso tutti gli stimoli, le proposte e le risposte necessarie per una realizzazione umana.

Alcune di queste agenzie è anche vero che hanno più significato in certe età e non in altre, ma oggi il criterio della «delega» (la famiglia «educa», la scuola istruisce, i gruppi o il Centro giovanile «occupano il tempo libero») ha ceduto il posto a quello della «partecipazione» e della «corresponsabilità». Scuola, famiglia, associazionismo, parrocchia che un tempo si rispettavano o si ignoravano nello svolgimento di un ruolo socialmente riconosciuto stanno passando o sono passate attraverso una crisi di identità.

Il pluralismo culturale ha comportato il moltiplicarsi e l’intrecciarsi di varie proposte globali o parziali. E con esse la coscienza che nessuna agenzia formativa detiene il monopolio della proposta. In un clima di confronto, di competitività (e a volte di conflittualità) si è posto con maggior forza il problema della identità delle agenzie formative, la ricerca oggettiva e razionalizzata della propria proposta atta a garantire il diritto di una coesistenza all’interno della società.

A volte si è pure vissuto il rischio di svolgere ruoli di supplenza quando le altre agenzie non erano in grado di svolgere il loro compito. Il criterio maggiormente diffuso oggi è quello di una «società educante» in cui ogni agenzia formativa è responsabile di tutto pur riconoscendo un suo ruolo specifico. Ciò è maggiormente in sintonia con il concetto stesso di​​ educazione​​ che ha un riferimento diretto alla maturità globale della persona.

Scuola, famiglia, gruppi, centri giovanili acquistano il loro diritto di cittadinanza come luoghi in cui «si fa» formazione ( = agenzie formative) nella misura in cui la proposta di valori che lì si vive si aggira attorno all’aspetto​​ educativo,​​ l’unico che permette un confronto e la possibilità di vedere dove ciascuna può arrivare.

Termini come «proposta - progetto - ideario - partecipazione - corresponsabilità - comunità educativa - comunità educante» sono il tessuto in cui si intreccia l’identità credibile di ogni agenzia formativa.

 

3. Prospettive

 

3.1. Compiti delle agenzie formative

La capacità di decisioni responsabili, caratteristica dello stato adulto, è la meta di ogni intervento educativo. Il cammino per arrivarvi è ostacolato dalla dispersione e dal frammentarismo, dal rischio di consumare i pezzetti della propria vita (soprattutto nell’età adolescenziale) o dal farli pacificamente coesistere tra loro.

Una condizione indispensabile è l’essere aiutati ad unificarsi attorno ad un «qualche cosa» che dia senso e significato a ciò che si vuole e a ciò che si fa. Ed è su questa condizione che si gioca la competenza educativa della famiglia, della scuola, dei gruppi, visti come «ambienti», «comunità», «clima». Non è più pensabile l’opera educativa affidata all’azione del singolo. È nell’ambiente che l’individuo si educa, e la storia ha dimostrato da tempo che le sorti dell’educazione partecipano alle vicende della società nel suo sviluppo culturale, economico, sociale e politico.

La società viene interpellata, sia pure in modo diversificato, a partecipare nella comune responsabilità educativa.

La «comunità educativa» e l’«inserimento nel territorio» si presentano come le forme più corrette per tradurre queste esigenze nella realtà concreta.

Il processo di maturazione ha luogo attraverso il rapporto reciproco della persona con il suo ambiente socio-naturale, e cioè nell’incontro tra le potenzialità naturali ed ambientali.

La mediazione educativa favorisce l’incontro tra la personalità in formazione ed il mondo esterno.

È una mediazione che invita a soffermarsi sul significato, il valore che gli avvenimenti, le persone, gli oggetti possono assumere. Ed è pure una mediazione che invita a condividere, a comunicare agli altri le proprie esperienze. Pur aiutando a crescere nella relazione comunitaria sa far percepire l’irripetibilità della propria personalità, nella sua ricchezza delle differenze individuali.

Nello stesso tempo c’è una mediazione verso la novità e la complessità. Secondo Feuerstein (cit. Bonansea, p. 142) «solo un ambiente che offra stimoli nuovi, complessi, non familiari è in grado di creare la situazione più favorevole allo sviluppo dell’intelligenza. Al contrario un ambiente in cui prevalgono l’abitudine e l’omogeneità inibisce la capacità dell’individuo di modificarsi, nel senso che crea le condizioni per cui egli non avverte più l’esigenza di vigilare, di restare all’erta di fronte alla necessità di adattarsi all’ambiente».

Forse è proprio nella constatazione di queste esigenze che oggi si riconosce l’impatto delle istituzioni alternative. Basterebbe pensare alla «strada», luogo di incontro di molti giovani, o ai mass media e alla forza propositiva dei loro messaggi.

Nella ricerca ed esperienza della propria autonomia il giovane prende da ogni agenzia specifica attraverso cui passa ciò che gli serve. Il rischio dello spezzettamento della propria esperienza vitale è sempre sotteso a questo processo di crescita.

Il riconoscere da parte di tutte queste agenzie formative una piattaforma comune, la​​ educativa,​​ oltre a far cadere un discorso settoriale (e quindi parziale) potenzia alcune condizioni indispensabili per una proposta che può aiutare nell’unificazione della vita. Il fenomeno del​​ volontariato​​ è una delle espressioni più significative che viene dal mondo giovanile: la scelta personale di un impegno gratuito per gli altri, rafforzando al tempo stesso la propria identità personale.

 

3.2.​​ Condizioni educative

Una delle prime​​ condizioni​​ che il denominatore comune «educativo» richiede alle singole agenzie è che ci sia una corretta informazione, una istruzione che aiuti a situare la realtà in una dimensione oggettiva. Ciò comporta una trasmissione di tecniche, di norme di comportamento, di capacità di ricerca e di confronto che possono abilitare una persona nella ricerca costante della verità. Un’altra condizione privilegia due aspetti organizzativi: la continuità e la convergenza dei criteri e dei principi educativi da parte degli educatori. Mentre la prima fa riferimento ad una dimensione temporale, la seconda mette l’accento sulla possibilità di conoscenza e di dialogo «qui ed ora» a livello di tutti gli operatori educativi.

Il​​ progetto educativo​​ è la traduzione di queste due coordinate, come tentativo di creare una piattaforma di consenso in base ad una proposta educativa.

È il progetto che dà senso alla​​ comunità educativa,​​ che ne costituisce il motivo dominante di azione. È proprio grazie ad un progetto che si va elaborando, che si costruisce pure una comunità educativa. Il formalizzare il progetto in una stesura scritta, ogni anno, non è una meta, ma un documento che accompagna la crescita o la stasi di un gruppo di persone che cercano di mettere in comune la loro preoccupazione educativa.​​ 

Il riuscire a «creare» spazi per i destinatari, i giovani, nella costruzione di un qualcosa che li riguarda personalmente, aiuta a farli passare dallo stato di «oggetti» a soggetti corresponsabili.

Un’agenzia diventa, di fatto, formativa nella misura in cui ciò che propone diventa prima di tutto un fatto esperienziale. Per questo motivo un’altra condizione che sembra fondamentale è il riuscire a creare un ambiente ricco di «vita» di fascino, dove i valori con cui si entra in contatto acquistano una forza propositiva. Un esempio in questa direzione è costituito da Don Bosco che ha saputo creare una proposta alternativa non solo grazie ad un ambiente che accoglieva i giovani, ma soprattutto perché in quell’ambiente si sentivano a proprio agio, facevano esperienza di vita di «famiglia», si sentivano «a casa». Un ambiente dove si respira calore, accoglienza, gioia di vivere, risulta ricco di fascino ed è anche capace di essere luogo di identificazione. È un ambiente che privilegia le relazioni personali, grazie ad uno stile inconfondibile da parte degli adulti.

Potremmo a questo proposito ricordare alcuni principi conosciuti e sempre nuovi, punti di riferimento nell’azione educativa:

— l’individualizzazione o la capacità di arrivare a ciascuno nella sua peculiarità irripetibile;

— la socializzazione come capacità di far crescere comunitariamente grazie anche ad un riferimento costante al territorio;

— l’attività come capacità di rendere il giovane stesso protagonista della sua crescita. Sono tutti principi che ruotano attorno ad un concetto fondamentale: al centro di tutta l’azione educativa sta la​​ persona​​ con le sue possibilità e la sua sete di vivere, le sue attese di proposte significative e la necessità di essere aiutata nel suo processo di realizzazione.

 

Bibliografia

Clausse G.,​​ Avviamento alle scienze dell’educazione,​​ La Nuova Italia, Firenze 1970; Coen R.,​​ Ambiente ed educazione,​​ La Nuova Italia, Firenze 1965; Flores D’Arcais G.,​​ L’ambiente,​​ La Scuola, Brescia 1962; Giannatelli R. (a cura di),​​ Progettare l’educazione oggi con Don Bosco,​​ LAS, Roma 1981; Giugni G.,​​ Introduzione allo studio della pedagogia,​​ S.E.L, Torino 1981; Spranger E.,​​ Ambiente e cultura,​​ Armando, Roma 1968.

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AGENZIE FORMATIVE

AGGRESSIVITÀ

 

AGGRESSIVITÀ

Condotta che può essere vissuta in modo positivo (affermazione di sé) o negativo (auto e / o eterodistruttività).

1. L’a. si snoda dunque lungo un​​ continuum​​ che va dalla difesa di se stessi, ad un sano bisogno di affermazione, alla creatività, alla competitività, al dominio sugli altri, alla distruzione di sé (masochismo) o degli altri (sadismo). Secondo l’ottica psicoanalitica, l’a. non si esprime solamente attraverso una condotta manifesta ed intenzionale, ma anche in modo mascherato ed inconscio. Ad es., un genitore scarica la sua ostilità nei confronti del figlio attraverso l’iperprotezionismo; oppure un individuo si dedica maniacalmente ad opere di bene per soddisfare il suo bisogno di dominare sugli altri.

2. L’a. non è riconducibile ad un’unica causa, ma ad una serie di fattori neurofisiologici, biochimici, psicologici e sociali tra loro interconnessi. Notevoli sono i contributi psicoanalitici al riguardo.​​ ​​ Freud giunge gradualmente alla conclusione che l’a. non è altro che un’espressione della​​ pulsione di morte​​ (Thanatos),​​ a cui, nel saggio​​ Al di là del principio del piacere​​ del 1920, egli riconosce un peso uguale a quello della libido, denominata​​ pulsione di vita​​ (Eros).​​ Entrambe le pulsioni sono innate e nella prima infanzia sono tra loro intimamente fuse. Successivamente si differenziano. Una mancata deLusione in età adulta comporta uno stato patologico. Per Freud la pulsione di morte tuttavia non riguarda semplicemente l’a., ma anche la tendenza alla riduzione assoluta delle tensioni, fino a portare l’essere vivente allo stato inorganico. Anche se il concetto di pulsione di morte è rimasto uno dei più controversi nell’ambito della teoria psicoanalitica,​​ ​​ Klein ha ripreso i contributi freudiani, sottolineando con ancora più forza il ruolo fondamentale che esso svolge nella strutturazione della personalità fin dai primi mesi di vita, soprattutto in assenza di una cura adeguata da parte della madre. Entro quest’ottica, l’esistenza dell’individuo è vista come uno snodarsi entro una costante conflittualità nella bipolarità: amore-odio, invidia-gratitudine, distruzione-riparazione, oggetto buono-oggetto cattivo. Ciò significa che la pulsione di morte normalmente si trova in uno stato di connessione con la pulsione di vita. Occorre però che, per il mantenimento della salute psichica, la pulsione di vita sia predominante.

