PASTORALE GIOVANILE (storia - 1)
Antonio Quacquarelli
1. Un popolo «giovane» perché in cammino verso Cristo
2. Elementi formativi globali
2.1. La lettura «a voce alta»
2.2. Il canto
3. La formazione «spirituale»
3.1. La funzione della S. Scrittura
3.2. Elementi di filosofia comune
4. La «teologia del lavoro»
4.1. Il lavoro per la formazione spirituale
4.2. Lavorare per apprendere uno stile di vita
4.3. Il lavoro come collaborazione a Dio creatore
5. Una pastorale giovanile?
6. Raccomandazioni «pastorali.
1. Un popolo «giovane» perché in cammino verso Cristo
Se la pastorale è il momento interpretativo della prassi ecclesiale, non è una forzatura parlare della pastorale giovanile nei Padri. Gesù è chiamato (lPt 2,25) vescovo e pastore ed è lui, il Cristo, sin dalle origini della Chiesa il soggetto principale della pastorale. Il luogo della salvezza in cui egli agisce è la Chiesa che rende afferrabile la parola di Dio per ogni realtà. La pastoralità dei Padri, che passava attraverso la predicazione, rendeva attuale la parola di Dio secondo le situazioni che venivano presentandosi. Col cristianesimo era nata una nuova umanità, ma questo popolo nuovo non ha esigenze diverse da quelle dei giudei e dei pagani, nasce e cresce allo stesso modo degli uni e degli altri, e come si legge nell’A Diogneto (5,1-17, H. I. Marrou, SC 33, (62-64) non è fuori di un ordine naturale. Il popolo nuovo poiché non vive più in attesa del Messia, come i giudei, né secondo le evoluzioni cicliche del mondo, come i pagani, è proteso verso l’infinito. La visione della storia è divenuta un’altra, né più di attesa né più di eterni ritorni: abbraccia il progresso all’infinito. Col Cristo, progresso e infinito sono una endiadi. Fu la caduta del primo uomo, cioè il peccato di Adamo, a sconvolgere l’ordine voluto da Dio. Eusebio (H.e. 1,2,1; 4 (G. Bardy) SC 31,5-7) rifiuta i dati della cronologia del lontano passato che non siano confrontabili con la Sacra scrittura. Non si può quindi incominciare che col Verbo nei due momenti della creazione del mondo e della incarnazione. L’uomo redento dal Cristo si affranca dal timore servile e libero progredisce al punto da assimilarsi al Verbo. In questa assimilazione si ha il senso della storia individuale nel contempo umana e divina. S. Agostino elabora la concezione delle sei età di ogni singolo uomo in relazione alla storia dell’intera umanità nel quadro della salvezza. In questa concezione la iuventus andava da David all’esilio di Babilonia. Non si ebbe un proseguimento di ricerca in tal senso e la iuventus fu inglobata in tutto l’uomo. D’altra parte era un topos classico pagano quello che riportava i periodi storici all’età dell’uomo. Tuttavia non avendo creato legami di continuità con la cultura cristiana il topos non poteva non cadere, sottraendo a noi altri elementi di giudizio e di confronto per quanto riguarda le implicanze del termine iuventus. Si è davanti ad un popolo nuovo che non accetta tesi settoriali di crescita, ma solo la fede nella sequela Christi.
La guida è sempre il principio paolino della fede che non risiede nella sapienza degli uomini (ICor 2,5) ma nella parola di Cristo (Rm 10,17) . S. Paolo afferma pure che per la libertà siamo chiamati fratelli (Gal 5,13). Per Ireneo Dio si china verso l’uomo, ora sgridandolo ora esortandolo, perché conosca il valore della libertà, necessaria a percorrere la via dell’infinito progresso; Dio non cesserà mai di volere il bene dell’uomo (A.h. 4,11,1-2 [A. Rousseau, B. Hemmerdinger, C. Mercier, L. Doutreleau] SC 100, 496-502). È la tesi che poi verrà ripresa da Gregorio di Nissa col principio della successione naturale delle cose, secondo un ordine progressivo: l’akolouthìa. S. Ilario di Poitiers vuole che l’uomo si immerga nella ricerca del mistero del Dio ingenitus e unigenìtus e lo incoraggia dicendogli:
«Cammina, prosegui, insisti nelle tue ricerche; io so che non giungerai a termine, tuttavia mi rallegro dei progressi che farai. Chi segue con ardore l’infinito, benché non possa raggiungerlo, guadagnerà sempre nel suo cammino» (Trin. 2,10 [P. Smulders] CCL 62,48).
