POLITICA
Bartolomeo Sorge
1. La politica
1.1. Importanza della politica
1.3. Laicità della politica
1.4. Una duplice accezione di «politica».
2. L’impegno politico del cristiano
2.1. Ispirazione cristiana della politica
2.2. Responsabilità e autonomia politica dei laici
2.3. Pluralismo delle opzioni politiche
2.4. I partiti di ispirazione cristiana
3. L’impegno politico della comunità cristiana
3.1. «Scelta religiosa» e politica
3.3. La formazione dei laici alla politica
3.4. Per una spiritualità della polìtica
Nel dibattito postconciliare il rapporto tra fede e politica è divenuto centrale, non solo a livello di concrete implicazioni pastorali, ma anche a livello di analisi teorica e dottrinale. Cosicché non ci sembra esagerato affermare che come nella coscienza dei nostri giorni, di fronte alla grave crisi della politica, è maturata la convinzione che le conquiste della moderna democrazia potranno essere consolidate soltanto grazie alla sua «risurrezione», nello stesso modo nella coscienza ecclesiale di oggi è maturata ormai la persuasione del rapporto inscindibile che lega tra loro evangelizzazione e promozione umana, fede e politica.
Questa consapevolezza nuova porta con sé tutta una serie di gravi interrogativi e di questioni da chiarire, intorno ai quali non c’è ancora unanimità. Tuttavia, si deve riconoscere che il Concilio e l’ulteriore approfondimento post-conciliare hanno acquisito ormai alcuni punti fondamentali di dottrina e di prassi pastorale, che consentono di indicare, almeno nelle grandi linee, l’identikit di una nuova presenza dei cristiani e della comunità cristiana nel contesto di una società pluralistica e secolarizzata.
Perciò, dopo aver chiarito il concetto e la natura della politica e la sua importanza centrale nella vita sociale e personale di tutti, cercheremo di fare il punto sui più discussi problemi dell’impegno politico del cristiano nel nostro tempo e sulla natura e le prospettive di un rinnovato impegno politico della comunità cristiana.
1. La politica
1.1. Importanza della politica
Uno dei segni del nostro tempo è certamente la riscoperta della politica e della sua centralità nella vita di ciascuno e della società. Dopo lunghi anni di crisi di una politica senz’anima, ridotta a mera ricerca del potere, e di fronte alle funeste conseguenze che una tale crisi ha portato con sé, stiamo assistendo a una vigorosa ripresa di rinnovamento e di impegno. Questa ripresa è particolarmente vivace nel mondo cattolico.
Infatti, ormai è largamente diffusa la consapevolezza che la politica è da considerare come una dimensione intrinseca della stessa esistenza umana, della vita d’ogni giorno. Tutti facciamo quotidianamente l’esperienza che le decisioni politiche, a qualsiasi livello intervengano e da qualsiasi parte siano prese, investono in ogni caso la nostra esistenza personale e comunitaria.
Dunque, l’importanza della politica nasce dalla natura stessa dell’uomo e della società, secondo il volere di Dio creatore: «È evidente — sottolinea il Concilio — che la comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine prestabilito da Dio» (GS 74).
Lungo questa direzione si muove il costante insegnamento della Chiesa. Già Pio XI, in un discorso alla FUCI rimasto famoso, definì la politica come «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore» (Osservatore Romano, 23 dicembre 1927, p. 3). E, ai nostri giorni, il Concilio ha ribadito in forma solenne la stima della Chiesa per la politica: «La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità»; ed esorta che «coloro i quali sono o possono diventare idonei per l’esercizio dell’arte politica, difficile insieme e nobilissima, si preparino e si preoccupino di esercitarla senza badare al proprio interesse e al proprio vantaggio [...], si prodighino [...] al servizio di tutti, anzi, con l’amore e la fortezza richiesti dalla vita politica (GS 75). A sua volta, Paolo VI invita a «prendere sul serio la politica [che] è una maniera esigente — ma non è la sola — di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (OA 46). E, ancora più vicino a noi, il Sinodo sui laici del 1987 ritorna esplicitamente sul tema, aggiungendo che «l’impegno dell’azione sociopolitica dei fedeli si radica nella fede poiché questa illumina la totalità della persona e della sua vita» (Messaggio al Popolo di Dio, n. 11)
In altre parole, il servizio politico, se vissuto con disinteresse e carità, è l’arte più grande, perché attraverso una politica efficace, rettamente impostata, si influisce in modo determinante sulla esistenza umana; e non solo sui problemi che maggiormente affliggono la generazione presente (il lavoro, l’abitazione, la scuola, la salute, il tempo libero...), ma anche sul futuro del Paese e dell’umanità, data l’interdipendenza che ormai ci lega tutti in un unico destino. Le scelte politiche, infatti, non hanno soltanto una portata immediata sui problemi che sorgono giorno per giorno, ma producono effetti a lungo termine, coinvolgendo inesorabilmente le generazioni future.
Tuttavia, l’importanza della politica, pur essendo centrale e determinante, non va assolutizzata. Se «tutto è politica», nel senso che l’esistenza umana non può prescinderne, la politica però «non è tutto» per l’uomo. Certo, la politica assolve il compito di «coagulante sociale» (per dirla con una felice espressione dell’episcopato francese), in quanto serve a far coincidere le diverse attività umane e i diversi soggetti sociali in un progetto comune per la realizzazione del bene di tutti; ma la politica non può assorbire tutte le attività e le esigenze dell’uomo: si esplica, di natura sua, nel relativo (è «l’arte del possibile»!) e non sarà mai in grado di realizzare pienamente le aspirazioni trascendenti dell’uomo, il suo bisogno di Dio, che è quanto di più essenziale la persona umana avverte in sé.
1.2. Fede, cultura, politica
A questo punto, per avere una nozione chiara della natura della politica e delle sue implicazioni pastorali, giova approfondire il tipo di rapporto che intercorre tra fede, cultura e politica. Infatti, pur appartenendo a piani distinti, esse sono strettamente collegate tra loro.
La fede — spiega il Concilio — è l’adesione libera, con la quale l’uomo tutt’intero si abbandona a Dio, prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e acconsentendo alla di lui rivelazione (cf DV 5). Quindi, la fede è un dono soprannaturale di Dio, di origine trascendente.
La cultura invece — spiega ancora il Concilio — è una realtà profondamente diversa: è di origine umana e immanente, appartiene all’ordine naturale (cf GS 53ss). A differenza della fede, che poggia sulla Parola stessa di Dio immutabile ed eterna, la cultura deriva dall’uomo e poggia sugli eventi mutevoli della storia, varia col mutare degli uomini, del tempo e dello spazio.