Bibliografia

Laplance J.,​​ Vita e morte nella psicoanalisi,​​ Bari, Laterza, 1972; Storr A.,​​ La distruttività nell’uomo,​​ Roma, Astrolabio, 1975; Freud S., «Al di là del principio del piacere», in​​ Opere,​​ vol. 9, Torino, Boringhieri, 1977, 193-249; Klein M.,​​ Scritti 1921-1958,​​ Ibid, 1978; Rohm H.,​​ L’a. infantile. Teoria e prassi per un’educazione risolutrice dei conflitti,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1980;​​ La relazione aggressiva,​​ Roma, Borla, 1988;​​ Kernberg​​ O. F.,​​ A.,​​ disturbi della personalità e perversioni, Milano, Cortina, 1993; Norbert E. - E. Dunning,​​ Sport e a., Bologna, Il Mulino, 2001;​​ Fornaro M.,​​ A. I classici nella tradizione della psicologia sperimentale,​​ della psicologia clinica,​​ dell’etologia, Torino, Centro Scientifico, 2004;​​ Fagiani M. B. - G. Ramaglia,​​ L’a. in età evolutiva, Roma, Carocci , 2006; Kernberg O. F.,​​ Narcisismo,​​ a. e autodistruttività nella relazione terapeutica, Milano, Cortina, 2006.

V. L. Castellazzi

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AGGRESSIVITÀ

AGIRE ETICO

 

AGIRE ETICO

I.​​ L’idea di “apprendimento dell’agire etico” è basata sui seguenti princìpi:

2.​​ Occorre anzitutto determinare che cosa rende buona un’azione, poiché è proprio questo che deve essere appreso. Che l’azione diventi buona a causa della buona volontà è un principio già insegnato da Tommaso d’Aquino. Kant si è servito del concetto di autonomia per formalizzare e sviluppare la seguente dottrina: soltanto una buona volontà può essere chiamata buona; la buona volontà si orienta secondo princìpi (leggi) che l’uomo libero pone a se stesso; il contrario dell’agire buono e libero è l’agire in forza dell’inclinazione. Per Tommaso come per Kant l’apprendimento non riguarda tanto princìpi e norme, quanto primariamente qualità umane fondamentali (autonomia, libertà, uso della buona volontà). Certo, il principio della volontà libera e buona richiede il contenuto di una “etica materiale dei valori” (Scheler). In nessun caso ci si libera per la libertà, se non si apprendono “atteggiamenti di valore”, che nella scolastica vengono caratterizzati come “virtù”.

3.​​ Occorre riconoscere che la​​ finalità della pedagogia​​ consiste appunto​​ nell’educare “l'uomo buono”. È il principio fondamentale formulato da J. F. Herbart (1776-1841). Herbart pensa soprattutto alla “formazione morale” dell’allievo. È necessario formare gli “atteggiamenti”; occorre acquisire il “forte carattere della moralità”. Tale pedagogia è basata sulla filosofia pratica e sulla​​ psicologia.​​ Essa cerca di individuare i mezzi per raggiungere il fine e di conoscere gli ostacoli che ostruiscono la strada per raggiungerlo.

4.​​ Anche F. W.​​ Förster​​ (1869-1966) ha sviluppato una “pedagogia morale”; essa è parallela alla pedagogia religiosa di J. →​​ Göttler.​​ Secondo​​ Förster​​ non c’è pedagogia morale senza religione (come per​​ Göttler​​ la pedagogia religiosa è anche pedagogia morale).

5.​​ La “moral​​ education” di cui si parla nell’ambito della lingua inglese, merita una segnalazione a parte. Recentemente la sua “lifeline” e “startline” è stata sviluppata in vista delle possibilità scolastiche e munita anche di materiali didattici.

6.​​ Sulla base di studi psicologici e teologico-filosofici, di cui sopra, come pure sulla base della tradizione pedagogica, G.​​ Stachel,​​ in collaborazione con D.​​ Mieth​​ (“autonome​​ Moral”), ha sviluppato il concetto di “apprendimento dell’agire etico”. Esso cerca di rispondere al problema psicologico, cioè al problema del come e del dove della pedagogia morale. Il problema dei contenuti e della loro validità è lasciato all’etica filosofica e teologica.

II.​​ Metodi di apprendimento.

1.​​ Il più vecchio metodo dell’apprendimento etico è basato​​ sull’ottimismo socratico-platonico,​​ il quale afferma che “si può insegnare la virtù”. L’importante è che l’allievo “conosca” il bene come bene, e lo “riconosca” nel quadro di un colloquio didattico. L’allievo dispone di libera volontà. Inoltre il conoscere precede il volere. Perciò ci si può aspettare che, riconoscendo il bene, l’allievo acconsenta anche con la volontà, e cerchi di agire in conseguenza. Tale conoscenza e riconoscimento vengono più tardi inquadrati in un sistema disciplinare di premio e castigo. Anche la paura delle gravi conseguenze del peccato, in particolare delle pene dell’inferno, è stata utilizzata come mezzo educativo.

Ora già san Paolo,​​ Rm​​ 7,19, afferma: “Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. Quindi per Paolo la volontà non è libera a tal punto da riuscire a tradurre anche nella prassi tutto il bene che viene riconosciuto come tale.

Vale oggi come prima il principio secondo cui​​ l’agire etico è basato sulla conoscenza del bene.​​ Di conseguenza “l’apprendimento dell’agire​​ etico”​​ è​​ anche​​ un apprendimento cognitivo. Già da tempo la prassi dell’apprendimento etico non è più concepita come deduzione da princìpi, ma procede per via induttiva a partire dalla vita concreta. Non viene più trasmesso sotto forma di prescrizioni autoritarie, ma lungo il canale del colloquio. È vero però che i cambiamenti negli atteggiamenti (apprendimento cognitivo​​ e​​ affettivo) non implicano necessariamente che il soggetto agisca anche nel senso di questi cambiamenti.​​ Di conseguenza occorre esaminare su quale fondamento è basata la connessione tra conoscere, valorizzare e agire.

J. Piaget e L. Kohlberg hanno cercato di descrivere lo →​​ sviluppo del giudizio morale.​​ È errato però affermare che il giudizio morale a un livello più elevato si traduce anche in un agire migliore, perché vi è il fenomeno della “dissonanza cognitiva” (Festinger). In ogni caso,​​ una conoscenza che non si traduce in agire è priva di valore.​​ Secondo il parere del fondatore del prammatismo, Ch. S.​​ Peirce,​​ il pensiero “si conosce dai frutti”, cioè nella prassi operativa che da esso scaturisce. Pensieri e concetti servono dunque per produrre “habits of actions”. Un pensiero che non si traduce in agire deve essere criticamente esaminato. Modelli di pedagogia morale, in cui l’agire non ha un posto fondamentale, sono deficitari. Sono​​ intellettualistici.

2.​​ Dal lato opposto si trova la posizione unilaterale​​ all’apprendimento behavioristico.​​ Non basta dire che uno stimolo provoca una reazione​​ (response).​​ Piuttosto, se la reazione è seguita da uno stimolo che la rinforza​​ (reinforcement),​​ aumenta la probabilità che la reazione venga ripetuta, finché la reazione è appresa (Thorndike, Skinner). Applicato all’apprendimento umano, l’apprendimento behavioristico appare come un sistema primitivo di addestramento che va contro l’autonomia. L’influsso della “psicologia gestaltistica”, emigrata negli USA, ha portato alla teoria del neo-behaviorismo. Esso riconosce che oltre la reazione e lo stimolo intervengono anche altre variabili. Di conseguenza diventa attento alla problematica della motivazione. C’è qualcosa di vero nel concetto behavioristico: l’agire etico non si apprende senza lode o riconoscimento per un’azione buona, e senza privazione di riconoscimento o castigo per un’azione cattiva. Chi affermasse il contrario, ignora le realtà dell’uomo. Questo ovviamente vale anche per la società e le sue leggi, come pure per le violazioni di queste leggi e per i crimini. L’educazione etica e la formazione secondo il modello sociale, in quanto parte della socializzazione globale, si realizzano per mezzo di “reinforcement” o “privazione di reinforcement” nei gruppi sociali.​​ Il riconoscimento o la mancanza di riconoscimento da parte del gruppo ha un forte influsso sulla formazione del carattere.

3.​​ L’influsso socializzante ed educativo del​​ micro-gruppo​​ che è la​​ famiglia​​ è di notevole importanza. L’apprendimento dell’agire etico inteso come agire in forza dell’amore si acquisisce fondamentalmente nella fanciullezza nei rapporti tra figli e genitori, e nei rapporti reciproci tra fratelli. Nel periodo della maturazione l’influsso dei genitori retrocede in favore dei​​ peer groups.​​ Esso però si fa sentire per tutta la durata della vita. La famiglia moderna assicura generalmente una sufficiente misura di libertà, che è indispensabile per il raggiungimento dell’autonomia personale. Invece si pratica sempre di meno l’orientamento nel mondo dei valori, non si esprime la preferenza per determinati valori, perché i genitori si sentono insicuri, oppure si conformano alla società dei consumi. La crescente permissività della casa paterna, e in eguale misura, anche quella della scuola, lasciano che gli stessi fanciulli e giovani decidano per conto proprio quali valori vogliono accogliere, anche se non sono in grado di prendere tali decisioni. Di conseguenza uno dei compiti della catechetica e della pastorale consiste nell’aiutare i genitori e gli insegnanti ad acquisire una maggiore sicurezza nei confronti dei valori e una più chiara difesa dei valori preferenziali.

4.​​ L’influsso degli educatori, dei gruppi e dei mezzi di comunicazione sociale sull’agire etico si realizza soprattutto attraverso “l’apprendimento di modelli” (“models”). Questo compensa in qualche misura la parziale mancanza di apprendimento basato su comprensione (cognitiva e affettiva)​​ e​​ reinforcement.

L’apprendimento di aggressività per mezzo di imitazione è stato dimostrato da A. Bandura. L’apprendimento a partire da modelli amorevoli è documentato da J. Aronfreed.​​ limitazione​​ è indispensabile per lo sviluppo, ma non è possibile valutarla eticamente, perché manca la libertà. Nella misura in cui gli educatori rinunciano all’addestramento, garantiscono la dovuta distanza, e rendono intelligibile il proprio comportamento, si realizza già nei fanciulli la “identificazione” con modelli. Sulla base di modelli personali, letterari e audiovisivi, è possibile realizzare un agire creativo che confluisce nell’agire sulla base di comprensione intellettuale.

5.​​ È molto importante​​ l’apprendimento basato su tentativi e sbagli.​​ Il dolore che uno si tira addosso cambia il suo comportamento in forma molto più duratura che qualsiasi insegnamento, a condizione però che lo sbaglio sia riconosciuto come causa del dolore. L’educazione tradizionale stenta a riconoscere che tentativi e sbagli sono un elemento indispensabile nel corso dello sviluppo, anche nell’ambito della sessualità. Anche il corretto modo di agire con gli amici si impara soprattutto per mezzo di tentativi e sbagli. È però necessario che la parola intelligente illumini lo sbaglio, quando ha causato danni.