Il solo vero obiettivo dello studio era per i Padri come arrivare a Dio e per questo non si poteva non partire dalla Sacra Scrittura, cioè la sua parola. Per Origene (Hom. Lev 6,1; 6 [M. Borret] SC 286, 268; 290-296) è da applicarsi a questa parola pregando e meditando giorno e notte perché ci sia rivelato come osservare la legge spirituale non solo nell’intelligenza, ma anche nelle azioni.
2. Elementi formativi globali
La pastorale patristica vede l’uomo nella sua unità. I principi che segue sono quelli validi per sempre perché superano luoghi e tempi. Ma di questi alcuni sono specifici e riguardano le età diverse; i ragazzi dell’età scolare, diremmo oggi; i giovani che si avviano alle varie professioni; il sesso maschile e il sesso femminile. Altri, invece, sono comuni ai pagani come ai cristiani. Il giuoco, ad esempio, voleva significare una ripresa di energie, per spingere la mente a comprendere meglio le cose liberandola dall’ostacolo della stanchezza. Giovani pagani e cristiani avevano giuochi comuni. Così per le gare atletiche.
Il principio dell’emulazione, conquista già della Grecia classica, passa ai cristiani. L’emulazione postulava naturalmente il senso della collettività che con i cristiani era molto più sviluppata per la vita dell’ecclesia. Bisognava per ognuno e per tutti tener conto delle forze del progresso, del temperamento e dello zelo non sempre uguale nei giovani. Gli autori cristiani miravano all’aspetto unitario dello sviluppo della personalità. I momenti più seguiti per la pastorale erano quelli di passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. Tutto ciò che oggi va sotto il nome di tecniche d’indagine, di sociologia del lavoro, di educazione ritmica ecc... fu intravisto dai Padri.
2.1. La lettura «a voce alta»
L’uso della lettura ad alta voce presso gli antichi fu studiato nella sua genesi e nei suoi effetti dal Di Capua (F. Di Capua, Osservazioni sulla lettura e sulla preghiera ad alta voce presso gli antichi, Scritti minori, Roma 1959, pp. 1-40). Era un esercizio che rendeva l’uomo robusto e in armonia con i suoi diversi atteggiamenti dello spirito. La lettura di un brano, la recitazione di una poesia, la declamazione di un discorso, richiedevano una voce armoniosa e suasiva con toni, modulazioni e flessioni varie per delle lingue come la latina e la greca che attraverso la loro quantità sillabica facevano avvertire sia il melos che il ritmo con tutta la persona in movimento per Yactio cioè il gesto che doveva accompagnare le parole. Il ritmo della frase era messo in rilievo dal gesto considerato come l’eloquenza del corpo. Gli avvertimenti che si davano ai giovani per la lettura ad alta voce erano comuni a quelli che si davano per gli esercizi ginnici. Celso consiglia a chi è stanco ed ha digerito male in primo luogo la lettura ad alta voce (clara lectio) e poi la scherma e la corsa. Il ginecologo Sorano ordina alle donne che sono al quarto mese di gravidanza la lettura ad alta voce e il moto. Se la lotta forma il corpo muscoloso solo esternamente, la lettura ad alta voce, invece, rafforza gli organi interni e fa respirare profondamente a pieni polmoni. Inoltre come moto dell’anima accresce il calore naturale, vivifica il sangue, allarga le arterie, purifica gli umori ed impedisce ai residui guasti della digestione di intossicare l’organismo. Come si faceva per gli atleti anche per gli esercizi di lettura si praticavano l’unzione con l’olio e i massaggi.
Clemente Alessandrino (Paed. 3,10,50,3; 3,10,51,1-3 [C. Mondésert - Ch. Matray - H. I. Marrou] SC 158; 108; 110-112), oltre l’esercizio ginnico della lettura ad alta voce, consiglia la lotta in piedi con la evoluzione della nuca, delle mani e dei fianchi. Per lui non sono da cercare né l’artifizio né l’ostentazione da parte dei giovani sportivi, ma la sanità utile e vantaggiosa. Sempre è da mirare alla misura giusta. Come è necessario che le fatiche precedano i pasti, così l’affaticarsi senza criterio è stancante e dannoso alla salute.