La fede, dunque, non è una cultura, né può essere «ridotta» a cultura. Eppure la fede non può fare a meno della cultura; e la cultura non ha nulla da perdere, ma tutto da guadagnare, dall’incontro con la fede. Infatti, la rivelazione, alla quale aderiamo con la fede, contiene un messaggio di Dio all’uomo e sull’uomo, che riguarda indiscriminatamente tutti, credenti e non credenti a qualsiasi luogo e tempo appartengano. Perciò, la Parola di Dio, per essere da tutti compresa e liberamente accolta (con l’aiuto della grazia che non manca mai), deve farsi a tutti intelligibile mediante un processo di incarnazione, di traduzione del messaggio rivelato nelle diverse culture. È quel processo di «inculturazione» di cui parla Giovanni Paolo II nella Catechesi tradendae (n. 53), e di cui avevano già parlato (senza però usarne il termine) sia il Concilio (LG 13; AG 22; GS 44), sia Paolo VI nella Evangelii nuntiandi (n. 20). Ultimamente è ritornata ampiamente sul tema anche la Commissione Teologica Internazionale, nel suo documento: Temi scelti d’ecclesiologia in occasione del XX anniversario del Concilio Vaticano II (La Civiltà Cattolica 1985 IV 458-462). Insomma, l’evangelizzazione e il Vangelo non s’identificano con nessuna cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture; però devono ispirarle tutte, affinché il messaggio di Dio, contenente la risposta agli interrogativi ultimi ed essenziali di ogni intelligenza e di ogni coscienza umana (quindi, di ogni cultura), non rimanga muto o incomprensibile. Quest’opera necessaria di inculturazione — spiega ai gesuiti il padre Pedro Arrupe nel Documento sulla inculturazione (14 maggio 1978) — consiste nella «incarnazione della vita e del messaggio cristiano in una concreta area culturale, in modo tale che questa esperienza [cristiana] non solo riesca a esprimersi con gli elementi propri della cultura in questione (il che sarebbe un adattamento superficiale), ma diventi il principio ispiratore, normativo e unificante, che trasforma e ricrea questa cultura» (Acta Romana Societatis Jesu XVII [1977-1979] 229-255).
Ma la cultura — che è l’insieme di valori e di comportamenti di un popolo o di un gruppo — non rimane mai un discorso astratto; si traduce inevitabilmente nelle istituzioni della convivenza civile, nelle strutture della città e dello Stato. Ora, il passaggio dalla cultura alle istituzioni e alle strutture pubbliche avviene attraverso la mediazione politica, la quale viene cosi ad assumere quella importanza centrale che dicevamo, fungendo da anello di congiunzione tra Paese reale e Paese legale, tra progetto e sua realizzazione, tra valori e ideali della gente e programmi dei partiti. Se la politica si corrompe, se l’anello si spezza, allora gli ideali e i valori restano utopia e la prassi politica diviene ricerca del potere, clientelismo, guerra tra correnti, fonte di scandali.
Perciò, se è necessario tenere ben distinti tra loro i piani della fede, della cultura e della politica, tuttavia non è possibile separare l’uno dall’altro. Un nesso inscindibile li tiene legati vicendevolmente: la «coerenza». La fede illumina la cultura, il discorso sull’uomo e sulla storia; a sua volta, l’antropologia ispirata cristianamente diventa l’anima di una prassi politica coerente con i valori della fede. Di conseguenza, come una medesima fede può ispirare culture diverse, senza identificarsi con alcuna, così la medesima fede può ispirare opzioni politiche diverse, senza che alcuna possa rivendicare l’esclusiva di rifarsi pubblicamente ai valori cristiani. L’unica condizione, necessaria e sufficiente che si richiede all’impegno politico del cristiano, è la «coerenza» delle sue scelte con i valori fondamentali della fede e di un’antropologia illuminata da quegli stessi valori.
1.3. Laicità della politica
La diversità del piano della fede da quello della politica e la necessità del piano intermedio delle mediazioni culturali che devono animare la prassi e l’impegno temporale del cristiano, nello stesso tempo, fondano e suppongono la «laicità» della politica.
Il Concilio ha chiarito definitivamente che le realtà temporali (e, tra queste, la politica), per volontà del Creatore, hanno una loro consistenza ontologica, una propria verità e bontà, un ordine proprio, leggi proprie e strumenti specifici, che sono autonomi, non mutuati dall’ordine e dal fine soprannaturale, al quale tuttavia sia l’uomo, sia ogni realtà temporale rimangono sempre orientati come al loro ultimo fine: «È in virtù della creazione stessa che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine. L’uomo è tenuto a rispettare tutto ciò, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola arte o scienza» (GS 36; cf pure AA 31 b).
Ciò significa che dalla fede non si può dedurre direttamente un modello politico di società, di governo o di partito. La fede non offre ricette di organizzazione sociale, politica ed economica. Il Vangelo indica i valori da rispettare e da promuovere, come una bussola indica il Nord, affinché la politica serva veramente all’uomo; impegna i cristiani a incarnare nella storia concreta d’ogni giorno quei valori, a lottare per affermarli e difenderli; non dice, però, attraverso quali vie, con quali programmi, grazie a quali scelte pratiche ciò debba avvenire. La fede, insomma, mentre da un lato spinge i cristiani a non restare passivi o assenti ma a entrare attivamente nella vita sociale e politica, dall’altro lascia intatta tutta la fatica e responsabilità della ricerca, il rischio delle scelte; non si sostituisce alla competenza professionale, che ciascuno invece dovrà procurarsi studiando e operando come tutti gli altri, per poter compiere con cognizione di causa le necessarie mediazioni richieste dalla prassi politica. Queste, dunque, saranno sempre il frutto combinato di una duplice fedeltà: della fedeltà ai valori cristiani ispiratori, e della fedeltà alle regole proprie dell’arte politica, che appartengono all’ordine della ragione e della natura, non derivano direttamente dalla rivelazione soprannaturale.
Questo sano concetto di «laicità» vieta che la «coerenza» con la fede, richiesta ai cristiani operanti in politica, degeneri in confessionalismo o in clericalismo; esclude, cioè, che la politica venga fatta servire a fini diversi da quello che le è proprio: il bene temporale della comunità civile. Non è lecito mettere la politica al servizio degli interessi della Chiesa o considerarla uno strumento finalizzato all’evangelizzazione e alla salvezza delle anime! Il cristiano darà gloria a Dio, contribuirà alla credibilità del vangelo e aiuterà il prossimo a salvarsi, proprio nella misura in cui rispetterà la laicità dei processi politici, mirando a realizzare quel bene comune politico, il quale — come scrive Giovanni XXIII nella Mater et magistra — è «l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (n. 65).
Perciò non basta essere buoni cristiani per essere bravi politici. Per essere insieme e buoni cristiani e bravi politici, occorre essere uomini di sintesi vitale, capace di tradurre la «coerenza» con la fede nella «laicità» e nella professionalità della politica.
1.4. Una duplice accezione di «politica»
Sulla base dei chiarimenti che precedono, è possibile comprendere meglio la duplice accezione in cui il termine e il concetto di politica oggi sono comunemente usati.