6.​​ L’apprendimento dell’agire etico si realizza come una specie di​​ terapia.​​ Si può intendere per terapia ogni forma di miglioramento di un comportamento nocivo o depravato, o di una incapacità di fare il bene. La terapia più importante è l’incoraggiamento a cercare e a trovare un​​ significato,​​ e l’esercizio rinforzante di un agire significativo (V. E. Frankl). Con questo criterio si possono anche valutare le numerose offerte di terapia individuale e sociale.

Il contatto con persone che con la vita dimostrano il corretto agire, ha un influsso trasformatore (II.4). Esso ha una forza terapeutica.

Un’ottima terapia è il silenzio. Chi pratica il silenzio si svuota della pressione consumistica e dell’assuefazione. Il silenzio è un modo per liberare se stesso e per diventare libero per gli altri. In questo senso senza il silenzio non è possibile una società libera (L. Marcuse).

III. Un​​ miglioramento​​ delle condizioni dell’apprendimento etico è​​ unicamente possibile attraverso cambiamenti strutturali.​​ Soltanto dietro l’affermarsi di un profondo cambiamento della convivenza, dell’essere cristiano nella Chiesa, dell’agire politico, diventa significativa una efficace e concreta trasmissione dei valori. Non c’è apprendimento che possa andare contro la cultura. Il gruppo che vuole rinnovare la società incomincia a stabilirsi come “subcultura”. Una subcultura è in grado di realizzare una → socializzazione che è contraria a determinati elementi della cultura. Normalmente il prezzo da pagare è la rinuncia a partecipare culturalmente ai valori della maggioranza della società. Piuttosto che isolarsi dalla società, è preferibile rinnovarla “dall’interno”.

Bibliografia

C.​​ Brusselmans (ed.).​​ Toward Moral and Religious Maturity. First International Conference...,​​ Morristown, Silver Burdett Company, 1980; G. Gatti,​​ Fede ed impegno morale,​​ in​​ Catechesi​​ 51 (1982) 3, 3-22; E. Geissler,​​ J. F. Herbart,​​ in​​ Klassiker der Pädagogik,​​ vol. I (ed. H.​​ Scheuere), München,​​ C. H. Beck, 1979; J. Hoffmann,​​ Moralpädagogik,​​ vol. I,​​ Düsseldorf,​​ Patmos, 1979; P. McPhail​​ et​​ al.​​ Lifeline. Schools Council Project in Moral Education,​​ London, Longman, 1978; Id.,​​ Startline. Moral Education in the Middle Years,​​ ivi, 1978; Id.,​​ Social and Moral Education,​​ Oxford, Basil Blackwell, 1982;​​ F.​​ Oser,​​ Moralisches Urteil​​ in​​ Gruppen​​ (Taschenbuch Wissenschaft 335), Frankfurt, Suhrkamp, 1981; G. Stachel – D. Mieth,​​ Ethisch handeln lernen,​​ Zürich, Benziger, 1978.

Günter Stachel

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AGIRE ETICO

AGOSTINO

 

AGOSTINO

1.​​ Nato in Numidia (354), studiò letteratura latina; solo tardi e non molto il greco. Educato cristianamente dalla madre, a 16 anni fu però dominato dal piacere di “amare ed essere amato” (Confi,​​ 11,2,2). Recatosi nel 371 a Cartagine ebbe un figlio, Adeodato. A 19 anni passò al manicheismo, in cui rimase fino ai 28 anni. “Eravamo sedotti e seducevamo” (ibid.,​​ IV,1,1). Fu a Roma, poi a Milano professore di retorica; qui Monica lo trovò in preda allo scetticismo. Con la sua riflessione e la predicazione di → Ambrogio credette in Dio e all’anima spirituale. Abbandonato il manicheismo, fu catecumeno: aveva ritrovato la fede in Cristo e nella Chiesa; aveva trovato ciò che da 13 anni cercava (ibid.,​​ VII,21,27). Si ritirò a Cassiciaco, si preparò al battesimo, che ricevette nella notte di Pasqua insieme al figlio e ad Alipio: “Fummo battezzati e fuggì da noi ogni affanno della vita trascorsa” (ibid.,​​ IX,6,14). Ricorderà sempre Ambrogio, venerato “come padre, perché mi ha generato... in Cristo Gesù”​​ (Contra​​ Jul.,​​ 1,3,10). Tornò a​​ Tagaste​​ dove condusse vita monastica; divenuto prete, dietro acclamazione del popolo, fu zelante pastore, polemizzò contro gli eretici, predicò al popolo. Venne ordinato vescovo forse nel 396. Infaticabile l’attività episcopale: specie la predicazione al popolo, improvvisata o preparata, semplice e profonda, sabato e domenica, talora per più giorni di seguito. Eccelleva tra i vescovi africani, vinse manichei, donatisti, pelagiani. Morì nel 430, durante l’assedio dei Vandali a Ippona.

2.​​ La teoria cat. di A. è espressa soprattutto nel​​ De catechizandis rudibus,​​ manuale di metodologia cat., in 27 cc., di cui cc. I-XV teorici, cc. XVI-XXVII pratici (due esempi); è la risposta a un diacono di Cartagine, catechista scoraggiato, incaricato di accostare i “rudes”, principianti pagani, anche colti, ma desiderosi del contenuto essenziale del cristianesimo: unico esempio patristico di tal genere. Tre fasi: 1)​​ Racconto​​ (narratio):​​ con metodo storico-globale si presenti tutta la storia della salvezza (narratio piena), mediante fatti essenziali (mirabiliora), e i secondari solo a rapidi cenni (III,5): emergeranno i nodi della storia della salvezza (articuli temporis), di cui il principale è “l’evento-Cristo”, sintesi degli altri; e la continuità tra AT e NT: “L’AT è il velo del NT e nel Nuovo si manifesta l’Antico” (IV,8). Fine della Rivelazione è la “charitas”, finalizzazione della “narratio”, in modo che “chi ti ascolta, ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (l.c.). Apice della “charitas” divina è Cristo: la Scrittura “narra Cristo e spinge ad amare” (l.c.). 2)​​ Aprire alla speranza​​ (cohortatio):​​ è la “speranza della risurrezione» (VII,11): «Sarà difficile a Dio ... restituire al tuo corpo l’insieme dei due elementi, se egli ha potuto crearlo, quando non esisteva”? (XXV,46). La storia della salvezza va così dalla creazione alla risurrezione. Si stabilisca il nesso tra C. e vita, anzi si dilati l’orizzonte alla storia universale e ultima: “(Le due città) ora sono mescolate secondo il corpo, ma distinte secondo lo spirito; in futuro, nel giorno del giudizio saranno separate anche secondo il corpo” (XIX, 31). La speranza del rudis è Cristo risorto, motore della storia. 3)​​ Procurare gioia​​ (hilaritatis comparatio):​​ la gioia contro la noia è necessaria al catechista e al catechizzando. A. espone sei elementi contro la gioia, indicandone altrettanti rimedi (X-XV). Avviene allora che “(i catechizzandi) pronunciano, per così dire, per bocca nostra le cose che ascoltano; e noi apprendiamo da essi, in certo modo, le cose che insegniamo” (XII,17). Attenzione all’ascoltatore: “A seconda della varia espressione (del catechizzando) il mio discorso prende avvio, procede e termina”, secondo la carità (XV,23).

L’opera esercitò notevole influsso in Cassiodoro (sec. IV), Isidoro di Siviglia (sec. VII), Alcuino e Rabano Mauro (sec. IX), Petrarca, Erasmo, Vives, poi in Fleury, fino ad oggi. C’è chi la ritiene un manuale di C. generale (Capelle, Michel, Seage; però solo 9 paragrafi su 55 sono tali!), chi una teoria di C. di prima iniziazione (Van der Meer, Busch, Bareille, H. Leclercq, Combès, Farges). Chi vi coglie la “narratio” della storia della salvezza come idea centrale, chi invece (non fondatamente) la manifestazione della Chiesa, rilevando la disposizione del contenuto dottrinale in chiave kerygmatica (G. C. Negri), chi infine vi vede con più ragione la presentazione della “charitas” divina in Cristo (Istace, G. Oggioni, Trapé).

3.​​ La prassi cat. di A. è rivolta a diverse categorie di persone.​​ Ai principianti:​​ cf i due esempi in​​ De cat. rud.​​ (XVI-XXV;​​ XXVI-XXVII)​​ tra racconto ed esortazione alla speranza. Per le altre categorie, ci sono i​​ sermones.​​ Ai catecumeni:​​ consegna del Simbolo (pactum fidei) (serm.​​ 212,1; 214,12) contenente “breviter... tutto ciò che credete” (serm.​​ 212,1); “Symbolum est breviter complexa regula fidei» (serm.​​ 213,1): Scrittura e Tradizione. A. espone la verità riguardante Dio Padre, il Verbo Incarnato “in forma servi”, ma glorioso in cielo, lo Spirito S.: “Haec Trinitas unus Deus est» (serm.​​ 212,1), la Chiesa, casta come Maria e peccatrice nei figli, infine il “finis sine fine erit resurrectio carnis” (serm.​​ 213,9). Il Simbolo prima trasmesso (Traditio Symboli), imparato a memoria, scritto solo nel cuore, deve essere “reso” recitato a memoria (Redditio Symboli): “Singuli hodie reddidistis”, cf​​ In redditione Symboli​​ (serm.​​ 215,1-9).​​ Ai “competentes”,​​ iscritti per prepararsi al battesimo: C. morale sui doveri cristiani: “Noi spargiamo la semente della parola, voi rendete i frutti della fede” (serm.​​ 216,1 ) per osservare il “patto” e tendere alla vita eterna: “Ut competentes competenter adolescite in Christo, ut in virum perfectum iuveniliter accrescatis” (ivi,​​ 7).​​ Ai neofiti​​ (infantes,​​ nati a Cristo,​​ serm.​​ 228,1): la storia del pane e del vino viene rapportata alla storia dei neofiti battezzati e cresimati (mistagogia): “Poi c’è stato il battesimo e siete stati come impastati con l’acqua per prendere la forma del pane. Ma ancora non si ha il pane, se non c’è il fuoco. E che cosa esprime il fuoco, cioè l’unzione dell’olio? Infatti l’olio, che è alimento per il fuoco, è il segno sacramentale dello Spirito S.” (serm.​​ 227,1). «Abbiamo loro spiegato il sacramento dell’Orazione del Signore, con cui debbono pregare; e così anche il sacramento del fonte e del battesimo” (serm.​​ 228,3). Così la mistagogia circa l’eucaristia: “Dovete conoscere ciò che avete ricevuto, ciò che riceverete, ciò che ogni giorno dovrete ricevere” (serm.​​ 227). “Ciò che vedete è il pane e il calice: ve lo annunciano anche i vostri occhi; ma per la vostra fede ... il pane è il corpo di Cristo, il calice è il sangue di Cristo» (serm.​​ 272,1). Sbocco finale è l’unità: “Se avete ricevuto bene, voi stessi siete ciò che avete ricevuto” (serm.​​ 227). “Siate ciò che vedete, e ricevete ciò che siete” (serm.​​ 272,1). “Chi riceve il mistero dell’unità, e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero a suo favore, ma un testimonio a propria condanna” (ivi). Ai fedeli-,​​ è la C. postbattesimale o permanente che troviamo, oltre che in vari discorsi, che meriterebbero di essere individuati con cura, nel​​ De agone christiano liber 1,​​ manuale per i fedeli con spiegazione del Simbolo e precetti morali, in “humili sermone”, contenente “regulam​​ fidei et praecepta vivendi” (Retract.,​​ 2,3).