Il principio pure impartito ai giovani alla scuola di retorica che le parole producono effetti più grandi del flauto e della cetra, la cui armonia colpisce l’animo, mentre la temperata varietà dei suoni trasfonde le passioni nell’ascoltatore, passa nella liturgia. Gli strumenti erano banditi dalla comunità cristiana. Il canto doveva vibrare col ritmo della mente e del cuore, poiché l’uomo nella preghiera a Dio era impegnato con tutta la persona.
L’organismo umano mediante la voce era considerato il migliore strumento musicale per inneggiare a Dio.
2.2. Il canto
li canto era l’allegria dell’assemblea cristiana, e la presenza del Cristo era il canto dell’assemblea. La rapida diffusione dei salmi esercitò pure la sua influenza nella musica cristiana. I salmi costituivano il patrimonio di cultura e di devozione. Paola e la figlia Eustochio, esortando Marcella a raggiungere Betlemme, descrivono una bella scena agreste in cui l’aratore, il mietitore e il vignaiolo cantano aliquid Davidicum (Hier. Ep. 46, 12 [I. Hilberg] CSEL 54, 341-343). La cura della voce che si doveva avere per il canto era la stessa che si voleva per il lector cristiano incaricato di leggere i Sacri Testi nelle assemblee liturgiche. Iuvenis era il lettore cristiano Aurelio scelto da Cipriano e presentato ai fedeli per la conferma. Era giovane per età e aveva confessato due volte il Cristo (Cypr. Ep. 38,1 [G. Hartel] CSEL 3, 2, pp. 579580).
La recitatio doveva essere fatta con voce modulata e canora, ma robusta. Il lector cristiano nella recitatio dei Sacri Testi doveva far risuonare le parole per una maggiore commozione.
I lettori erano educati alla lettura durante il culto, con il ritmo melodioso voluto dai brani biblici, scritti naturalmente senza intervallo. Commodiano (Instr. 2,35,5-7) paragona la voce del lettore alla tromba. Lo stesso poeta (Instr. 2,26,1-10) ci dice pure le qualità morali del lettore: esemplare nella condotta di vita, umile e pacifico. L’aderenza della dottrina evangelica al quotidiano, era del resto la base su cui si fondava tutta la vita della comunità.
Ritornando al canto, le immagini che si sviluppano riguardo all’ascesi e all’armonia cosmica avevano molta presa sulPanimo dei giovani. Essi alimentavano il canto liturgico ritenuto il grande sacrificio spirituale di lode al Signore. È il canto del Nuovo Testamento, fatto dal profondo deiPanima, molto più nobile di tutti gli strumenti dell’Antico (F. J. Basurco, El canto cristiano en la tradición primitiva, Madrid 1966, pp. 188-189).
3. La formazione «spirituale»
Molti insegnamenti ricevuti nella scuola dei retori per la loro utilità vengono mutuati nella formazione spirituale dei giovani attraverso l’esegesi biblica. Il retore, che poi era lo studioso della linguistica storica, insegnava ai giovani che la lettura di un libro doveva essere per loro un continuo adnotare per e:serpere. I Padri che erano esegeti biblici dicevano la stessa cosa: ciò che era degno di nota andava scelto e riunito sotto varie rubriche. Digesta sancta diventano per Tertulliano (Ap. 47,3 [E. Dekkers] CCL 1, 163) le parti raggruppate della S. Scrittura.
3.1. La funzione della S. Scrittura
Molti argomenti diatribici dibattuti nelle sale di conferenze, come l’amicizia, la brevità della vita, il disprezzo della gloria e delle ricchezze vengono sviluppati e ridimensionati alla luce della Sacra Scrittura. Ad esempio, l’amicizia fu molto esaltata dagli autori pagani; innumeri sono le sentenze e i proverbi riguardanti gli amici e l’amicizia. Per il neoplatonismo l’amicizia diventa la preparazione delle anime a Dio. Sui giovani che venivano dalle diverse correnti culturali cadeva opportuna la sostanza scritturistica dei Padri. Per la Bibbia l’amico si ama in ogni momento (Prv 17,17); l’amico fedele è una forte protezione (Sir 6,14); la parola soave moltiplica gli amici (Sir 6,5). Ci fermiamo solo a queste pochissime citazioni per non appesantire la ricerca.