In un primo senso, «politica» è intesa nella sua accezione più ampia, culturale, in quanto essa dice una data visione del mondo, dell’uomo e della storia. È la politica che potremmo definire «con la P maiuscola», perché viene prima, sta alla base della prassi po-
litica, cioè dei programmi, dei modelli di governo, dei partiti. Dunque, in senso lato, sono «politica» pure le attività sociali, assistenziali, di volontariato, di iniziativa culturale e religiosa, che non fanno capo direttamente ai partiti o a enti dello Stato, ma emergono spontaneamente dall’impegno dei «mondi vitali», dalla base sociale.
La seconda accezione, quella più comune, in cui viene usato il termine «politica» è nel senso della «prassi politica», propria dei partiti, dei sindacati, del governo, della pubblica amministrazione...
Ci si riferisce, cioè, a un preciso programma di cose da fare, alla traduzione tecnica delle istanze della base sociale, da coordinare in vista del bene comune.
È la politica che potremmo definire «con la p minuscola», perché viene dopo, concretizza attraverso le necessarie opzioni pratiche quel discorso sull’uomo, quella scala di valori che costituiscono la «cultura» politica, ispiratrice della «prassi».
Dunque, Politica (con la P maiuscola) e politica (con la p minuscola) sono due aspetti o momenti distinti ma inseparabili dell’unica realtà «politica».
La causa principale della crisi della «politica» nel nostro tempo, che ha portato alla degenerazione della partitocrazia, è nata proprio dalla innaturale frattura tra prassi e cultura politica.
Un partito, un sindacato, un ente pubblico che rompe il suo collegamento con il retroterra sociale e culturale è destinato a degenerare, a «bloccarsi» e, alla lunga, a perire. Una prassi politica non più ispirata e vivificata dai valori della gente, dalla cultura della base sociale, non è più nemmeno politica!
Di qui l’urgenza del discorso che oggi andiamo facendo sulla necessità di restituire un’anima alla politica. Solo con una «risurrezione» della politica, che rimetta il cittadino (e non i partiti, i sindacati o gli enti pubblici) con i suoi veri problemi e con i suoi valori al centro del sistema, sarà possibile il rinnovamento dei corpi intermedi, che nonostante tutto restano insostituibili nella nostra democrazia rappresentativa, e soprattutto sarà possibile passare dalla «democrazia bloccata» a una «democrazia matura», come tutti giustamente auspichiamo.
2. L’impegno politico del cristiano
2.1. Ispirazione cristiana della politica
In che cosa consiste allora l’ispirazione cristiana della politica? La fede esercita una duplice funzione verso la politica, presa nel suo aspetto e di cultura politica e di prassi.
La prima funzione è quella di coscienza critica della politica. Grazie alla luce che la rivelazione cristiana getta sull’uomo e sulla storia, la fede diventa come uno specchio nei confronti del servizio politico. Non che in essa si trovi l’indicazione concreta del cammino da fare; ma nel senso che la coerenza con i valori evangelici diviene elemento essenziale di verifica della bontà del cammino, del programma, delle scelte che i politici autonomamente e responsabilmente compiono. Così, la fede da un lato induce a condannare e a rifiutare con forza tutto ciò che è contro il bene dell’uomo, smascherando le deviazioni anche quando talvolta sono presentate come una crescita o una «conquista di civiltà»; d’altro lato, la fede, essendo trascendente e non identificandosi con nessuna ideologia, apre gli occhi a cogliere tutto ciò che va nel senso vero dell’uomo, induce a favorire quanto di buono c’è in ogni elaborazione culturale e politica, mette in luce quanto nella società pluralistica unisce e serve a costruire una città a misura d’uomo, aperta alle istanze trascendenti.
Accanto a questa funzione critica e di discernimento, la fede esercita verso la politica una seconda funzione: profetica e creativa; cioè, nel pieno rispetto della laicità delle necessarie mediazioni, suggerisce positivamente scelte coraggiose e aperte. La «coerenza» con i valori cristiani non consiste soltanto nel fatto di garantirsi che in un programma o in una data scelta non vi sia nulla che contraddica i valori della fede o dell’etica; sta soprattutto nello stimolo a trovare risposte nuove ai problemi nuovi e ad elaborare programmi costruttivi ed efficaci per venire incontro alle sfide del cambiamento, inventando e creando soluzioni positive adeguate.
Tutto ciò, nel pieno rispetto della laicità della politica. La luce e le forze che vengono dalla fede vanno mediate attraverso scelte tecnicamente e professionalmente valide, tali cioè che possano essere condivise e attuate sul piano razionale e della efficienza politica, da parte anche di chi non crede.
2.2. Responsabilità e autonomia politica dei laici
Il Concilio ha rivalutato pienamente questo ruolo «laico» della mediazione politica dei cristiani. A lungo i fedeli laici sono stati considerati meri esecutori passivi, in campo temporale, delle direttive elaborate dalla Gerarchia ecclesiastica. Per due ragioni. La prima era che i problemi sociali erano ritenuti una questione essenzialmente etica e quindi di esclusiva competenza della Gerarchia; la seconda era che i fedeli laici, fino al Concilio, venivano considerati «ausiliari della Chiesa» (come li definisce Pio XI nella Quadragesimo anno, 152).
Il Concilio, da un lato, ha riconosciuto che i problemi sociali, accanto alla dimensione etica, ne hanno altre di natura economica, politica e culturale, per le quali la Gerarchia non ha una particolare competenza; d’altro lato, ha rivalutato la responsabilità e l’autonomia del fedele laico, il quale riceve direttamente da Cristo (nel battesimo e nella confermazione) la missione di animare tutta la realtà temporale con i valori evangelici, attraverso le sue specifiche competenze: non più quindi mero esecutore passivo delle disposizioni della Gerarchia in campo sociale, ma collaboratore attivo dei Pastori nel momento stesso della elaborazione della «dottrina sociale», con l’apporto della propria esperienza e competenza professionale e scientifica (cf AA 31 b).
«Passare all’azione — scrive Giovanni XXIII nella Mater et magistra — è un compito che spetta soprattutto ai Nostri figli del laicato [...], in virtù del loro stato»; seguano sempre la loro coscienza rettamente formata secondo l’insegnamento sociale del Magistero, ma rispettino l’autonomia e la legittima laicità della politica: «Svolgano le attività temporali secondo le leggi a esse immanenti per il raggiungimento efficace dei rispettivi fini» (n. 241). A questo insegnamento avrebbe fatto eco il Concilio: i fedeli laici «non pensino che i loro pastori [...] a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità» (GS 43).
È perciò una falsa concezione di obbedienza alla Chiesa quella di coloro che non danno un passo se il vescovo non parla o se il parroco non appoggia! Questa mentalità clericale ha fatto ormai il suo tempo. I fedeli laici sono responsabili e autonomi nelle scelte politiche che devono compiere. Certo, agiranno sempre guidati da una coscienza rettamente formata, cioè illuminata dal vangelo e dal magistero sociale della Chiesa, ma la fatica e il rischio delle mediazioni da compiere rientra nella loro specifica vocazione battesimale. Ciò non toglie che spetta poi ai Pastori il grave dovere di valutare e di verificare la coerenza o meno con il vangelo delle scelte e dei comportamenti che i fedeli laici autonomamente e responsabilmente assumono.