Bibliografia

1.​​ Fonti

De catechizandis rudibus,​​ PL 40,309-348; CCL 46, 115-178. Trad. ¡tal.: Brescia, La Scuola, 1963; A. Velli (ed.),​​ La catechesi dei princi pianti. De catechizandis rudibus,​​ Roma, Ed. Paoline, 1984; Numerose prediche di indole cat.

2.​​ Studi

J. Daniélou,​​ La catechesi nei primi secoli,​​ Leumann-Torino, LDC, 1969, 205-235; V. Grossi,​​ La liturgia battesimale in S. Agostino,​​ Roma, Inst. Patr. Aug., 1970, 1-74; Fr. Michel,​​ Le catéchiste à l’école de S. Angustia. Le “De catechizandis rudibus”, in “Catéchistes” 5 (1954) 20, 281-290; 21, 19-28; G. Oggioni,​​ Il problema dell’educazione religiosa: la ricerca del metodo didattico​​ (De cat. rud.),​​ nel vol.​​ S. Agostino educatore,​​ Pavia 1971, 77-98; O. Pasquato,​​ Rapporto tra catechesi e liturgia nella tradizione biblica e patristica,​​ in “Rivista Liturgica” 72 (1985) 39-73 (61-64);​​ Í.​​ Rodrìguez,​​ El catecumenado en la disciplina de Africa​​ según​​ S.​​ Agustín,​​ Burgos​​ 1955, 160-174; A. Trapé,​​ S. Agostino e la catechesi: teoria e prassi,​​ in S. Felici (ed.),​​ Valori attuali della catechesi patristica,​​ Roma, LAS, 1979, 117-125; Io.,​​ S. Agostino ai neofiti sullo Spirito Santo,​​ in S. Felici (ed.),​​ Spirito Santo e catechesi patristica,​​ ivi 1983, 15-21.

Ottorino Pasquato

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S. AGOSTINO D’IPPONA

(354-430)

 

Ottorino Pasquato

 

1. Vita

2. Agostino e la pastorale dei giovani

2.1. L’ottica retrospettiva nelle Confessioni

2.1.1. Il giovane Agostino e l’esperienza spirituale

2.1.2. Il giovane Agostino e l’esperienza pedagogica

2.2. La teoria pedagogico-pastorale di Agostino

2.2.1. Ruolo del maestro umano e del maestro interiore

2.2.2. Un manuale di metodologia catechistica: il​​ De catechizandis rudibus

2.3. L’azione educativo-pastorale di Agostino

2.3.1. Le disposizioni interiori

2.3.2. Azione educativa nella scuola

2.3.3. Relazioni epistolari con i giovani

2.3.4. Pastorale catechistica

2.4. Fondamenti e condizioni della pastorale anche giovanile

2.4.1. La missione

2.4.2. L’anima della pastorale

2.4.3. Modalità degli interventi pastorali

1. Vita

Presentiamo la biografia inserita nel contesto socio-religioso del tempo di Agostino.​​ Prima della conversione​​ (354-386). Nato a Tagaste in Numidia nel 354 da padre pagano (morto nel 371, battezzato), consigliere municipale, e da madre cristiana e molto pia, fu romano di lingua, di cultura e di cuore. Di ingegno vivacissimo, studiò a Tagaste, poi a Madaura per quattro anni dagli 11 ai 16, infine nel 391 a Cartagine, dove, dominato dal piacere di «amare e di essere amato»​​ (Conf.​​ 11,2,2) ebbe un figlio, Adeodato; si conservò però studioso e onesto. Educato cristianamente, rimase nelle intenzioni sempre un cristiano. A 19 anni, leggendo​​ YOrtensio​​ di Cicerone si convertì alla sapienza, ma deluso dalle Scritture, assillato dal problema del male, passò al manicheismo, in cui fino a 28 anni fu semplicemente «uditore», anche se fervido propagandista: «Eravamo sedotti e seducevamo»​​ (Conf.​​ IV, 1,1). Insegnò retorica a Cartagine, a Roma e a Milano. Dopo nove anni, riconosciuta la fragilità del sistema manicheo, a Milano cadde nello scetticismo e qui lo trovò Monica, sua madre. Iniziò il cammino di ritorno con la sua riflessione e con la predicazione di Ambrogio: credette in Dio, nella spiritualità dell’anima, accettò l’autorità della Chiesa e, meditando Paolo, scoprì la mediazione di Cristo redentore, fonte della grazia. Aveva vinto così il naturalismo con somma gioia di Monica: aveva 32 anni​​ (Conf.​​ VII,21,27).

Dal battesimo al sacerdozio​​ (386-391). L’abbandono di ogni sogno di gloria terrena e la scelta della verginità coronò la conversione. Si ritirò a Cassiciaco (l’odierna Cassago?) con Monica, Adeodato, il fratello, Alipio e altri, vivendo tra orazione, lavoro e studio; si preparò al catecumenato e al battesimo. Ritornando a Milano nel marzo seguente, sabato santo (24-25 aprile) insieme al figlio e ad Alipio fu battezzato: «E fummo battezzati e fuggì da noi ogni affanno della vita trascorsa»​​ (Conf.​​ IX,6,14). Egli ricorderà sempre Ambrogio «Che venero come padre, perché mi ha generato... in Cristo Gesù»​​ (Contro Jul.​​ 1,3,10). Diretto in patria, raggiunta Roma (a Ostia muore la madre), ritornò a Tagaste, dove condusse vita monastica.

Il periodo del sacerdozio​​ (391-396). Sceso a Ippona nel 391, vi incontrò la sorpresa del sacerdozio, che accettò a fatica. Fondò un monastero, in cui visse con altri come monaco sacerdote. Per volontà del vescovo, e contro l’usanza africana, esercitò il ministero della Parola​​ (Ep.​​ 21). Nel 395-396 fu consacrato vescovo ausiliare, ma nel 397 rimase solo al governo della diocesi di Ippona. Si ritirò nella casa vescovile, che trasformò in monastero di chierici ipponesi​​ (Serm.​​ 355,356). Completò la sua cultura biblico-patristica. In questo periodo scrisse numerose opere esegetiche e teologiche.

Dall’episcopato alla morte​​ (396-430). Crebbe l’attività letteraria, dottrinale e pastorale. Per la chiesa d’Ippona esercitava l’attività della predicazione, sabato e domenica, spesso per più giorni di seguito e anche due volte al giorno; l’udienza episcopale lo occupava notevolmente con cause giudiziarie; intense erano la cura dei poveri e degli orfani, la formazione del clero, l’organizzazione dei monasteri maschili e femminili, oltre che l’amministrazione dei beni ecclesiastici. Per la chiesa africana fu benemerito con la partecipazione ai concili e con i frequenti viaggi a scopo ecclesiale. Alla chiesa universale diede il suo contributo con le controversie dogmatiche, la pubblicazione di numerose opere per confutare i manichei, i donatisti, i pelagiani e i semipelagiani. Ricordiamo le opere​​ Sulla Trinità, La Città di Dio, Genesi alla lettera, Commento a Giovanni, Esposizioni sui salmi, Lettere, Discorsi,​​ di cui rimangono circa 570, fonti preziose per conoscere la sua azione pastorale, anche giovanile. Mori il 28 agosto del 430 a Ippona, durante l’assedio dei Vandali.

 

2.​​ Agostino e la pastorale dei giovani

Accettò riluttante il peso del ministero sacerdotale ed episcopale per la responsabilità che implicava e per il contrasto, per lui irriducibile, tra ideale contemplativo e quello di lavoro apostolico. Ubbidì, anche se piangendo, alla volontà di Dio. «L’amore della verità ricerca la quiete della contemplazione, la necessità dell’amore accetta l’attività dell’apostolato»​​ (De civ. Dei​​ 19,19). La preoccupazione sua era anche basata sulla situazione storica: nel IV-V secolo, in Africa, una città quale Ippona aveva un porto, in cui approdavano forestieri di ogni specie, piazze quali luoghi d’incontro di cittadini colti e di gente venuta dalla campagna; poteva vantare una popolazione affettuosa, ma rozza, disunita sul piano sociale e religioso (A. Trapè,​​ S. Agostino, l’uomo,​​ p. 187-188). Tutta l’azione di Agostino sacerdote e vescovo comunque è dominata da un intento pastorale (G. De Plinval). Il suo biografo, discepolo e poi collega nell’episcopato, scrisse di lui che «fu un membro esimio del Corpo del Signore, sempre sollecito e vigilantissimo per il bene della Chiesa universale» (Possidio,​​ Vita di Agostino​​ 18,6).

L’aspetto pastorale della vita di Agostino è bene illustrato da F. van der Meer,​​ S. Agostino pastore d’anime.​​ Non esistevano nella chiesa antica, né in quella medievale, strutture ecclesiastiche organizzative specifiche per i giovani, la cui formazione cristiana aveva luogo nella famiglia e nella vita liturgica insieme al popolo dei fedeli. Possiamo tuttavia individuare nell’azione pastorale di Agostino linee di pastorale orientate ai giovani e prim’ancora una disposizione interiore che lo portavano con fine intuito pedagogico ai giovani. Qualche mese dopo il battesimo riconosceva nella Chiesa cattolica la guida di ogni categoria di persone: «Tu guidi e istruisci i fanciulli con semplicità, con forza i giovani, con serenità gli anziani, tenendo conto dello sviluppo non solo fisico ma anche spirituale di ciascuno. ... Tu, sottomettendo i figli ai genitori, li guidi ad obbedire spontaneamente; e preponendo i genitori ai figli, insegni loro a comandare con trepido amore»​​ (De mor. Eccl. cath.​​ 1,30,63). È significativo rilevare in primo luogo il giudizio che Agostino dà di sé stesso, quando adulto ripensa alla sua fanciullezza e giovinezza.

 

2.1. L’ottica retrospettiva nelle Confessioni

Egli conobbe da giovane uno sviluppo carico di tensioni. Le Confessioni costituiscono, oltre che una lode a Dio, anche un diario retrospettivo, un dialogo appassionato con sé stesso (W. Jentsch,​​ Handbuch,​​ p. 103). Vi si trova descritta, forse per la prima volta nella storia della Chiesa, la storia della genesi della fede in un giovane. Divenuto pastore, egli sarà ancora sotto l’influsso di questa sua esperienza personale. Non deve perciò sfuggire il rapporto tra la sua conversione e la sua successiva cura pastorale specie quella verso i giovani.