Era la comparazione biblica alla realtà del quotidiano che apriva al cammino del sacro. A chi cercava il Cristo era come se il Cristo gli parlasse. Le immagini paoline dell’atleta e del soldato ricorrono sempre. Siamo degli atleti che gareggiano in uno stadio spirituale. Anche tu dice S. Ambrogio al giovane competens, il futuro battezzando della prossima Pasqua, ti sei iscritto per la gara di Cristo nella competizione della corona: medita ed esercitati, ungiti con l’olio della letizia e della mortificazione (Hel. et ieiun. 21,79 [F. Bori] BA 6, 118-120).
Il fedele che col battesimo appartiene alla Chiesa non è più separabile dal Cristo.
3.2. Elementi di filosofia comune
La pastorale giovanile dei Padri non può ignorare la base filosofica di dominio comune. Basilio è noto anche per il suo Discorso ai giovani (Orat. adol. a cura di M. Naldini, Firenze 1984 [Biblioteca Patristica 3]). Egli non dimentica il tema caro ai neoplatonici della superiorità dell’anima rispetto al corpo affermando che l’eccessiva cura del corpo è di chi non conosce sé stesso (Orat. adol. 9,6, op. cit., p. 120). Anche Origene (Or. pan. 11, 140-144 [H. Crouzel] SC 148,152154) aveva insegnato che il compito delia vera saggezza era quello di guidare l’anima alla conoscenza di sé sino a riflettersi nella intelligenza divina. Non diceva che lo scopo di ogni uomo era di avvicinarsi a Dio e di rimanere in lui? Ma l’anima deve evitare di perdersi dietro ai beni materiali per praticare la giustizia. In questo modo potrà riflettere sulle origini del male e su ogni irrazionalità.
Un altro aspetto collegato con la formazione giovanile era la tecnica dello sviluppo delle immagini. L’educazione a questo sviluppo era necessaria alle varie vocazioni dei giovani. Per quelli che si orientavano agli studi ecclesiastici era utile per i momenti creativi della liturgia o della sistemazione teologica; un addestramento per il passaggio dal visibile all’invisibile.
Il centone fu in genere molto usato nei primi secoli della nostra era. Si tratta di una certa struttura poetica fatta di vari passi e di diversi significati in modo che due emistichi si congiungono per formare un verso solo o un verso e mezzo unito ad un’altra metà e così di seguito. Ausonio (ca. 310-400 ca.) chiarisce il modo con cui si possono avere le diverse combinazioni poetiche, rifacendosi al gioco che i greci chiamavano ostomachion (Cent, nupt. 14 [R. Peiper] Lipsia 1886, pp. 207208). Si combinano con 14 ossicini le diverse figure geometriche, triangoli equilateri, isosceli o scaleni. Adattando questi pezzi in posizioni diverse si hanno innumeri figure: l’elefante, il cinghiale, l’oca, il gladiatore, il cacciatore, il cane, la torre ed innumerevoli altre cose siffatte che uno varia con più abilità dell’altro. Ma, annota Ausonio, la composizione degli esperti è cosa mirabile, mentre il guazzabuglio creato dagli inesperti è assai ridicolo. Siamo così alle convergenze degli acrostici e dei carmina figurata che arrivano a rappresentare con la croce molti altri simboli cristiani. E siamo tra Pectorius e Rabano Mauro.
4. La «teologia del lavoro»
La teologia del lavoro è una realtà che si vive e si costruisce nei primi secoli cristiani. Essa poneva dei problemi che concernono la nostra vita esistenziale, coinvolgendo in primo piano i giovani che più venivano interessati alle questioni del loro avvenire per l’orientamento, l’apprendimento e l’aggiornamento del lavoro stesso. La teologia è avvertita dai Padri diversamente che da noi moderni. Non era un’attività culturale della mente avulsa dalla fede ma da questa interamente presa. Era credibile il teologo che testimoniava con la vita che conduceva la fede che professava. Teologo era ogni vero amico di Dio. Lo Spirito Santo era alla base della riflessione teologica e dallo Spirito veniva chi assicurava alla comunità ecclesiale l’«intellectus fidei». La teologia patristica scaturisce dalla riflessione biblica con il confronto dell’atteggiamento dell’uomo davanti alle realtà quotidiane, da un’esegesi che affonda le sue radici nell’anima.