2.3. Pluralismo delle opzioni politiche
La laicità della politica e l’autonomia delle scelte politiche che i fedeli laici legittimamente compiono fondano, già di per sé, la legittimità del pluralismo in politica. Tuttavia, a queste considerazioni occorre aggiungerne un’altra: è la natura stessa della politica a postulare il pluralismo delle opzioni.
La politica, infatti, è una realtà complessa, sempre condizionata concretamente da situazioni sociali, culturali, economiche e di altra natura. Cosicché, se i cristiani hanno il dovere di agire politicamente in coerenza con il vangelo e con l’insegnamento della chiesa, tuttavia è normale che legittimamente differiscano sul giudizio da dare circa l’opportunità, l’apprezzamento prudenziale, le priorità e l’efficacia di un programma di partito o di governo. In questo senso, Paolo VI giustamente conclude: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi» (OA 50).
Quindi, per il cristiano, il pluralismo delle opzioni politiche è espressione normale di libertà, e si spiega con resistenza di limiti obiettivi in ogni processo conoscitivo, con i diversi condizionamenti che influiscono su ogni decisione opinabile. Chi potrebbe mai pretendere di possedere una conoscenza perfetta delle situazioni entro cui opera o delle possibilità che si offrono per risolvere un problema complesso, delle priorità da fissare? Perciò è legittimo che vi siano pareri differenti, che si propongano soluzioni diverse o addirittura in contrasto tra loro, nonostante ci si rifaccia tutti ai medesimi valori cristiani. Pretendere di possedere l’analisi politica perfetta e volerne derivare l’obbligo per tutti di scegliere un determinato programma politico significa dimenticare o disattendere la natura stessa dell’arte politica, che è di natura sua mutevole e contingente; significa dare valore assoluto a scelte o a programmi che di natura loro non possono essere che relativi. Il pluralismo, dunque, non solo è legittimo, ma utile e necessario ai fini della stessa attività politica, perché attraverso il confronto e il dialogo si giunge meglio a comprendere ciò che veramente serve al bene comune. Ovviamente il pluralismo ha i suoi limiti. Vi è anzitutto il limite rappresentato dai valori fondamentali della fede e dell’uomo, i quali non possono essere compromessi da chi in politica vuole ispirarsi all’ideale cristiano. È la questione della «coerenza», di cui abbiamo detto. Perciò, ogni programma, partito o sistema che rispetti e promuova tutti i diritti fondamentali della persona e della società può essere condiviso dai cristiani. Ma sarebbe sbagliato ridurre il discorso sul pluralismo al solo fatto che in una determinata scelta politica non vi sia nulla che contrasti con la fede e la morale. Pluralismo non è sinonimo di indifferentismo, non è un atteggiamento qualunquistico, per cui un programma vale l’altro, purché non contenga nulla di male. L’ideale evangelico è molto esigente, è qualcosa di più di un mero atteggiamento difensivo; è soprattutto proposta, è creatività. Pertanto chi vuole impegnarsi in politica, ispirandosi ai valori cristiani, deve valutare bene se un dato programma consenta in positivo la piena incisività, la ricca fecondità del fermento evangelico.
2.4. I partiti di ispirazione cristiana
Col discorso del pluralismo è strettamente legato quello della militanza dei cattolici in un partito di ispirazione cristiana.
Conviene, anzitutto, rivendicare la legittimità della esistenza di un tale partito. Essa riposa su due ragioni fondamentali: sul fatto che il messaggio cristiano, pur essendo essenzialmente religioso, può contribuire moltissimo a trovare la risposta ai gravi problemi della promozione umana sul piano laico della politica; e sul fatto che in regime democratico l’associazione è necessaria affinché i valori in cui si crede possano efficacemente affermarsi e servire alla costruzione della società pluralistica.
Ora, lo strumento attraverso cui i cittadini possono partecipare responsabilmente alla elaborazione della politica nazionale è soprattutto l’associazione in partito, oltre le mille forme di aggregazione nel sociale e nei settori prepartitici, di natura prevalentemente volontaristica, assistenziale, culturale e formativa.
Quindi, è del tutto normale che cittadini, desiderosi d’ispirare il loro servizio politico agli ideali cristiani, si uniscano in partito. E la storia ha dimostrato largamente l’utilità dei partiti d’ispirazione cristiana ai fini di una democrazia da costruire e da difendere.
Ma una cosa è dire che è legittima resistenza di uno o più partiti d’ispirazione cristiana, un’altra cosa è pretendere di dedurre dalla fede la necessità dell’esistenza di un «partito cattolico», al quale soltanto potrebbero aderire i fedeli laici. È questa una vecchia tentazione, caratteristica della mentalità integrista, che non muore mai. «I due termini [“partito” e “cattolico”] — scriveva già don Luigi Sturzo settant’anni fa — sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione» (Il partito popolare, vol. I: 1919-1922, Zanichelli, Bologna 1956, p. 76). La fede non ha partiti, non può né deve averne! E se è vero che in situazione di emergenza, qualora fossero in pericolo fondamentali valori dell’uomo, potrebbe rendersi necessaria e obbligante l’unità politica dei credenti, ciò avverrebbe solo per ragioni contingenti e straordinarie. Ecco perché non è lecito ad alcuno appropriarsi del nome cristiano o arrogarsi la rappresentanza della Chiesa in politica, chiedendo il consenso sul programma per motivi religiosi e confessionali. Sarebbe questa una indebita strumentalizzazione della fede, facendone un uso ideologico. Il consenso intorno a un eventuale partito d’ispirazione cristiana va chiesto e meritato non in nome della comune appartenenza a una fede o a una chiesa, ma in virtù dell’efficacia politica del programma proposto e della coerenza, onestà e competenza politica degli uomini che pubblicamente ispirano il loro servizio agli ideali evangelici.
Queste acquisizioni della coscienza cristiana dopo il Concilio pongono perciò il problema del rinnovamento dei partiti d’ispirazione cristiana, che dovrà avvenire attraverso un modo maturo di vivere l’ispirazione evangelica, senza cedere a forme di neointegrismo, ma rivendicando la laicità e la aconfessionalità del partito, la responsabilità e l’autonomia delle sue scelte, nella coerenza sempre con il proprio patrimonio ideale: si tratta, così, di aprire il partito a tutte le forze vive del Paese, superando la tentazione di farne il partito degli «interessi cattolici». Un partito d’ispirazione cristiana nasce per servire al bene comune di tutti indistintamente i cittadini, con un programma che sia valido in sé e accettabile da ogni uomo di buona volontà.