 

2.1.1. Il giovane Agostino e l’esperienza spirituale

È da rilevare il ruolo di primo piano che la madre sua, Monica, ebbe nella sua formazione (come lo ebbe Antusa per il Crisostomo) e il ricordo vivo che ne ebbe Agostino per sempre (1,7,11), anche se da adulto lamenterà la solitudine in cui venne a trovarsi a 16 anni in età pubere (11,2,3). A Milano il giovane Agostino perverrà alla conversione sotto la guida di consiglieri spirituali (VIII,6,13ss). Non è né facile né breve presentare le deduzioni pedagogico-pastorali di Agostino dalla sua dottrina teologica, soprattutto perché la eccezionale unitarietà della sua personalità lo spingeva a unire teoria e prassi, teologia e vita, così come altrettanto arduo è collegare la sua esperienza spirituale giovanile con la sua pastorale ai giovani. Sta di fatto comunque che egli fu grande teologo, mistico e grande pastore al tempo stesso: le sue concezioni teologiche vengono da lui trasposte nella sua intensa azione pastorale (W. Jentsch,​​ ivi,​​ p. 105). In un tempo in cui la pedagogia classica era pervenuta al suo termine, Agostino in occidente (come il Crisostomo in oriente) si colloca all’interno della stabile forza pedagogica della Chiesa, in qualità di guida del cristiano e, non ultimo, del giovane, anche se, dato lo spessore della paideia greca, egli non poteva rimpiazzarla del tutto con le nuove idee cristiane (O. Pasquato,​​ Educazione classica,​​ p. 24-32).

 

2.1.2. Il giovane Agostino e l’esperienza pedagogica

«Sebbene non abbiamo nell’opera di Agostino né una storia dell’educazione, né un trattato di pedagogia o di didattica, sembra legittimo prendere in essa notizie e giudizi sopra la scuola di quell’età» (M. Pellegrino,​​ Aspectospedagogicos,​​ p. 53). Agostino fu inviato a scuola a 7 anni (1,9,14); il programma preparatorio alla grammatica era di «imparare a leggere, a scrivere e a computare» (1,13,20) e di apprendere i primi elementi della lingua latina e greca (1,14,23). Dagli 11 o 12 anni fino ai 15 a Madaura frequentò la scuola di grammatica (11,3,5) in cui, tra l’altro, si leggevano gli autori classici: Agostino vescovo deplora questi studi per le letture scandalose che vi si facevano (1,16,25-26). Anch’egli, come il Crisostomo, giudica negativamente la scuola, specie per la finalità vanagloriosa (1,12,19) di preparare i giovani a una brillante carriera, fonte di ricchezza (1,9,14); deve anche rimproverare a sé stesso di preferire il gioco e gli spettacoli agli studi. Il metodo mnemonico usato per apprendere gli riusciva odioso: l’«uno più uno due, due più due quattro: era una cantilena odiosa per me» (1,13,22).

Circa i castighi, Agostino ne ammette la legittimità, se sono necessari (1,9,15) e, pur confessando la sua disubbidienza a genitori e a maestri, concludeva che sbagliavano sia questi, spingendo allo studio per scopi di vanagloria, sia egli stesso, che rifuggiva dallo studio per fini parimenti riprovevoli (1,12,19). I castighi erano una prassi usuale​​ (Senn.​​ 70,2), anzi questi «tormenti degli scolari»​​ (Opus Imperf.​​ VI,9)​​ fanno parte del bagaglio di miserie della vita, quali conseguenze del peccato originale. Finisce però coll’accettarli in linea con la Scrittura, e come il mezzo punitivo usato «dai maestri delle arti liberali, dai padri medesimi, e spesso dai vescovi anche nei loro tribunali»​​ (Ep​​ 133,2). Al progresso nello studio riesce però più efficace lo stimolo dell’interesse cordiale e sentito che i castighi. Allo studio della grammatica seguì lo studio della retorica, per cui a 16 o 17 anni venne a Cartagine (III,1,1), ove studiò con appassionato impegno più che i compagni, dissipati e tumultuosi. È più severo il suo giudizio su questi studi che sui precedenti: egli tendeva a eccellere «col fine riprovevole e vano di soddisfare la vanità umana» (III,4,7) in una splendida carriera forense. Allorché in seguito, alla luce della fede, comprenderà che la salvezza non sta nella retorica (VIII,2,5), ma nel verbo, affermerà che è questo che «fa parlare le lingue dei fanciulli» (VIII,5,10; cf Sap 10,21).

Superficiale in religione, non omette che da ragazzo pregò il Signore per il buon esito degli studi, così come da bambino lo aveva pregato per non essere percosso: «Incontrammo allora, o Signore, uomini che pregavano, e da essi, secondo l’infantile possibilità di quei giorni, appresi che tu sei qualcosa di grande, che puoi, anche senza apparire ai nostri sensi, esaudirci e aiutarci, per cui fanciullino cominciai allora a invocarti, o aiuto e rifugio mio; e scioglievo, per invocarti, i nodi della mia lingua; e, piccolo, ti pregavo, ma non con piccola angoscia, di non essere percosso nella scuola» (1,9,14).

Quanto alla sua vita morale riconosceva i propri errori: «Così piccolo fanciullo, così grande peccatore!» (I,12,19). Individua nel mancato sostegno familiare una delle cause delle sue cadute (II,3,7), cui non erano estranei l’ozio e la passione del teatro: «Mi attiravano gli spettacoli teatrali» (III,2,2). Si unì in concubinato con una donna innominata, che gli diede un figlio; ma continuò a studiare con successo. A 19 anni, «seguendo l’ordine usato nell’insegnamento di tali studi», lesse l’Ortensio​​ di Cicerone (III,4,7), che lo introdusse in quella crisi che la lettura di un altro libro, la​​ Lettera ai Romani,​​ a Milano, avrebbe concluso.

 

2.2. La teoria pedagogico-pastorale di Agostino

Oltre che in altre opere, non esclusi i​​ Discorsi,​​ essa si trova soprattutto nel​​ De Magistro​​ e nel​​ De Catechizandis rudibus.

 

2.2.1. Ruolo del maestro umano e del maestro interiore: il De Magistro

L’appassionata ricerca della verità in Agostino è tesa alla scoperta della beatitudine nella verità. È appunto la visione del fine, cui il discepolo deve orientarsi, che stabilisce il rapporto tra maestro e discepolo. I due interlocutori sono Dio e l’uomo e la sapienza è la ricerca orientata a conoscere in modo fruitivo Dio, luogo della beatitudine. Rientra qui il problema della comunicazione semantica, secondo cui si rende necessario verificare l’efficacia didattica del linguaggio nel rapporto maestro-discepolo. Per Agostino la parola ha la natura di segno (De Mag.​​ II), ma egli pare insinuare che nulla è possibile insegnare con i segni e le parole, anche se non nega l’utilità dell’insegnare, né le situazioni concrete del discepolo (T. Gregory). All’interno del discorso, precisamente, del ruolo del maestro umano si evidenziano i limiti costitutivi di una comunicazione didattica realizzata in termini di linguaggio: «Con le parole non si imparano che parole»​​ (ivi,​​ XI,36). Ciò si verifica specie a livello di concetti; pertanto si esige una loro verifica reale alPinterno di noi: «Circa le cose intelligibili noi consultiamo non colui che parla, che risuona dall’esterno, ma la stessa verità che presiede all’interno della mente, forse da quelle parole ammoniti a consultarla. E colui che è consultato insegna quello che è detto il Cristo che abita nell’uomo interiore, cioè l’immutabile (virtù) di Dio e sempiterna sapienza. Sapienza che ogni anima razionale certamente consulta, ma che a ciascuno tanto si rivela, quanto dalla sua buona o cattiva volontà è permesso»​​ (ivi,​​ XI,38). Cristo si fa maestro interiore che unisce tutti quelli che sono fatti condiscepoli suoi. E l’intendere diviene un farsi «interiormente discepolo della verità»​​ (ivi,​​ XIII,41).

Ne deriva che il ruolo del maestro umano è solo quello di insegnare il metodo per scoprire la verità latente all’interno di ogni discepolo, detentore come il maestro della stessa luce di verità. Il maestro umano ha il compito di avviare il discepolo a vivere la sua stessa esperienza sapienziale. «L’opera del maestro perciò è un’azione di amore: condurre il discepolo ad amare la luce, a desiderare vivamente la verità: quella funzione che gli era negata o almeno limitata sul piano intellettuale, ora gli viene rivendicata sul piano affettivo e volitivo: sul piano propriamente spirituale. ... Donde lo sforzo veramente educativo del maestro, per ricercare le parole esatte, per sintonizzare, per così dire, gli accenti linguistici sulla lunghezza d’onda d’ascolto del discepolo e per creare l’interesse al conoscere» (A. Lombardi,​​ S.​​ Agostino educatore,​​ p. 73). La prassi di Agostino sarà la trasposizione perfetta di questa storia.

 

2.2.2. Un manuale di metodologia catechistica: il «De Catechizandis rudibus»

Dei suoi 27 capitoli, i primi 15 sono teorici, i rimanenti pratici (due esempi); esso è la risposta di Agostino a un diacono di Cartagine, catechista scoraggiato, incaricato di accostare i «rudes» o principianti pagani, anche colti, e desiderosi del contenuto essenziale del cristianesimo: unico esempio patristico nel suo genere. L’operetta si compone di tre fasi:​​ Racconto​​ (narratio): con metodo storico-globale si presenti la storia della salvezza dall’inizio della Genesi​​ (narratio piena),​​ mediante fatti essenziali​​ (mirabiliora),​​ mentre i secondari solo a rapidi cenni (III,5): emergeranno i nodi della storia della salvezza​​ (articuli temporis),​​ di cui il principale è «l’evento Cristo», sintesi degli altri e anche la continuità tra AT e NT: «L’AT è il velo del NT e nel Nuovo si manifesta l’Antico» (IV,8). Fine della rivelazione è la​​ charitas,​​ finalizzazione della​​ narratio,​​ in modo che «chi ti ascolta, ascoltando creda, credendo speri, sperando ami» (l.c.). Apice della​​ Charitas​​ divina è Cristo: la Scrittura «narra Cristo e spinge ad amare» (l.c.).

Aprire alla speranza​​ (cohortatio): è la «speranza della risurrezione» (VII, 11): «Sarà difficile a Dio ... restituire al tuo corpo l’insieme dei due elementi, se egli ha potuto crearlo, quando non esisteva?» (XXV,46). La storia della salvezza va pertanto dalla creazione alla risurrezione. Si stabilisca il nesso tra catechesi e vita, anzi si dilati l’orizzonte alla storia universale e ultima: «Le due città» ora sono mescolate secondo il corpo, ma distinte secondo lo spirito; in futuro, nel giorno del giudizio saranno separate anche secondo il corpo» (XIX,31). La speranza del​​ rudis​​ è Cristo risorto, motore della storia.​​ Procurare gioia (Hilaritatis comparano)-,​​ la gioia contro la noia è necessaria al catechista come pure al catechizzando. Agostino espone sei elementi contro la noia, indicandone altrettanti rimedi (X-XV). Deriverà che «(i catechizzandi) pronunciano, per così dire, per bocca nostra le cose che ascoltano; e noi apprendiamo da essi, in certo modo, le cose che insegniamo» (XII, 17). Attenzione all’ascoltatore: «A seconda della varia espressione (del catechizando) il mio discorso prende avvio, procede e termina», secondo la carità (XV,23).