4.1. Il lavoro per la formazione spirituale
Gli elementi sono da ricavare dalle varie opere dei Padri che vedevano nel lavoro una delle forze maggiori per l’acquisizione dei valori spirituali, dalle varie regole monastiche prebenedettine e dalla iconografia paleocristiana.
Girolamo nello scrivere a Leta che gli aveva chiesto come educare la figlia Paola le dice che impari a lavorare la lana, a reggere la conocchia, a tenere fermo sulle sue ginocchia il canestro, a girare il fuso e a torcere col pollice la parte più delicata della lana, cioè lo stame (Ep. 107,10 [I. Hilberg] CSEL 55, 300-301).
Rustico che aveva molto studiato in Gallia e a Roma, abbandona la carriera politicoamministrativa che gli si prospettava rosea e si fa monaco. Si rivolge a Girolamo per avere dei consigli. In questi consigli avvertiamo l’eco di una abitudine di vita. Girolamo l’esorta ad attendere sempre a qualche lavoro manuale per non cadere nel vizio. Attraverso il lavoro deve procurarsi i mezzi necessari per il suo vivere quotidiano. Egli può intrecciare con i giunchi una cesta, o con vimini flessibili un canestro, togliere col sarchio le cattive erbe dal terreno, tracciare solchi regolari nel campo e dopo aver piantato il vivaio disponendo per ordine le cose, portarvi l’acqua per l’innaffiamento. Inoltre c’è la trascrizione dei libri. Tutte le esortazioni di Girolamo partono da Prv 13,4 secondo cui il pigro è in balia delle passioni. Il lavoro non deve lasciare margine alcuno al vagare della mente perché lo spirito sia vigilante (Ep. 125, 11, op. cit., CSEL 56, 129-131). S. Ambrogio (De virg. 1,60 [O. Faller] FI. Patn. 31,43) ci parla delle vergini, le indefessae milites castitatis del territorio piacentino e bolognese, che rinunciano al mondo per vivere in comunità alternando i canti spirituali col lavoro che, oltre al loro sostentamento, serve alle opere caritative.
4.2. Lavorare per apprendere uno stile di vita
Lavoro, giustizia e carità costituiscono un trinomio sul quale Basilio fonda la sua pastorale, prima come presbitero (364-370) e poi come vescovo (370-379). Da asceta concepì molte idee che potè realizzare soprattutto da vescovo. Molte sono le sue riflessioni che concernono il lavoro. Bisogna che il giovane impari bene il mestiere. La mente umana non è capace di attendere nel contempo a più cose. E meglio conoscere approfonditamente un mestiere che conoscerne molti in superficie. Il passare da una cosa all’altra oltre ad impedire di fare bene il proprio lavoro manifesta una insistente leggerezza di carattere (RBA 41, 2 fus. tract. PG 31, 1022-10237). Come è necessario ad ognuno il cibo giornaliero, così è necessario il lavoro secondo le proprie forze. Non si vuole che si producano oggetti di lusso. Tutto deve essere misurato alla decenza e alla sobrietà. Sono consigliati i mestieri di muratore, di fabbro, di calzolaio e di agricoltore. I monaci lavorano anche per conto terzi e si comprende ogni raccomandazione che possa tradurre in pratica i principi che non offendono la povertà e il costume corretto del vivere. Dal monaco calzolaio si chiede che faccia le scarpe che solo servono a salvaguardare il piede, rendendo così implicito il divieto a non usare ornamenti di oro, di argento o di altro materiale di lusso. Il principio di Paolo (2 Ts 3,12) che almeno uno mangi il suo pane lavorando serenamente per Basilio è detto per gli individui disordinati e oziosi in quanto è meglio che uno pensi a sostenere sé stesso che ad essere di peso agli altri. Nel lavoro ognuno deve tendere ad aiutare i bisognosi.