3. L’impegno politico della comunità cristiana
3.1. «Scelta religiosa» e politica
Il rapporto fede-politica non interpella soltanto i singoli credenti; il suo approfondimento pone interrogativi nuovi pure alle comunità cristiane e alla chiesa in quanto tale. Una delle acquisizioni più importanti del Concilio in tema di rapporti chiesa-mondo e fede-politica è stata certamente «riscoperta» (per dire così) della natura essenzialmente religiosa della chiesa e della sua missione: «La missione propria, che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, non è di ordine politico, economico e sociale: il fine infatti che le ha prefisso è di ordine religioso» (GS 42). Di conseguenza, la responsabilità specifica della chiesa in quanto tale in campo politico non può essere che di natura pastorale. Non, quindi, un attegiamento di neutralità di fronte ai problemi, né tanto meno assenza o fuga; ma chiara presa di posizione ogni qual volta lo esigano giustizia e carità, per indicare in Cristo il senso ultimo e completo delle vicende umane, per condannare senza mezzi termini violenze e soprusi, specialmente quelli contro i più poveri ed emarginati, per incoraggiare e appoggiare sul piano etico e religioso le scelte politiche a favore dell’uomo, della sua dignità e libertà.
Questa nuova consapevolezza del modo suo specifico di rendersi «presente» alla politica ha fatto sì che la Chiesa superasse definitivamente la vecchia concezione del «collateralismo» partitico, per aprirsi alla cosiddetta «scelta religiosa». Questa non consiste affatto nel disinteresse per la politica, per andarsi a rinchiudere nelle sagrestie o nel tempio; induce anzi a una rinnovata e coraggiosa presenza nel mondo, libera da ogni connivenza col potere, forte della parola di Dio e della povertà evangelica. In virtù della natura essenzialmente religiosa della sua missione, la comunità cristiana si autoesclude dall’intervenire direttamente nella prassi politica partitica (la politica con la «p» minuscola!): non perché sia una cosa «sporca» o immeritevole di attenzione, ma perché non potrebbero divenire «di parte» quanti, in virtù di una particolare vocazione, sono chiamati a «testimoniare l’Assoluto» indistintamente a tutti. Ciò non impedisce affatto alla Chiesa di seguire e di giudicare sul piano etico-religioso programmi, scelte, carenze e realizzazioni di governi e di partiti: è anzi suo preciso dovere alzare la voce; e ciò più di una volta, le susciterà contro difficoltà e incomprensioni. Nulla poi impedisce che vescovi sacerdoti, religiosi, operatori pastorali e quanti si consacrano direttamente al servizio ecclesiale in modo speciale (come nel caso dei membri dell’Azione Cattolica), in quanto cittadini e a titolo personale, abbiano la propria opinione politica ed esercitino i propri diritti-doveri come tutti gli altri.
La «scelta religiosa» bene intesa, dunque, è condizione essenziale per poter svolgere più liberamente ed efficacemente la missione propria della chiesa. Essa fa della comunità cristiana il luogo privilegiato d’incontro, di unità e di comunione tra fratelli in Cristo, intorno alla parola di Dio, all’eucaristia e al vescovo, al di là delle legittime differenze di sensibilità culturale e di opzioni politiche diverse.
3.2. Chiesa, Stato e società
Movendo dalla «scelta religiosa» della comunità cristiana, il Concilio ha aperto un discorso nuovo sui rapporti tra chiesa e stato, tra chiesa e società.
Per quanto riguarda il rapporto tra chiesa e stato, il Concilio non si è limitato a ribadire la necessaria piena autonomia di ciascuno nel proprio ordine, ma ha chiesto alla comunità cristiana di rinunciare a essere, o anche solo ad apparire, un interlocutore privilegiato dello stato: la chiesa — leggiamo nella GS 76 — «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni».
Le ragioni pastorali (oltre quelle dottrinali teoriche) di questo «distacco» sono essenzialmente due. La prima è che la chiesa vuole riprendersi tutta la sua libertà, per poter meglio intervenire, senza legame alcuno e restando sul piano etico-religioso che le è proprio, ogni qual volta lo richiedano la sua missione evangelizzatrice e le diverse situazioni storiche. In secondo luogo, la libertà piena nei confronti dello stato è premessa necessaria affinché la chiesa sia in condizione di accogliere con credibilità e disinteresse tutti coloro che a essa si rivolgono come a madre e maestra, senza secondi fini e senza esclusione alcuna. Tuttavia, «autonomia» non significa rottura; libertà dai privilegi non significa estraneità. Infatti la chiesa, avendo la rilevanza sociale e istituzionale, non può rinunciare a uno specifico statuto — di diritto e di fatto — di fronte allo stato. Ma si tratta di instaurare un rapporto diverso, tutto esclusivamente teso a collaborare insieme per la promozione dell’uomo e per il bene comune. Così, paradossalmente, la rinuncia al trattamento di favore, quale esisteva ai giorni dello stato confessionale, anziché nuocere, rende la chiesa non più lontana o estranea allo stato, bensì più interna di prima alla vita del Paese. Infatti, grazie alla «scelta religiosa», si aprono alla comunità cristiana nuovi orizzonti di servizio alla società, dove potrà, con maggiore credibilità e libertà, animare i settori prepolitici, esercitando soprattutto quella pedagogia della fede e quell’opera di formazione delle coscienze e delle intelligenze che sono proprie della sua missione religiosa. Così, in virtù della sua «scelta religiosa», la chiesa può rivolgersi liberamente a tutti: stato e società, partiti e sindacati, autorità e cittadini semplici; in particolare può impegnarsi al servizio del bene comune, incoraggiando i fedeli laici a prepararsi e a rendersi presenti in politica, sostenendo con la sua forza morale le battaglie fondamentali in favore della dignità dell’uomo, della vita e della famiglia, e per vincere le nuove povertà.
Ecco, dunque, come la chiesa fa politica! Non scendendo sul campo della lotta per il potere tra i partiti, ma annunziando la salvezza di Cristo, illuminando i problemi dell’uomo con la luce della parola di Dio, formando uomini nuovi, capaci di orientare poi le scelte di prassi politica secondo i valori fondamentali di un umanesimo integrale, aperto a Dio. Questo significa fare politica «con la P maiuscola», contribuendo così a «dare un’anima» alla politica in crisi, nel pieno rispetto della laicità e del legittimo pluralismo delle opzioni possibili.
Ciò non esclude che in casi di emergenza, qualora fosse l’unica voce in grado di intervenire a difesa dei diritti e della dignità della persona umana, di fronte all’assenza o all’impossibilità per altre forze d’intervenire, la comunità cristiana possa essere chiamata, in funzione di «supplenza», a svolgere un ruolo «politico» che non le è proprio, dopo un serio discernimento (cf Sinodo dei Vescovi 1971, Il sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo, p. II, c. 1).