L’opera esercitò notevole influsso in Cassiodoro (sec. IV), Isidoro di Siviglia (sec. VII), Alcuino e Rabano Mauro (sec. IX), Petrarca, Erasmo, Vives, poi in Fleury fino ad oggi. C’è chi la ritiene un manuale di catechetica generale (Capelle, Michel, Seage; notiamo che solo 9 paragrafi su 55 sono di catechetica generale...), chi una teoria di catechesi di prima iniziazione (Van der Meer, Busch, Bareille, H. Leclercq, Combès, Farges). Chi vi coglie la​​ narratio​​ della storia della salvezza come idea centrale, chi invece la manifestazione della Chiesa, rilevando la disposizione del contenuto dottrinale in chiave kerigmatica, non fondatamente (G. C. Negri), chi vi vede infine con maggior ragione la presentazione della​​ charitas​​ divina in Cristo (Istace, C. Oggioni, Trapè).

 

2.3. L’azione educativo-pastorale di Agostino

Egli fu e si sentì sempre pastore ed educatore, espose e attuò i principi di una pedagogia profonda e affascinante fin da quando, ventenne appena, a Tagaste nel 374 aprì la prima scuola di grammatica.

 

2.3.1. Le disposizioni interiori

Nel fatto educativo-pastorale giocò un ruolo decisivo l’indole, la ricchezza della sua umanità e della sua esperienza, i suoi atteggiamenti interiori, in primo luogo l’appassionata ricerca della sapienza (fin dai 19 anni): «Non coglierai la verità, se non sarai entrato con tutta l’anima nella filosofia (= ricerca intellettuale, orientamento religioso, sforzo ascetico)» (Contro Acad.​​ 11,3,8). Le​​ Confessioni​​ ne sono la spiegazione, tra cui per esempio la descrizione della svolta spirituale alla lettura dell’Ortensio​​ di Cicerone (111,4,7-8). In secondo luogo viene la purificazione dell’animo (X) e l’umiltà nella ricerca, effetto dell’esperienza dell’errore e della persuasione che la verità è un bene comune, pubblico. Il desiderio del vivere insieme è motivato dal «cercare insieme, concordemente». «Infatti in questo modo sarà facile a chi ha scoperto per primo la verità condurvi gli altri senza fatica»​​ (Solil.​​ 1,12,20). Infine, altra disposizione interiore è l’aspirazione che l’uomo sia discepolo solo di Dio (che è la Verità e la comunica per illuminazione) senza l’aiuto di maestri esteriori: «La soave attrattiva della verità ci induce a imparare; il dovere della carità ci obbliga a insegnare. Dobbiamo dunque desiderare che questo stato di necessità ... finisca, e venga quella felice condizione nella quale tutti saranno ammaestrati da Dio, e solo da Dio» (De octo Dulcit. quaest.​​ q. 3,5).

 

2.3.2.​​ Azione educativa nella scuola

A 20 anni era «gramaticus» a Tagaste e prima, a Cartagine come studente, ebbe una condotta irreprensibile. I coetanei lo giudicavano un giovane «amante della quiete e dell’onestà» (Ep.​​ 93,13,51), da parte sua ambiva di «essere elegante e raffinato» (Conf. III,1,1) . Non partecipava alle imprese degli studenti turbolenti (Conf.​​ 111,3,6). Fallito il suo tentativo di educare gli scolari di Cartagine alla disciplina e all’onestà, abbandona nel 386 Cartagine, dove aveva aperto nel 376 una scuola di retorica, per trasferirsi a Roma. L’intento educativo era presente in lui già prima di convertirsi. Infatti a Cartagine era riuscito ad allontanare dai giochi del circo Alipio, suo allievo, che era stato presente a una sua lezione, in cui con un paragone preso dai giochi del circo il maestro ne aveva schernito i frequentatori. Da allora Alipio «mi prese per maestro», asserisce Agostino​​ (Conf.​​ V,7,11-12). Fin d’allora nel suo insegnamento Agostino non disgiungeva le regole della retorica da quelle della sapienza (A. Trapè, S.​​ Agostino educatore,​​ p. 27). A Cassiciaco a due giovani studenti, che contendevano per vanagloria in una discussione filosofica, disse: «Se spontaneamente mi chiamate maestro, ricompensatemi: siate buoni»​​ (De ordine​​ 1,10,29).

 

2.3.3. Relazioni epistolari con i giovani

In esse Agostino rivela fine sensibilità educativa e profonde disposizioni interiori alla formazione dei giovani. I suoi interventi, sebbene sempre appropriati, sortiscono esiti diversi. Nel caso di​​ Licenzio,​​ geniale ma superficiale, già suo allievo a Cassiciaco, che, tornato in Africa e abbandonato Agostino, gli aveva inviato un lungo poema chiedendo il suo aiuto (Ep.​​ 26), Agostino gli risponde con cordiale affetto esortandolo a consacrare a Dio l’«ingegno d’oro» e a non seppellire i doni divini sotto il tumulto delle passioni: fu lezione sprecata.

Esito positivo ebbe invece la sua risposta a una lettera del giovane​​ Leto,​​ tentato di abbandonare la vita religiosa e sacerdotale per accondiscendere alla madre. Il giovane ottemperò all’invito incisivo e lucido di Agostino: «Uccidi le ragioni di tua madre con la parola della salvezza, perdi in questo senso tua madre, affinché la ritrovi nella vita eterna... La Chiesa è madre anche di tua madre» (Ep.​​ 243,6-8).

In linea ancora con la disposizione interiore di Agostino è la risposta che questi invia a​​ Fiorentina,​​ una giovane che, per mezzo della madre, gli aveva fatto conoscere il desiderio di avere da lui risposte su problemi di vita cristiana. La sollecita risposta di Agostino, con cui la esorta ad esporgli i suoi problemi, include pure il riconoscimento umile della conoscenza del cristiano che di fronte all’ignoranza di cose necessarie o ottiene da Dio la grazia d’apprendere ciò che non sa, oppure deve rivolgersi a Dio, unica fonte di verità: «Ti risponderò per dirti a chi dobbiamo tutti e due rivolgerci per imparare ciò che tutti e due ignoriamo» (Ep.​​ 266,1). «Io infatti non sono un dottore perfetto, ma un dottore che si va perfezionando insieme a quelli ai quali insegna. ...in verità, sarebbe molto meglio che tutti fossimo discepoli solo di Dio; ciò che certamente avverrà nella patria celeste, quando si compirà in noi quanto ci è stato promesso». Mettendosi a disposizione della giovane, Agostino conchiude: «Perché, tuttavia, tu ritenga fermissimamente che, quantunque potrai imparare da me qualcosa di utile alla salvezza, ti sarà maestro Colui che è il maestro interiore dell’uomo interiore, Colui che nella tua mente ti mostra che è vero ciò che viene insegnato»​​ (Ep.​​ 266,2). Un posto speciale occupa la nota lettera a​​ Dìoscoro (Ep.​​ 118), vero trattateli di pedagogia cristiana a un giovane studente e che sottolinea l’umiltà e la sapienza del cristiano. È risposta a una lettera​​ (Ep.​​ 117, nell’epistolario di Agostino, scritta forse nel 410) di un giovane greco di nascita, studente di «humanae litterae» in Africa e della cui conversione Agostino scriverà ad Alipio​​ (Ep.​​ 227, del 429).

Nella sua lettera Dioscoro aveva presentato ad Agostino molti quesiti intorno ai​​ Dialoghi​​ di Cicerone, pregandolo di rispondergli «senza indugio», perché era in procinto di partire per mare e temeva che, se venisse interrogato colà su tali questioni, non avrebbe saputo rispondere e perciò «sarebbe giudicato un ignorante e uno stupido». Agostino risponde:

1. (1,1-2,12) — Un vescovo non può aver tempo di «spiegare le questioncelle dei Dialoghi di Cicerone a uno studentello» (1,2). Tuttavia gli risponderà, non per risolvere i quesiti inviatigli, ma per «strappare da un legame infelice la tua felicità che tu fai dipendere dal giudizio malsicuro e instabile degli uomini, e per legarla a un cardine assolutamente stabile e inconcusso» (1,3) ...«sul quale edificare la dimora della tua pace» (1,6). Agostino, che «una volta vendeva (codeste) ciance ai ragazzi​​ (Conf.​​ IV,2,2) non desidera «che tu sia ancora un ragazzo, e a me non s’addice più di essere né venditore, né largitore di bagattelle puerili» (2,9). Per insegnare la «dottrina cristiana», unica via alla «speranza della salvezza eterna», non c’è bisogno di conoscere i dialoghi di Cicerone (2,11). Se mai diamoci pensiero «degli eretici che si mascherano sotto il nome di cristiani, anziché di Anassagora e di Democrito» (2,12).

2. (3,13-16) — Agostino discute del fine degli studi e del bene sommo, la cui conoscenza non deve essere differita «nemmeno nel programma ben ordinato dei tuoi studi, soprattutto all’età a cui sei giunto». «Chi infatti cerca come arrivare alla felicità, in realtà non cerca altro che dove risiede la somma perfezione del bene»; in essa «è la gioia più serena dell’amore più completo» (3,13).

3. (3,17-22) — Agostino esorta Dioscoro ad abbracciare la filosofia cristiana, che, unica, ci può far comprendere l’umiltà di Cristo: «A Cristo, caro Dioscoro, vorrei che ti assoggettassi con la più profonda pietà e che, nel tendere alla verità e nel raggiungerla, non ti aprissi altra via che quella apertaci da lui il quale, essendo Dio, ha veduto la debolezza dei nostri passi. La prima via è l’umiltà, la seconda è l’umiltà e la terza è ancora l’umiltà» (3,22).

4. (4,23-31) — Rassegna delle sentenze dei filosofi intorno a Dio e il giudizio di Agostino: «Proprio per insegnare quest’umiltà necessaria alla salvezza, nostro Signore Gesù Cristo umiliò sé stesso: a questa umiltà s’oppone una, chiamiamola così, ignorantissima scienza (quella dei filosofi ionici)» (4,23).

5. (5,32-35) — Gesù Cristo è la verità personificata, cui interi popoli ormai aderiscono. «...il Signore ... ha munito come di una roccaforte l’autorità della Chiesa» mediante numerosissime comunità e l’ha dotata di mezzi di difesa che sono le argomentazioni irrefutabili di persone «piamente istruite e veramente spirituali» (5,32). Agostino conclude asserendo: «Quanto più progredirai nella verità, tanto più apprezzerai la mia esposizione: allora apprezzerai pure questo mio proposito che adesso ritieni poco utile ai tuoi studi» (5,34).

 

2.3.4. Pastorale catechistica

Ai principianti,​​ cf i due esempi in​​ De cat. rud.​​ (XVI-XXV-XXVI-XXVII) tra racconto ed esortazione alla speranza. Per le altre categorie ci sono i​​ sermones.

Ai catecumeni: consegna del Simbolo (pactum fidei)​​ (Serm.​​ 212,1; 214,12) contenente​​ «breviter...​​ tutto ciò che credete»​​ (Serm.​​ 212.1) ; «Symbolum est breviter complexa regula fidei» (Serm.​​ 213,1): Scrittura e Tradizione. Agostino espone la verità su Dio Padre, il Verbo Incarnato «in forma servi», ma glorioso in cielo, lo Spirito S.: «Haec Trini tas unus Deus est» (Serm.​​ 212,1), su la Chiesa, casta come Maria e peccatrice nei figli, infine «finis sine fine erit resurrectio carnis» (Serm.​​ 213,9). Il Simbolo prima trasmesso (Traditio Symboli),​​ imparato a memoria, scritto solo nel cuore, deve essere «reso» recitato a memoria (Reddìtio Symboli): «Singuli hodie reddidistis» (cf​​ Serm. In redditione Symboli​​ 215,1-9).