Ognuno per Basilio deve attendere al proprio lavoro con alacrità e compierlo con la massima dedizione, come chi ha Dio davanti a lui quale suo sovrintendente. L’alacrità del lavoro si uniforma ad ogni altra attività da riportare sempre allo spirituale. Anche verso l’ospitalità è da rimuovere ogni negligenza per osservare una disciplina più rigorosa. La pastorale dei giovani esula da quella che noi chiamiamo noviziato per il monacheSimo. E cosa diversa e non ha che poche analogie. A chi chiedeva di essere incorporato nella comunità monastica si ordinava subito, per saggiarne il carattere, di eseguire dei lavori onerosi e umilianti. Si voleva osservare se li compiva volentieri o a malincuore. Ma non vogliamo uscire fuori dall’argomento che stiamo trattando. I Padri consideravano giovani quelli che erano nell’età intermediaria tra l’adolescenza e la virilità, l’età, a meglio precisare, che poteva professare la verginità, quella che di solito si ritiene più adatta e ideale per le nozze. È l’età che la narrativa moderna chiama preziosa. Quando i Padri parlano dell’uomo, parlano del giovane già e non ancora uomo e su di lui fanno cadere l’accento per la spinta del movimento generazionale.
4.3. Il lavoro come collaborazione a Dio creatore
La scuola antiochena aveva fatto del lavoro l’esegesi dell’uomo immagine di Dio. Qui, aveva detto Severino di Gabala (De mundi creatione 1,6 PG 56, 436), si manifesta la sua intelligenza che è imitatrice di Dio, la quale oltrepassa la materia stessa. L’uomo è la luce del mondo che ci fa vedere il grano, il pane, l’uva, il vino, la lana e i vestiti. Le riflessioni metafisiche sul lavoro in questa scuola antiochena sono continue. Per il Crisostomo (In ps 8, 7 PG 55, 116-118) il lavoro è da intendere come la vera redenzione dell’uomo perché gli fa prendere coscienza della sua condizione di creatura e di peccatore. Esso entra nella prospettiva della bontà di Dio perché diventa come un freno alle passioni umane. Per lui è molto chiaro che il lavoro ci fa ritornare a Dio e non può essere considerato un’onta, ma motivo di fierezza per la libertà che con esso si ottiene. Egli non fa distinzione alcuna tra lavoro manuale e lavoro della mente e pone come origine dei mali che si abbattono sull’umanità la scarsa considerazione in cui si tiene il lavoro manuale come se fosse una menomazione rispetto alle attività intellettuali (In Prisc. et Aquil. 1,5 PG 51,194-196).
I Padri considerano il lavoro come punto d’incontro tra la materia e lo spirito; una dimensione cosmica che rende l’uomo collaboratore di Dio nella creazione che sempre progredisce. Per la prima volta si hanno riflessioni antropologiche sul lavoro come unione spirituale e la pastorale dei Padri qui insiste. Si ribalta l’antica concezione del mondo classico-pagano che valuta l’opera degli scrittori e degli oratori come la sola che rende libero e degno l’uomo. Il lavoro fine a sé stesso non porta al miglioramento dello spirito umano come, invece, il lavoro espletato nella piena coscienza di collaborare al bene collettivo che è l’amore del prossimo. Un altro principio collegato direttamente col lavoro è l’aggiornamento.
Origene (Princ. 1, 4, 1 [H. Crouzel-M. Simonetti] SC 252, 166-168) polemizza con coloro che nella prassi della vita si comportano con molta negligenza. Egli pur essendo un forte ragionatore, talvolta non preferisce le vie della discussione ma sceglie il paragone. Gli esercizi di esemplificazione e di paragone per la loro efficacia, erano molto in uso nelle scuole dell’antichità. Il paragone che porta per l’aggiornamento è al geometra e al medico. Sino a quando l’uno e l’altro si esercitano nello studio delle loro discipline facendo crescere le conoscenze apprese da giovani, essi sono inseriti nella realtà della vita. Se invece perdono la solerzia a poco a poco per la negligenza incominciano a sfuggire poche cose, ma poi passando del tempo tutto cade nell’oblio. Se, invece, appena avviati per la china del decadimento si risollevano, prontamente ritornano in sé stessi recuperando ciò che solo da poco avevano perduto.