3.3. La formazione dei laici alla politica
Dopo tutte le riflessioni fatte, si può veramente concludere che il maggior contributo della chiesa al superamento della crisi della politica, alla sua «risurrezione» con lo sguardo al domani, è quello di un impegno nuovo per preparare i laici a una rinnovata presenza nella società e in politica.
Da questo punto di vista, acquista valore di un «segno dei tempi» lo sforzo formativo espresso recentemente dalle comunità cristiane mediante le scuole di formazione all’impegno socio-politico. E non è un caso che l’esempio sia venuto da Palermo, cioè da una frontiera dove la fede si confronta con la vita in modo drammatico, dove il futuro germoglia vigoroso da un passato pieno di contraddizioni e di contrasti violenti.
Ma, dinanzi alle acquisizioni del Concilio e dinanzi alle sfide delle profonde trasformazioni sociali di oggi, occorre avere il coraggio di inventare risposte nuove, che prefigurino quel modo nuovo con cui la chiesa è chiamata a farsi presente nella realtà pluralistica e secolarizzata dei nostri giorni. Così, per esempio, non avrebbe senso dare vita a «scuole di dottrina sociale» riservate solo ai credenti o a «scuole di partito» che diverrebbero una forma rinnovata dell’antico «collateralismo». Questo è un momento in cui la chiesa deve pensare in grande, preoccupandosi più del mondo da salvare che del tempio da costruire. Le comunità cristiane dovranno sempre più aprirsi a essere luogo di crescita e di formazione, offrendo non solo ai battezzati, ma a tutti gli uomini di buona volontà, la possibilità di confrontarsi concretamente con il messaggio cristiano. L’impegno di formare coscienze e intelligenze al servizio politico non può conoscere altre frontiere che quelle del bene comune del Paese. Si tratta, cioè, di aiutare i nuovi quadri politici e amministrativi di domani a realizzare nella propria vita, grazie al tirocinio di una preparazione seria, la sintesi necessaria tra carica ideale ed etica e professionalità.
3.4. Per una spiritualità della politica
Infine, non si può omettere il fatto che, nel cristiano impegnato in politica, l’ispirazione ideale ed etica (la quale — come abbiamo detto — è l’anima di ogni servizio politico) diviene vera e propria spiritualità. Ciò significa che la testimonianza cristiana in politica non passa soltanto attraverso la competenza professionale; così come non basterebbe — da sola — la sincerità e l’autenticità dell’esperienza di fede. In politica vale in modo ancor più esigente quanto si richiede dal cristiano in ogni sua attività: la «sintesi vitale» tra coscienza religiosa e professionalità. Anzi, quanto più il politico oggi è chiamato al confronto e alla collaborazione con appartenenti a ideologie diverse, tanto maggiori dovranno essere siala «coerenza» del cristiano, sia la sua capacità di mediazione e di dialogo. Ora, solo una matura spiritualità della politica consentirà di raggiungere questa necessaria «sintesi vitale» tra fede e storia. Pertanto, gli orientamenti fondamentali di una spiritualità della politica si possono ricondurre a tre principali.
Il primo è vivere la politica come una vera e propria «vocazione», cioè come parte integrante della stessa vocazione battesimale: «Tutti i cristiani — insiste il Concilio — devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella stessa comunità politica; essi devono essere d’esempio, sviluppando in sé stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75). Il fine ultimo della vocazione cristiana, come quello di ogni uomo, è l’Assoluto, è Dio. La politica, dunque, nonostante la sua importanza, non costituirà mai per il cristiano un assoluto a cui sia lecito sacrificare tutto; sarà invece il campo ideale per testimoniare che difficoltà e tentazioni di un cammino tra i più impervi non possono impedire il raggiungimento della perfezione e della santità. Infatti, vale anche per il cristiano in politica il comando del Signore: «Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48), riecheggiato ai nostri giorni dal Concilio: «Tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano» (LG 40). Vale, dunque, anche per i cristiani impegnati in politica la possibilità di raggiungere la perfezione non «nonostante la loro attività temporale», ma anzi proprio «grazie» ad essa (cf LG 41). Il secondo orientamento di fondo per una spiritualità della politica si traduce nello «stile» evangelico di vivere l’esercizio del potere come servizio. Certo, il potere è una componente essenziale della politica, e sarebbe puerile disconoscerlo. Tuttavia, per il cristiano fanno legge l’esempio e l’insegnamento esplicito del Signore: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma [...] chi governa [sia] come colui che serve; [...] Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25ss). In concreto, vivere la politica come servizio significa avere forte il «senso dello stato», dare la precedenza sempre al bene comune e agli interessi più generali, senza indulgere a interessi personali o corporativi, senza guardare a sacrifici. Perciò, esercitare il potere in spirito di servizio significa immettere nella costruzione della città dell’uomo il cemento della solidarietà e dell’amore, che porta a privilegiare le classi meno abbienti e più emarginate, i poveri d’ogni condizione, condividendone sinceramente i problemi, le lotte e le speranze.
Infine, una matura spiritualità della politica si esprime nello spirito di discernimento, necessario per non scadere in un piatto pragmatismo e in una deteriore «ragion di stato», che non esita a posporre valori e comportamenti etici fondamentali al raggiungimento di fini immediati e utilitari. Si suppone perciò, nel cristiano che fa politica una mentalità nuova: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Il cristiano politico dovrà escludere dalla propria vita il ricorso a metodi meschini e immorali di comportamento, di amministrazione, di lotta politica; nello stesso tempo, dovrà ispirare il proprio servizio a quei valori fondamentali dell’uomo e della convivenza civile che sono patrimonio non solo della fede, ma della coscienza di ogni persona retta. Una spiritualità della politica è, insomma, essenzialmente una spiritualità di condivisione e di incarnazione, è una spiritualità che trasforma e rinnova, è una spiritualità del dialogo, che — come ripete il Concilio — impegna «i cattolici a cooperare con tutti gli uomini di buona volontà nel promuovere tutto ciò che è vero, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è santo, tutto ciò che è amabile» (AA 14).
Così, la spiritualità della politica non rinchiude nel ghetto, non usa della ispirazione cristiana come di un muro divisorio, né vi scorge un elemento di contrapposizione ideologica; conduce invece al superamento della logica di potere, apre a orizzonti di collaborazione programmatica in favore dei bisogni reali della gente, soprattutto dei più poveri ed emarginati, si traduce in logica di servizio. In una parola, solo un’autentica spiritualità può rendere il cristiano «sale della terra» e «luce del mondo» in uno dei campi più ardui ma più fecondi della testimonianza evangelica, qual è la politica.