Ai​​ «competentes», iscritti per prepararsi al battesimo: catechesi morale sui doveri cristiani: «Noi spargiamo la semente della parola, voi rendete i frutti della fede» (Serm.​​ 216,1) per osservare il «patto» e tendere alla vita eterna: «Ut competentes competenter adolescite in Christo, ut in virum perfectum iuveniliter accrescatis» (ivi,​​ 7).

Ai neofiti (infantes,​​ nati a Cristo,​​ Serm. 228.1): la storia del pane e del vino viene rapportata alla storia dei neofiti battezzati e cresimati (mistagogia): «Poi c’è stato il battesimo e siete stati come impastati con l’acqua per prendere la forma del pane. Ma ancora non si ha il pane, se non c’è il fuoco. E che cosa esprime il fuoco, cioè l’unzione dell’olio? Infatti l’olio, che è alimento per il fuoco, è il segno sacramentale dello Spirito S. (Serm.​​ 227,1). «Abbiamo loro spiegato il sacramento dell’Orazione del Signore, con cui debbono pregare; e così anche il sacramento del fonte e del battesimo» (Serm.​​ 228,3). Così la mistagogia circa l’eucaristia: «Dovete conoscere ciò che avete ricevuto, ciò che riceverete, ciò che ogni giorno dovrete ricevere» (Serm.​​ 227). «Ciò che vedete è il pane e il calice: ve lo annunciano anche i vostri occhi; ma per la vostra fede ...il pane è il corpo di Cristo, il calice è il sangue di Cristo» (Serm.​​ 272.1) . Sbocco finale è l’unità: «Se avete ricevuto bene, voi stessi siete ciò che avete ricevuto» (Serm.​​ 227). «Siate ciò che vedete, e ricevete ciò che siete» (Serm.​​ 272,1). «Chi riceve il mistero dell’unità, e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero a suo favore, ma un testimonio a propria condanna» (Ivi).

Ai fedeli: è la catechesi postbattesimale o permanente che troviamo, oltre che in vari discorsi che meriterebbero di essere individuati con cura, nel​​ De agone christiano liber 1,​​ manuale per i fedeli con spiegazione del Simbolo e precetti morali, in «humili sermone», contenente «regulam fidei et praecepta vivendi» (Retract.​​ 2,3).

 

2.4. Fondamenti e condizioni della pastorale anche giovanile

È possibile individuare alcune linee di fondo in Agostino circa la sua pastorale.

 

2.4.1. La missione

Sull’idea di missione Agostino costruisce la sua teologia pastorale (M. Pellegrino,​​ S. Agostino pastore,​​ p. 319). Unico pastore nella Chiesa è Cristo, pastore invisibile, di cui i pastori visibili sono membra; egli al tempo stesso si fece pecora immolata per noi (7>.​​ in Gv.​​ 46,5.7). Pertanto la fecondità dell’azione dei pastori è rinviata all’azione interiore di Cristo nelle anime: «Noi parliamo dall’esterno, egli costruisce nell’interno. ... È lui che edifica...; e tuttavia anche noi, come operai, lavoriamo»​​ (En. inps.​​ 126,2). I buoni pastori fanno una cosa sola con Cristo, come Pietro che ricevette il primato, perché amava Cristo e divenne così una sola cosa con lui (unità nella carità): «(Cristo) voleva affidare a lui le pecore, in modo che egli fosse il capo, egli portasse la figura del corpo, cioè della Chiesa e, come lo sposo e la sposa, fossero due in una sola carne» (Serm.​​ 46,30). Ne deriva che la missione pastorale si attua solo nella chiesa. «La Chiesa generò dei figli, li costituì, al posto dei loro padri (apostoli), principi su tutta la terra» (En .in ps.​​ 44,32).

 

2.4.2. L’anima della pastorale

È la carità in linea con Paolo (Fil 2,21): «Agostino cercava non le proprie cose, ma quelle di Gesù Cristo» (Possidio,​​ Vita di Agostino,​​ 21,1). «Non siamo vescovi per noi, ma per coloro ai quali dispensiamo la parola e il sacramento del Signore» (Contro Crescono​​ 11,13). Il pastore testimonia il suo amore a Cristo col pascere le sue pecore (Serm. Denis​​ 12,1). Così unito a Cristo il pastore si nutrirà del nutrimento di Cristo e con esso alimenterà il suo gregge: «Se vi dico qualcosa di Cristo, perciò questo vi pasce, perché è di Cristo, perché è il pane comune, di cui pure io vivo, se vivo» (Serm. Guelf.​​ 29,4) . Per Agostino la cura pastorale trae il proprio significato dall’unica mistica fra Cristo e i fedeli, tra il capo e le membra, il pastore e il gregge: un esempio concreto egli l’ha esposto nell’operetta già presentata​​ De catechizandis rudibus.​​ Se poi la carità del pastore sia finalizzata a Cristo o ai fratelli risulta, dopo quanto detto, domanda superflua (M. Pellegrino, S.​​ Agostino pastore,​​ p. 332). Per Agostino, inoltre, la carità è una forma di castità dell’anima che ama Dio, suo sposo, senza ricercare sé stessa (Serm.​​ 137,10). Alla carità egli accompagna l’umiltà. Il pastore deve imitare l’umiltà di Cristo, che è la porta ed è umile: chi entra per questa porta deve umiliarsi (abbassarsi), se non vuole rompersi la testa (7>.​​ in Gv.​​ 45,5). Pur al di sopra dei fedeli per la dignità episcopale, il vescovo rimane loro «compagno di lavoro» (cooperatore;​​ Serm.​​ 49,2), un «conservo»​​ (Serm. Guelf.​​ 9,4): «Per voi siamo come dei pastori, ma, sotto quel pastore, siamo con voi delle pecore. Da questo posto, siamo per voi come dei maestri, ma, sotto quell’unico Maestro, in questa scuola siamo vostri condiscepoli» (En. inps.​​ 126,3). E ancora: «Mentre mi sgomenta ciò che sono per voi, mi conforta ciò che sono con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano: quello è il titolo di un impegno ricevuto, questo invece titolo di grazia; quello fonte di pericolo, questo fonte di salvezza»​​ (Serm.​​ 340,1). Si avverte il timore d’essere pastore e la gioia di essere cristiano (A. Trapè,​​ Il sacerdote,​​ p. 128).

 

2.4.3. Modalità degli interventi pastorali

Primo impegno del pastore è la testimonianza: imitare Cristo per farlo imitare dagli altri​​ (Serm.​​ 47,12). Importantissimo è lo zelo per la predicazione: la Parola di Dio è il pane che il vescovo, servo di Dio, accosta alle anime​​ (Serm.​​ 339,4). La Parola di Dio può venire fraintesa: «Vedete come sia pericoloso udire, se non s’intende»​​ (Serm.​​ 128,7). Il predicatore quindi è colui che schiude il significato esatto della Scrittura: «Noi siamo i vostri codici»​​ (Serm.​​ 227). Egli deve poi essere coraggioso nel presentare la Scrittura, anche nei suoi testi più esigenti; tacere sarebbe da mercenario e Agostino non tace: «Potrei tacere, ma ho timore di tacere. Sono costretto a predicare. Atterrito, atterisco. Temete con me, per poter gioire con me»​​ (Serm.​​ 40,5) .

Il predicatore deve inoltre saper discernere i destinatari: «A tutti è dovuta la medesima carità; ma non a tutti è da somministrare la medesima medicina»​​ (De cat. rudibus​​ 23). La predicazione di Agostino era popolare, alla portata di tutti, anche dei ragazzi, familiare, comunicativa: «Preferisco essere criticato dai grammatici che non essere compreso dal popolo»​​ (En. in ps.​​ 36;​​ Serm.​​ 3,6). Il popolo lo ascoltava reagendo, applaudendo, interrompendo e al di là delle parole coglieva il cuore di Agostino: «Che cosa voglio, che cosa desidero, che cosa bramo, perché parlo? Perché qui siedo, perché vivo? Se non perché tutti viviamo insieme con Cristo?... Non voglio essere salvo senza di voi»​​ (Serm.​​ 17,3).

Oltre che predicatore, egli fu un esemplare celebrante: celebrava catechizzando e catechizzava celebrando (cf O. Pasquato,​​ Rapporto tra catechesi e liturgia,​​ pp. 61-64). Come il Crisostomo, ha valorizzato al massimo l’eucaristia, luogo privilegiato di pastorale, specie giovanile. L’eucaristia, «vincolo di unità», costruisce la Chiesa, che trova in essa l’idea-chiave per la propria comprensione. Egli si fa celebrante catecheta: la realtà del Corpo mistico (il Cristo totale) è da lui spiegata partendo dalla realtà del pane e del vino​​ (Serm. Denis​​ 6,1-2). I sacramenti gli si rivelano quali segni, perciò cangianti e temporanei​​ (Serm.​​ 57,7,7). «E come il​​ sacramentum​​ della Scrittura gli fa scorgere, al di là della lettera dei salmi, il Cristo e la sua Chiesa, così il sacramento-segno del pane e del vino, simboli di unità, gli fa scorgere il Cristo e il suo Corpo mistico. Appunto in quanto segni i sacramenti esigono di essere oltrepassati, perché venga raggiunta attraverso di essi la realtà significata» (O. Pasquato,​​ Eucaristia e Chiesa,​​ p. 62). Il pane è il Corpo di Cristo (i fedeli): «Se avete ricevuto bene (il sacramento), siete voi che avete ricevuto»​​ (Serm.​​ 227). «Se quindi voi siete il Corpo di Cristo e le sue membra, il vostro mistero è posto sulla mensa del Signore, a ciò che siete rispondete: “Amen” e rispondendo sottoscrivete»​​ (Serm.​​ 272).

La sua teologia pastorale si concretizzava pure nel soccorso ai poveri, agli orfani, alle vedove e ai malati. Donava del suo prima di farsi «ambasciatore dei poveri» presso il popolo​​ (Serm.​​ 61,13; A. Trapè,​​ Il sacerdote,​​ p. 145). Le gioie che egli si ripromette dalla cura pastorale è la vita cristiana dei fedeli: «Tutte le mie ricchezze consistono nella speranza che ho su di voi in Cristo. Non v’è gioia per me, né sollievo, né respiro in mezzo ai pericoli e le prove, se non la vostra vita buona» (Serm.​​ 232,8). Ai fedeli egli chiede l’ascolto, la docilità, l’aiuto (anche materiale), la collaborazione, la preghiera e, in particolare, la imitazione nel fare le veci del vescovo in famiglia, col difendere Cristo, col curare la perseveranza nella fede dei familiari​​ (Serm.​​ 94), con l’influire sui figli, i servi, gli amici allo scopo d’impedire disordini​​ (Serm.​​ 302,19).

La sua azione pastorale è intensa. Pur aspirando alla quiete della contemplazione, deve «invece predicare, rimproverare, correggere, edificare, attendere ai bisogni di ciascuno: è un gran peso, un gran carico, una grande fatica. Chi non rifuggirebbe da questa fatica? Ma mi spaventa il vangelo»​​ (Serm.​​ 339,4) . Fu costretto a scrivere così: «...siamo assillati da tante questioni che a stento riusciamo a respirare»​​ (Ep.​​ 48,1) e «...mi stillano appena pochissime gocce di tempo»​​ (Ep.​​ 110,5).