5. Una pastorale giovanile?
Come si sta notando, non si può sic et sempliciter cercare una pastorale giovanile nei Padri. Essi vedono l’uomo nella sua interezza e fanno un discorso d’insieme. Per questo non si è potuto tracciare una linea continua, ma solo in penombra indicare dei legami che uniscono alcuni punti fondamentali dei Padri stessi. È l’unità antropologica che loro premeva. È in questa unità da trovare la forza di spinta che col giovane prende tutto l’uomo. Ad esempio, Pomerio, un Padre che scrisse un’opera che da poco è stata tradotta in italiano (G. Pomerio, La vita contemplativa, Città Nuova Editrice, Roma 1987), che ha per titolo La vita contemplativa, parlando della temperanza dice che questa virtù quando alberga nell’anima colma di passioni, regola i sentimenti, moltiplica i desideri santi, reprime ciò che è vizioso e mette ordine in tutto quanto abbiamo di confuso in noi. Inoltre tronca i cattivi pensieri e ne ispira di edificanti, raffredda l’ardore della sessualità e della lussuria e riscalda l’animo con il desiderio del premio futuro; restituisce alla mente tranquillità e la protegge sempre da ogni insorgenza di vizi (La vita contemplativa 3, 19, 1 PL 59, 502). La temperanza come le altre quattro virtù cardinali sono collegate e non riguardano una sola età dell’uomo. Pomerio precisa che temperanza si ha quando rispettiamo i più anziani, amiamo fraternamente i coetanei, trattiamo i più giovani con benevolenza; quando osserviamo il silenzio se parla uno più anziano, quando accogliamo prontamente il suo invito a parlare, quando non gridiamo nelle riunioni e non permettiamo che il riso degeneri in schiamazzo, quando non sparliamo di nessuno né appoggiamo volentieri quelli che sparlano. Chi osserva la temperanza non guarda a cosa rimproverare nei fratelli ma al modo come lodare Dio. E quindi si è pure temperanti quando si è disposti a compiere tutto ciò che rende moderati e sobri (Idem, 3, 19, 2 PL 59, 502-503).
Pomerio parlando di quelli che nella Chiesa esercitano il magistero dice che essi devono ricorrere sia alla severità per riprendere, sia alla pazienza per sopportare chi rifiuta di correggersi. È da seguire quanto San Paolo raccomanda a Timoteo: «Rimprovera, supplica, fatti sentire con ogni pazienza e dottrina» (2 Tm 4,2). È il passo che Pomerio parafrasando spiega così: rimprovera i coetanei, supplica quelli più vecchi, fatti sentire con i più giovani. E il tutto calca con l’espressione: con ogni pazienza e dottrina perché la persona rimproverata con moderazione dimostra gratitudine e rispetto per chi la riprende, mentre chi è offeso dalla durezza di un rimprovero esagerato, né accetta il rimprovero, né si corregge (Idem, 2, 5, 1 PL 59, 449).
Nelle biografie poi i Padri mettono in risalto le virtù cardinali dei santi durante la loro giovinezza; così per Gregorio il Taumaturgo da parte di Gregorio di Nissa. Avendo trascurato tutto quello che appassiona la gioventù, come la equitazione, la caccia, il culto dell’eleganza, l’abbigliamento, il giuoco dei dadi, i piaceri, subito si diede alla pratica delle virtù, scegliendo sempre, man mano che cresceva ciò che era conveniente alla sua età. Nell’esercizio delle virtù cercò per prima la sapienza, alla quale seguì la sobrietà; ad entrambe era legata la continenza. Col disprezzo del denaro, esercitò anche la modestia e la moderazione. Del resto la causa della vanità e della superbia è l’avidità che trascina con sé tali passioni (Greg. Nys., Vit. Greg. Taum., PG 46, 900-901).
Nel discorso di congedo da Origene il suo allievo Gregorio il Taumaturgo (Or. Pan. 11, 137-138, op. cit., pp. 150-151) ci fa conoscere quanto i discepoli apprezzassero la coerenza dei loro maestri. Origene, dice Gregorio, ci spronava energicamente alle opere e alle parole mettendoci in grado di acquisire la conoscenza di ciascuna virtù in tutta la sua interezza. Ci indusse a praticare la giustizia con l’attività che è propria dello spirito. Ci distoglieva dalle vane occupazioni della vita e dal frastuono della piazza, ammonendoci ad indagare il nostro io e a prenderci cura degli affari di effettiva pertinenza dell’anima. Dopo Origene, Gregorio il Taumaturgo e Gregorio di Nissa sarebbe da richiamare uno dei più grandi Padri della Chiesa: Giovanni Crisostomo. Ma O. Pasquato, fa giustamente notare che con il Crisostomo ci troviamo davanti ad una pastorale che coinvolge la famiglia; pastorale familiare dunque, comune alla maggior parte dei Padri. Nella casa in cui regna temperanza, modestia e concordia tra marito, moglie e figli si espande il profumo della dolcezza celeste (In Gen. sermo 8,2; PG 54, 619-620).