Bibliografia
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POLITICA
1. Potere politico e → formazione. Vi è connessione tra esercizio del potere politico e processo educativo. L’azione p. implica necessariamente una concezione dell’uomo e della società (eguaglianza e perequazione sociale, tolleranza e pacifica convivenza, p. culturale e difesa delle minoranze, ecc.). La formazione non può sfuggire a quei modelli politici con cui nella prassi deve misurarsi (assetto istituzionale, distribuzione del potere, ripartizione dei ruoli, ecc.). Da una parte l’esercizio del potere comporta scelte di indirizzo e di intervento, con conseguente incremento ad una cultura della p. che è anche ricerca e formazione Dall’altra il conseguimento di un’istruzione superiore o di nozioni speciali si configura come una condizione primaria, tale da permettere la strada al successo e a vere e proprie posizioni di potere. Politologi e attori politici svolgono ruoli concettualmente distinti, tuttavia non separabili, talora assommati in una stessa persona se questa appartiene ad uno schieramento politico. Infatti la p. è arte e scienza: arte come tecnica, tattica e prudenza insieme; scienza come elaborazione di strutture conoscitive. Da → Socrate in poi, gli aspetti politici dell’educazione vengono messi in risalto sotto questo o quel profilo. Per → Platone vi è coincidenza tra formazione dei filosofi e formazione dei reggitori della polis. Nella storia occidentale, con l’avvento del concetto di societas, i grandi movimenti politici sono stati preceduti, accompagnati o seguiti dalla fondazione di istituzioni educative. Circa gli studiosi del nesso tra p. e educazione possiamo partire da J. Locke e → Rousseau, per giungere a W. von Humboldt e J. S. Mill e terminare con i più vicini ai problemi del nostro tempo: da M. Weber a M. Horkheimer, J. → Maritain e J. Rawls. L’idea di p. come vocazione, l’umanesimo integrale e il neocontrattualismo uniscono e distinguono p., formazione e giustizia. Ugualmente la teoria critica non mirava al puro aumento del sapere, bensì all’emancipazione dell’uomo. Ulteriori contributi sono ricavabili tuttora dalla riflessione di → Gramsci sul nesso tra azione educativa e prassi p. L’esercizio del potere può assumere due aspetti nei riguardi dell’universo educativo. Si può parlare di una p. educante oppure di una p. educativa. Nel primo caso, la p. stessa, in quanto ordinamento della società secondo un orientamento valoriale, pone le premesse dell’educazione, intesa come iniziazione etica e civile. È in una società, e più precisamente entro istituzioni giuste, che un soggetto esistente diviene soggetto responsabile, consapevole, storico. Ciò che è accidentale o precario è elemento costitutivo delle singole realtà, problematiche per natura e definizione rispetto a determinati obiettivi da spostare sempre più avanti e in vista di valori perennemente da realizzare. La p. esercita una sua funzione educante proprio perché indirizzata, con forte realismo, nelle sue espressioni più nobili, verso quei fini che, per largo consenso, sono fondamentali per ogni assetto sociale: libertà, razionalità, democrazia, uguaglianza, sicurezza, progresso, solidarietà. Tuttavia l’indagine circa i risultati deve essere avalutativa, ossia imparziale e oggettiva a prescindere dai motivi ideali a cui si sono richiamati gli attori politici. L’Occidente del secondo dopoguerra, nei casi felici della ricostruzione e della pace, ha mostrato la tendenza verso una paideia fatta, come dev’essere, di cultura (coltivazione e tutela di beni artistici e scientifici) e di civiltà (ordinamento razionale delle istituzioni, sulla base dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ora, la connessione tra p. e educazione non è mai un punto di partenza, bensì una meta perenne. Finanche le situazioni migliori possibili presentano punti di frizione. Se poi guardiamo ad archi di tempo secolari, se non addirittura millenari, scorgiamo non poche fratture tra esercizio del potere e disegno ordinato della società. La classe p., in ogni epoca, mira a interessi politici. Entro questa prospettiva la formazione, la cultura, la scienza possono essere strumentalizzate per il potere o a favore dell’immagine di chi lo detiene. Il mecenatismo è prodigo di benefici per poche persone ed ignora il rimanente della società. L’assolutismo illuminato si ispira alla ragione che, in primo luogo, è ragione di Stato. Il tiranno che erige monumenti perenni, a testimonianza della propria gloria, opprime chi non si piega ai suoi voleri. Ogni forma di protezionismo culturale e formativo, a favore di individui o di ceti privilegiati, tende alla egemonia e alla censura. Se la cultura ufficiale, in nome di un ugualitarismo di facciata, è omologata, vengono ostacolate la irriducibilità e singolarità di ciascuna persona e ogni forma di creatività individuale o collettiva. La p. educativa, almeno così come viene intesa comunemente in senso riduttivo, si occupa di quelle particolari istituzioni sociali che, insieme a vari apparati di supporto, hanno per scopo l’istruzione di vario livello ed indirizzo. Se non sono accettabili, per nessun campo politico, l’improvvisazione e il dilettantismo, tanto più questa affermazione vale per coloro che gestiscono strutture e risorse per la formazione delle coscienze. Sono facilmente prevedibili effetti perversi, a danno di intere generazioni, quando gli attori politici sono impreparati e quando vi sono contraddizioni tra successive gestioni. Per ogni caso ed ogni situazione l’impatto dottrinale o ideologico è indubbio, se non addirittura funzionale. Però va colto esso stesso come oggetto d’indagine per i segnali che fornisce e le conseguenze che provoca. Inoltre tutte le iniziative politiche cadono su realtà dinamicamente complesse, rese tali dai rapporti di forza esistenti tra ceti e gruppi sociali che esprimono interessi e aspettative più o meno maturi e livelli culturali di base più o meno elevati. Per queste ed altre ragioni non esistono istituzioni e modelli educativi trasferibili da una situazione nazionale all’altra, anche se si possono costruire criteri e paradigmi per valutare differenti situazioni e confrontarle. Un discorso parallelo, integrativo e complementare a quello della p. educativa è quello sulla → educazione sociopolitica. Con quest’ultima espressione ci riferiamo sia alla maturazione dei cittadini in quanto tali sia ad una vera e propria materia scolastica. Uno dei fini dell’educazione, considerata sotto questo profilo, è la formazione dei soggetti e dei gruppi sociali alla cultura p., fatta di concettualizzazione e di determinate conoscenze. Si possono avere opinioni diverse, o anche diametralmente opposte, circa i medesimi fatti o eventi politici. Però le regole del discorso devono essere uguali per tutti perché universali e le regole del gioco devono essere rispettate da tutti perché pattuite. La conoscenza di ciò che è negativo in una determinata situazione non è lo scopo ultimo dell’educazione sociopolitica; occorre anche sapere perché si ritiene negativo questo o quello. Se è inammissibile una pedagogia di Stato, è altrettanto illecito che la classe p. contraddica con i suoi interventi le linee di sviluppo, scientificamente fondate, dell’azione educativa. Di qui la necessità di definire i compiti degli attori politici nel campo della formazione. Non occorre che costoro siano esperti di pedagogia: è necessaria la consapevolezza da parte loro dei rapporti tra scopi e scelte, tra scelte e risultati, tra risultati e successivi interventi in un campo specifico dell’azione p. Neppure si chiede che dirigenti scolastici e insegnanti siano scienziati della p. per il fatto di svolgere una funzione pubblica che, in quanto tale, ha rilevanza p. Si chiede però che siano consapevoli di tale rilevanza. I problemi della scuola rimangono velleitari se vengono ignorate quelle premesse politiche che sole permettono di affrontarli.