In questo contesto più ampio della vita del popolo di Dio Agostino, al di là degli specifici interventi verso i giovani presentati sopra, esercitava la sua pastorale anche verso questi insieme agli adulti, in seno a tutta la Chiesa, dove tutti sono figli di Dio.

 

Bibliografia

Fonti:​​ Possidio,​​ Vita di Agostino,​​ a cura di M. Simonetti, Città Nuova Ed., Roma 1977; Agostino,​​ Le Confessioni,​​ Città Nuova Ed., Roma 1965; Id.,​​ Il maestro,​​ a cura dì A. Mura, Ed. Atena, Roma 1965; Id.,​​ La catechesi dei principianti. De catechizandis rudibus,​​ Ed. Paoline, Roma 1984; Id.,​​ Esposizioni sui salmi-, Discorsi,​​ Città Nuova Ed., Roma 1967... (vari volumi); Id.,​​ Antologia pedagogica,​​ a cura di V. Miano, S.E.I., Torino 1958.

Studi:​​ Pasquato O.,​​ I Padri educatori alla fede, pastori e guide del popolo di Dio,​​ in «Credere Oggi»​​ 21-3 (1984) 74-93; Id.,​​ Rapporto tra catechesi e liturgia nella tradizione biblica e patristica,​​ in Riv. Lit.​​ 1 (1985) 39-73; Id.,​​ Eucaristia e Chiesa in Agostino,​​ in Eph. Lit.​​ 102 (1988) 46-63; Trapè A.,​​ Agostino Aurelio, in Bibl. Sanct.​​ I, Soc. Graf. Rom., Roma 1961, coll. 428-596; Id.,​​ Agostino d’I.,​​ in Diz. Patr. eAnt. Crist. I, Marietti, Casale Monf. 1983, coll. 91-104; Van der Meer F.,​​ Sant’Agostino pastore d’anime,​​ Ed. Paoline, Roma 1971; Trapè A.,​​ Il sacerdote uomo di Dio al servizio della Chiesa,​​ Città Nuova Ed., Roma​​ 21985; Id.,​​ S. Agostino. L’uomo, il pastore, il mistico,​​ Ed. Esperienze, Fossano (CN) 1976.

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AGOSTINO

AGOSTINO Aurelio

 

AGOSTINO Aurelio

n. a Tagaste nel 354 - m. a Ippona nel 430, vescovo e scrittore, padre della Chiesa.

1.​​ Vita ed opere.​​ Africano di nascita e romano di lingua, cultura e sentimenti, A. fu educato cristianamente dalla madre Monica, ma da giovane si abbandonò all’orgoglio intellettuale, a deviazioni morali, all’eresia manichea. Insegnò retorica a Cartagine, a Roma e a Milano: ivi, dopo una lunga e tormentata vicenda interiore e profonda riflessione, si riavvicinò al Cristianesimo e nel 387 fu battezzato dal vescovo Ambrogio. Ritornò in Africa e a Tagaste si dedicò a vita ascetica con alcuni amici. Ordinato sacerdote nel 391 e vescovo di Ippona nel 396, fino alla morte esplicò una prodigiosa attività pastorale, dottrinale e letteraria. Scrisse moltissime opere: libri autobiografici (le​​ Confessiones),​​ filosofici (i​​ Dialogi),​​ apologetici (il più significativo è​​ De civitate Dei,​​ proposta di una visione cristiana della storia umana), dogmatici (il​​ De Trinitate),​​ pastorali e pedagogici, monastici, esegetici, polemici (contro manichei, pelagiani, donatisti); inoltre più di 300 lettere, vari trattati (come le​​ Enarrationes in Psalmos)​​ e circa 570​​ Sermones.​​ In riferimento alla pedagogia sono particolarmente importanti:​​ De magistro,​​ De catechizandis rudibus,​​ De doctrina christiana,​​ Epistulae​​ 118 e 266.

2.​​ Il pensiero pedagogico.​​ a) L’esperienza personale di A. influì sul suo pensiero pedagogico. Dapprima ebbe modo di apprezzare l’educazione cristiana ricevuta dalla madre, poi da giovane, frequentando scuole pagane e leggendo autori classici, deplorò le pagine scandalose, l’obiettivo della vanagloria, la vacuità della semplice formazione letteraria, i metodi mnemonici, i frequenti castighi (pur accettati in linea di principio). Soprattutto A. ricercò la verità per tutta la vita, passando attraverso una crisi religioso-filosofica e una crisi morale. Da esse riemerse con la riflessione personale, con la lettura di testi platonici, con l’esempio di cristiani ferventi e specialmente con la preghiera, la meditazione sulla Sacra Scrittura, l’aiuto della grazia divina. b) Il pensiero pedagogico di A. è strettamente connesso con la sua filosofia e teologia, che sono fondate essenzialmente su tre principi: l’interiorità (l’uomo deve rientrare in se stesso per constatare la presenza della verità), la partecipazione (ogni bene è tale o per se stesso o perché deriva dal bene), l’immutabilità (l’essere vero è solo l’essere che non muta, che esclude limitazioni, composizioni e variazioni). c) L’amore, come espressione di pura benevolenza sull’esempio di Dio, è per A. l’anima dell’educazione (Cat. rud.​​ 4). L’educatore dona con gioia e disinteresse, si adatta alle condizioni psicologiche della persona, ispira confidenza (ivi,​​ 10.12); sa rendere efficaci anche la disciplina e il castigo, perché li fa sgorgare dall’amore (Serm.​​ 13,8,9). Egli desidera portare l’educando al pieno sviluppo delle sue possibilità, come una madre che nutrendo il proprio figlio, non vuole che rimanga piccolo, ma che cresca (Serm.​​ 23,3). A sua volta il bambino corrisponde alle cure dell’educatore, facendosi guidare dall’amore per il bene, scopo primario dell’educazione Certamente non si può amare ciò che non si conosce e non si è ancora sperimentato, ma si ama ciò che già si conosce e che si vuole conoscere meglio e perciò si vuole sapere ciò che si ignora (Trin.​​ 10,1,3). d) Finalità dell’educazione è il passaggio dalla vita istintiva a quella razionale (Civ. Dei​​ 22,24). L’educatore la ottiene servendosi di una equilibrata disciplina, proponendo elevati modelli morali e facendo rispettare la gerarchia dei valori. Tale compito spetta principalmente ai genitori nella famiglia e ai vescovi nella comunità cristiana. e) A. presenta acute pagine sulla didattica: insegnare è mostrare e dire. L’insegnante pone in essere segni, azioni, pensieri; richiama alla mente qualcosa conosciuto in precedenza; porta alla consapevolezza dell’allievo elementi a cui questi non prestava attenzione, pur essendo presenti sullo sfondo.​​ Intelligere​​ [comprendere] sarà non solo​​ intus legere​​ [leggere dentro], ma anche​​ inter legere​​ [leggere tra le cose, considerandole insieme] (Conf.​​ 10,11,18). L’abilità pedagogica del maestro opera una giusta connessione tra parole e significato. Il linguaggio esteriorizza ed incarna la parola interiore: così la comunicazione intersoggettiva è possibile se l’ascoltatore «vede le cose con il puro occhio interiore, conosce ciò che io dico con il proprio pensiero e non mediante le mie parole» (Mag.​​ 12,40). f) Non vi è educazione senza l’atto personale di intendere e di giudicare, senza una valorizzazione di se stessi e la conoscenza dell’universo che ci circonda, senza assunzione di responsabilità totale nei confronti di se stessi. g) Infine attraverso i segni delle cose l’uomo si abitua a passare dalle «realtà materiali a quelle spirituali» (Musica​​ 6,2,2). Lo splendore della verità divina è tale che un occhio impreparato non può sopportarne tutta la luce: l’uomo vi si deve disporre contemplando la luce riflessa sulle cose visibili. Dunque «dobbiamo considerare il mondo come mezzo, non come fine per poter contemplare le perfezioni invisibili di Dio comprendendole attraverso le cose create» (Doct. chr.​​ 1,4,4). La comprensione delle cose intelligibili avviene non per mezzo delle parole che risuonano dal di fuori, ma per mezzo della ragione che è sostenuta dalla luce della verità risplendente nell’intimo (cfr.​​ Mag.​​ 12,39). Ciascuno è ammaestrato «dalle cose stesse che gli si manifestano, perché Dio gliele svela nell’interiorità» (Mag.​​ 11,38). Il ruolo del maestro umano è quello di insegnare un metodo per scoprire la verità presente, ma latente all’interno del discepolo: chi insegna veramente è Cristo, l’unico vero maestro interiore, che interpella tutti e ciascuno, che dona la sapienza, intesa come verità da possedere e realtà da amare. L’uomo supera così la propria mutabilità e si apre al trascendente.

3.​​ Influsso.​​ A. trasmise (soprattutto al​​ ​​ Medioevo) i valori della cultura, il gusto per la ricerca, l’ideale di una sapienza cristiana sotto il primato della Scrittura. Pedagogicamente egli pose l’allievo al centro del processo educativo, ne valorizzò la capacità creativa, elaborò una proposta globale di educazione alla fede, configurò l’apprendimento come lo sforzo di ritrovare in se stessi la verità. All’educatore richiamò il dovere di unire ricerca e testimonianza, scienza e vita. Nella visione cristiana dell’uomo, A. ricuperò e rifuse i valori universalmente umani del mondo classico greco-romano.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ le opere di A. sono edite in lat. e tradotte in it. nella collana​​ Opera omnia di s. A.​​ (Nuova Biblioteca Agostiniana), Roma, Città Nuova, 1965ss; Miano V. (Ed.),​​ S. A. Antologia pedagogica,​​ Torino, SEI, 1958. b)​​ Studi:​​ Bellotti G.,​​ L’educazione in Sant’A.,​​ Bergamo, 1963; Kevane E.,​​ Augustine the educator. A study in the fundamentals of Christian formation,​​ Westminster, Newman Press, 1964; Patané L. R.,​​ Il pensiero pedagogico di S. A.,​​ Bologna, Patron,​​ 21969;​​ Sant’A. educatore​​ (Atti della settimana agostiniana pavese, 2), Pavia, Ponzio, 1971; Perrini M.,​​ La paideia cristiana di A.,​​ in «Humanitas» 42 (1987) 3, 355-388;​​ Valenzuela A.,​​ San Agustín de Hipona,​​ teoría y arte pedagógicas,​​ Valparaiso, Ed. Universitarias,​​ 1984; Fabris M. (Ed.),​​ L’umanesimo di Sant’A.,​​ Bari, Levante, 1988; Crosson F. J. et al.,​​ «De Magistro» di A. d’Ippona,​​ Palermo, Augustinus / Città Nuova, 1993; Paffenroth K. - K. L. Hughes (Edd.),​​ Augustine and liberal education, Aldershot, Ashgate, 2000;​​ Galindo Rodrigo J. A.,​​ Pedagogía de San Agustín, Madrid, Augustinus,​​ 2002;​​ Jerphagnon L.,​​ Saint Augustin: le pédagogue de Dieu, Paris, Gallimard, 2002.

M. Maritano

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