6. Raccomandazioni «pastorali»
Il Dictionnaire de Spìritualité alla voce Pastorale del Barrau (T. XII, I, p. 385) fa un accenno alla Histoire de la tradition citando il De officiis ministeriorum di S. Ambrogio, la Regula pastoralis di Gregorio Magno e il De origine ecclesiasticorum officiorum di Isidoro di Siviglia. Il testo che a noi deve più interessare è senza dubbio quello di Gregorio Magno che nei secoli ha esercitato una grande influenza e continua ancora ai nostri giorni. È ormai un classico della pastorale, fecondo per ogni tempo e luogo per l’uomo di ogni età. Ai giovani fa aprire il cuore alla speranza. Gregorio Magno ha uno sguardo molto ampio e avverte i vantaggi che consegue il pastore con la mano ferma ma discreta, e i pericoli che fa correre, invece, il pastore indulgente e permissivo. Per la sua sensibilità antropologica ha la parola adatta per ogni categoria di persone e incide mirabilmente per la chiarezza con cui presenta le situazioni. Per lui ha moglie come se non l’avesse chi vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera per necessità la cura della carne, ma Io spirito attende con tutto il desiderio le gioie eterne (Reg. past. 3,27). Dicendo questo pur non nominandoli fa una specie di praeoccupatio per i giovani non sposati. Nel contempo ammonisce i celibi a non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti Paolo inserisce la fornicazione tra i peccati esecrabili e indica quelli che se ne macchiano: gli adulteri, gli effeminati, e gli omosessuali (1 Cor 6,9-10). La lezione di Gregorio Magno è continua. Se i celibi mal sopportano le tempeste delle tentazioni con pericolo della salvezza, bisogna che cerchino il porto del matrimonio. Meglio sposarsi che ardere dice la Scrittura (Eb 13,4). S. Gregorio vuol prevenire ed è assai probabile che nel suo animo l’avvertimento ai celibi comprenda anche i giovani in genere (Reg. past. 3,27). Non si adatta a tutti una sola specie di esortazione perché sono diversi la natura e il comportamento di ogni persona. Il pastore per edificare della carità deve toccare il cuore con modulazioni e generi diversi (Idem, 3 prol.). Come differisce il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne, così è diversa l’esortazione per i giovani e i vecchi. Per i giovani è necessaria la severità, per i vecchi invece l’amorevole preghiera (Idem, 3, 1). Ma bisogna che il pastore sia pur nel pensiero, esemplare nell’agire, discreto nel silenzio, utile con la parola; sia vicino a ciascuno con la sua carità e più di tutti sia dedito alla contemplazione. Per il suo zelo nella giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori, né attenui la cura della vita interiore per le occupazioni esterne; né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore (Idem, 2, 1). Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare deve prendere ogni precauzione; se si lascia trasportare da un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori possono essere coinvolti dall’onda dell’errore. Chi si sforza di parlare sapientemente non confonda l’unità degli ascoltatori (Idem, 2, 4).
Inoltre bisogna che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo bonaria. L’una e l’altra vengono meno se si esercitano senza il loro aiuto reciproco. Occorre mescolare la dolcezza con la severità, perché chi ascolta non resti esasperato da troppa asprezza e neppure infiacchito da una eccessiva benevolenza (Idem, 2, 6).
Gregorio Magno avverte pure gli stessi Pastori a non amare il favore degli uomini. Quando l’amor proprio prende la guida delle anime, la trascina o ad una mollezza disordinata o ad aspro rigore. Invece è opportuno che le guide delle anime desiderino piacere agli uomini solo per attirare mediante la stima che esse ispirano con una vita che introduce all’amore del Creatore i cuori degli ascoltatori (Idem, 2, 8).