PEDAGOGIA DI DIO

1.​​ L’evidente rilevanza educativa che per la fede riveste ogni forma di C. ha portato a interessarsi se e come nelle fonti della rivelazione esistano delle indicazioni pedagogiche, sinteticamente una PdD, tali da qualificare e garantire l’intervento umano del catechista in un processo di maturazione per sua natura radicalmente soprannaturale. In ciò sembra di essere giustificati dal fatto che la Scrittura prima, e poi i Padri (Ireneo, → Clemente Alessandrino) e i documenti del Magistero parlano di una “pedagogia di Dio”, mentre il Magistero cat. recente collega strettamente la C., quale pedagogia della fede, alla pedagogia stessa di Dio (CT 58). . , .

La questione si è fatta particolarmente acuta a partire dal secolo scorso, quando la nascita della moderna pedagogia pose, nell’ambito dei credenti, il problema del rapporto fra → scienze dell’educazione e necessaria ispirazione cristiana (→ teologia dell’educ.). Allora, specie in area tedesca, si ebbero ricerche di una pedagogia rivelata, nel tentativo di inquadrare in un sistema di pensiero i dati delle fonti (cf H. Schilling, G. Groppo, C. Bissoli). Motivi pedagogici particolarmente studiati sono stati e sono: la PdD o Dio come educatore; Gesù come educatore e maestro, la Chiesa come maestra ed educatrice. Altri motivi analoghi diversamente valorizzati in nome della PdD sono: l’imitazione e sequela di Cristo (di Dio, di Paolo:​​ Mt​​ 19,16-22; 5,48;​​ Col​​ 3,13;​​ Gv​​ 13,1-7;​​ FU​​ 3,17); la relazione di Gesù con i bambini (Afe 10,13-16 e par.); la realtà dell’uomo come immagine di Dio (Gn​​ 1,26); il comando della perfezione su misura dell’uomo nuovo Gesù Cristo (Afz 5,48;​​ Ef​​ 4,13;​​ Eb​​ 5,1114).​​ _

Il problema che è subito emerso con vivacità si pone almeno a tre livelli:​​ esegetico:​​ difficoltà di realizzare un sistema organico di idee tenuto conto della frammentarietà e qualità kerygmatica delle fonti;​​ ermeneutico:​​ necessità di distinguere rivestimento culturale da affermazione di fede (si pensi al concetto di musar/paideia vincolato nel mondo biblico a una prassi di severità e di castighi,​​ Prv​​ 3,12);​​ teologico:​​ doveroso rispetto dell’autonomia delle scienze umane in educazione.

2.​​ I problemi stimolano a una più attenta lettura delle fonti. Riferendoci qui soltanto alla nozione di PdD in senso stretto (per le altre, cf Bissoli), dal punto di vista biblico, noteremo:

a)​​ Il motivo della PdD (musar Iahvè,​​ paideia​​ Theou) è ben presente specie in Geremia e nei profeti (J. A. Sanders) e con senso simile nel NT (Eb​​ 12,7ss).

b)​​ In partenza appare come una formula di fede che interpreta l’altrimenti incomprensibile esperienza della correzione e del castigo, nell’area dunque di un mistero di luce risolutore dell’enigma del male. Organicamente presa, è PdD l’azione programmata di Dio (una economia) che fa crescere Israele nella tribolazione per renderlo santo e disposto alla misericordia che salva (Eb​​ 12,8s; cf​​ 1 Cor​​ 10,1-11).

c)​​ Che ciò non sia per sé rivelativo di un sistema pedagogico, lo si ricava dal fervore educativo, familiarmente e scolasticamente ben attrezzato già nell’antico Israele, grazie ai Saggi soprattutto, con l’emergenza evidente di una pedagogia che nasce dall’esperienza, le cui lezioni sono da apprendere nel “timore del Signore” (Prv​​ 15,33; G. von Rad).

d)​​ Come luminosamente si esprime il NT, sia con la​​ paideia Kyriou [Ef​​ 6,1-4) sia con la​​ karis paideousa​​ (Tt​​ 2,12), la PdD è certamente intervento educativo di Dio, ma secondo tutto il suo “mistero” di Padre in prospettiva prima e ultima di salvezza, e non quindi immediatamente trasferibile in pensieri e sistemi umani, tanto meno alternativi o competitivi con quanto la saggezza dell’esperienza e della riflessione ci vengono a dire. Ce lo certifica, oltre l’esempio dei saggi ebrei, quello della prima prassi cristiana come appare dalle Tavole domestiche (E/ 5,22-6,9;​​ Col​​ 3,18-4,6). Di conseguenza lo sviluppo del tema di PdD, ad es. in → Clemente Alessandrino, in → Agostino e nella tradizione cristiana, va accolto e mantenuto nel suo significato soteriologico e soprannaturale e meno come un arsenale di obiettivi, contenuti, metodi già prefissati.

3. A livello di C. si porrà una molteplice attenzione: a) A pensare, ad intendere e a realizzare l’atto cat. seriamente come partecipazione alla PdD, esposto quindi all’influsso della sua grazia e in fedeltà alle esigenze rivelate, evitando di restringere la portata educativa della C. a modalità semplicemente umana (CT 58). b) D’altra parte si assumeranno criticamente le indicazioni pedagogiche della Bibbia, cogliendo le motivazioni di fondo che le ispirano, e non come fossero ricette immutabili, si tratti pure del modo di fare e di insegnare di Gesù (J. T. Dillon). In questo senso diventano discutibili tanti tentativi di ricavare metodologie rivelate dalla Scrittura (J. Cantinat, G. Nosengo et al.), c) Si riconosca piuttosto come grazia di partecipazione alla PdD e sua esplicazione, quella C. che, saldamente ispirata dalla fede, con competenza studia e pratica ciò che dicono le scienze dell’educazione, su questo mai finito compito di far crescere il cristiano, che essendo così importante è lecitamente sigillato dal prestigioso nome di PdD. Non dunque per svuotare la nostra umana responsabilità, quanto per sostenerla e indicarle i fini ultimi e le ragioni più che umane per farlo.

Bibliografia

C. Bissoli,​​ Bibbia ed educazione,​​ Roma, LAS, 1981; Id.,​​ Bibbia ed educazione,​​ in “Orientamenti Pedagogici” 30 (1983 ) 647-664; 839-855; J. Cantina!,​​ La pedagogia di Dio nella Bibbia,​​ Leumann-Torino, LDC, 1965; G. Groppo,​​ Educazione cristiana e catechesi,​​ ivi, 1972;​​ Ch. Saldanha,​​ Divine​​ Pedagogy.​​ A​​ Patristic View of​​ Non-christian​​ Religions,​​ Roma,​​ LAS,​​ 1984;​​ H. Schilling,​​ Teologia e scienze dell’educazione. Problemi epistemologici.​​ Roma, Armando, 1974.

Cesare Bissoli

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