2. La scienza p. dell’educazione. La scienza p. dell’educazione rappresenta un netto progresso rispetto alla p. educativa, genericamente intesa. Essa studia la funzione educativa degli atti politici e i risvolti politici dei fenomeni educativi. È una disciplina applicata a quelle istituzioni e a quegli interventi che possono favorire per tutti i cittadini la migliore educazione possibile. Pertanto per scienza p. dell’educazione si intende l’insieme ordinato di dottrine e teorie che regolano sia le scelte di grande rilievo (programmazione, riforme, investimenti, ecc.) sia i provvedimenti concreti (organizzazione, gestione, dirigenza delle scuole, ecc.) per l’educazione dei singoli e l’elevazione culturale dei gruppi sociali. Essa è una specializzazione della scienza p. generale. Con l’espressione onnicomprensiva volontà p. possiamo denominare sia l’imperio della classe p. sia l’influenza della classe dominante sulle istituzioni formative, scolastiche ed extrascolastiche. La classe p. è composta dalle persone collocate in sedi politiche (parlamento, governo, partiti politici). La classe dominante è composta da coloro che, pur non ricoprendo cariche politiche, esercitano le loro attività entro istituzioni non-politiche ma con indubbi riflessi politici (grande finanza, industria culturale, ordini professionali, corpi accademici, centri di informazione, ecc.). Possiamo usare l’espressione valenza p. per denotare gli aspetti politici dell’educazione, per quanto riguarda sia gli educatori (esercizio di un’autorità legittimata da determinati principi e regolata da una legislazione speciale), sia gli educandi (arricchimento delle loro capacità e abilità con conseguente arricchimento della loro personale forza contrattuale; riconoscimento del loro status di studenti con diritti di partecipazione e integrazione; flessibilità dei piani di studio con «crediti» e opzioni). Il diritto all’educazione, in tutte le sue forme, è il riconoscimento globale di questi aspetti politici dell’educazione. Nei Paesi di consolidata tradizione democratica la formazione tende ad emancipare le persone e ad esaltarne le caratteristiche. Di qui lo spazio concesso a percorsi mobili (uscite e rientri, curricoli individualizzati, sistema dei crediti, ecc.). Nei Paesi del socialismo reale, fino alla fine degli anni Ottanta, gli interessi individuali erano subordinati a quelli collettivi. Di qui una stretta correlazione tra programmazione educativa e pianificazione economica. Per comprendere la varietà dei modelli e delle strutture occorre rifarsi a ragioni storico-politiche.
3. Prospettive di sviluppo. Lo scopo della scienza p., nella mente dei suoi fondatori, consiste nella scoperta e dimostrazione di quelle leggi o tendenze costanti che regolano l’ordinamento politico (Mosca, 1895). La sua natura, oltre che teorica, è operativa. La scienza p. dell’educazione, un suo settore tendenzialmente autonomo, ne condivide la vocazione pragmatica (Izzo, 1994). Dalla scienza p. generale essa acquisisce l’approccio sistemico a particolari aspetti della realtà sociale. Pertanto essa prende l’avvio dai temi di fondo: i rapporti di potere, la formazione delle decisioni, la legittimità delle leggi, la legalità delle norme, la discrezionalità degli atti. Riprende anche alcune distinzioni categoriali, quali consenso, assenso e dissenso; classe p., dominante e dirigente; potere, autorità e dominio, ecc. Sotto questo profilo si arricchiscono di significato e divengono comprensibili alcune espressioni pedagogiche, come educazione compensatrice, pari opportunità, libertà didattica, ecc. Gli studi sulla p. educativa, condotti fino a farne una scienza, sono stati incrementati dallo Stato sociale e dalla conseguente evoluzione delle politiche sociali. Per comprendere il passaggio da condotte empiriche ai fondamenti di una vera e propria scienza p. dell’educazione, si può partire da una classificazione che di recente si è andata precisando nel campo della politologia. È ufficio della p. generale (politics) gestire interventi ordinari e affrontare eventi straordinari. Alle singole condotte politiche (policies) spetta garantire unitarietà d’indirizzo e di programmazione nei singoli settori specifici (difesa, interni, esteri, ecc.), con buone approssimazioni circa gli effetti prevedibili. Però è da preventivare anche l’imprevedibile, giacché non è sopprimibile ogni elemento di accidentalità o di disordine. Ciò che è precario costituisce elemento costitutivo dell’esperienza sociale e p. Per quanto concerne la realtà educativa, va detto che essa è fatta di persone consapevoli, ciascuna a sua misura, dei propri bisogni. Rimangono inavvertite spesso le reali necessità. Lo scopo politico è quello di sollecitare nelle persone la coscienza dei propri bisogni reali e di elevare i livelli delle loro aspettative, mediante interventi coordinati di natura sociale. Rispondere soltanto a domande esplicite, ancorché arretrate, significa consolidare l’esistente. L’educazione rientra nelle materie delle social policies (insieme all’assistenza, alla sanità, alla previdenza sociale, ecc.), dando luogo appunto alla cosiddetta educational policy. Con quest’ultima espressione non si intende «p. educativa» nel senso comune (l’opera dei ministri o degli amministratori), bensì condotta p., basata scientificamente, a proposito di ciò che è «educazionale». E per educazionale si intende la somma degli interventi o dei provvedimenti che, pur non essendo direttamente educativi (per es., la valutazione della «produttività» scolastica), promuovono l’azione educativa in ogni sua espressione. Fondare o gestire razionalmente le istituzioni formative sono atti squisitamente politici. La razionalità delle istituzioni lascia campo all’attività professionale dei dirigenti e dei docenti. La p. educazionale non detta precettistiche pedagogiche. Designa e assegna ruoli (attori politici, funzionari amministrativi, esperti, e via di seguito). Ogni policy ha un’importanza equivalente rispetto a tutte le altre. Tuttavia la educational policy, a giusto titolo, può essere considerata preminente e prioritaria perché permette al cittadino di fruire al meglio dei servizi erogati da tutte le altre condotte politiche. Questa affermazione è convalidata da una recente teoria circa la massimizzazione dei fini. I fini delle varie condotte politiche sono molteplici e, oltre certi livelli di incremento, divengono tra loro contraddittori. Per es., «i processi sociali congruenti con la massimizzazione del valore di sicurezza non sono necessariamente adeguati anche come strumenti per la realizzazione del valore di libertà o di uguaglianza» (Fisichella, 1994, 52). Fanno eccezione i fini educativi, che non presentano alcuna contraddizione con nessun altro fine sociale, ma addirittura, quando sono perseguiti nel modo migliore possibile, permettono di regolare e valutare tutti i fini sociali.
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D. Izzo