PASTORALE GIOVANILE – bibbia 1

PASTORALE GIOVANILE (bibbia 1)

Mario Cimosa

 

1. Il «giovane» nell’AT

2. Il giovane e la «famiglia»

3. Il giovane e la «scuola»

4. Alcune figure giovanili

4.1. Mosè

4.2. Davide

4.3. Geremia

4.4. Daniele

4.5. Tobia

4.6. Il «giovane» del Cantico

 

1.​​ Il «giovane» nell’AT

Se guardiamo per prima cosa al vocabolario dell’AT,​​ ci accorgiamo che il termine più comune per indicare il giovane è in ebraico il termine​​ na’ar,​​ che in alcuni contesti può significare anche bambino o ragazzo e che la traduzione greca rende con​​ pois, paidion.​​ Tenendo conto di​​ Ger​​ 6,11 e 51,22 si possono distinguere tre fasi della vita di un uomo: bambino, adolescente maschio e femmina, e uomo e donna maturo. Nei libri storici spesso il ventesimo anno viene indicato come quello dell’inizio per fare la guerra e per pagare le tasse. Nel libro del Levitico l’età giovanile viene valutata dal punto di vista della prestazione nel lavoro. Il pieno valore viene dato a chi ha da 20 a 60 anni. Anche a Qumran si dice che 20 anni è l’età per passare fra gli adepti a pieno titolo perché si è in grado di «conoscere il bene e il male».

Nell’AT​​ si mette in risalto la bellezza dei giovani, maschi e femmine, la forza nelle prestazioni belliche. Si dice che la giovinezza è il tempo della gioia e dell’amore, anche se è il periodo dell’immaturità e dell’inesperienza. Come si può ricavare soprattutto dai libri sapienziali, quello che sta a cuore agli adulti nei confronti dei giovani non è soltanto la cultura profana ma anche e soprattutto la loro formazione religioso-morale e professionale. Anche il giovane prende parte alla comunità del popolo d’Israele che si sente particolarmente legata a Iahvè e che nella celebrazione dell’Alleanza prende pienamente coscienza della sua appartenenza a Lui come proprietà particolare. Nella conclusione e siglatura dell’alleanza sinaitica si dice che un gruppo giovanile, viene usato il termine​​ na'ar/«giovane», fa da ministrante con Mosè nella preparazione del sacrificio.

In diversi luoghi delI’A​​ T​​ si vede come i giovani svolgono un ruolo di primo piano: basti pensare a Giuseppe, a Samuele, a Davide o ad altri di cui traccerò un breve profilo. Dio sceglie nella sua opera di salvezza molto spesso i piccoli, i giovani per realizzarla pienamente: «Meglio un giovane povero e intelligente che un re vecchio e stolto, incapace ormai di controllarsi. Il giovane può uscire di prigione anche se è poveraccio e regnare al posto del vecchio. Tutta la gente sta dalla parte del giovane»​​ (Qo​​ 4,13-15).

Ma vediamo un po’ quali sono gli ambienti in cui il giovane si forma adulto, membro qualificato del popolo di Dio.

 

2.​​ Il giovane e la «famiglia»

Il giovane ha nella famiglia il suo primo contesto vitale, il luogo primordiale e insostituibile della sua educazione e formazione umana. I libri sapienziali ci offrono delle informazioni molto preziose sul rapporto educativo tra genitori-figli come si può desumere dai libri​​ dell’AT.​​ Tra questi il libro dei Proverbi occupa un posto privilegiato.

Il testo di​​ Pro​​ 1,8-9 lo possiamo ben considerare come il riassunto di tutto il libro o meglio la chiave di lettura di questo libro sapienziale, forse poco conosciuto, ma molto importante soprattutto nel campo così difficile dell’educazione dei giovani.

«Ascolta, figlio mio, i consigli di tuo padre, non disprezzare gli insegnamenti di tua madre. I loro insegnamenti ti saranno preziosi e ti adorneranno come una corona sul capo e una collana al collo».

Per i sapienti orientali l’educazione è anzitutto un affare dei genitori: da essi i giovani ricevono istruzione e sapienza.

Si tratta di orientamenti per la vita, non scolastici né religiosi. Essi salgono dal cuore ansioso e trepidante di un padre e di una madre che con amore e dolcezza vogliono orientare i figli per quei momenti in cui saranno soli nella vita. La paterna invocazione:​​ figlio mio​​ s’incontra ben 16 volte in​​ Pro​​ 19 (23 volte in tutto il libro) e rivela il carattere pedagogico e l’interesse morale di tutto il libro. Carattere pedagogico che risalta non solo per il suo colorito umano, ma soprattutto per i motivi spirituali che s’incontrano ad ogni passo e fanno di questo libro un vero​​ vade mecum​​ spirituale della gioventù che vuole formarsi alla vera sapienza. S. Girolamo diceva a Leta «d’istruire per la vita nei​​ Proverbi» la propria figliuola.​​ Pro​​ 1,8-9 è un’esortazione ai giovani a tener conto dell’insegnamento dei genitori se vogliono conquistare la corona della stima e la gloria della virtù.

I giovani che seguiranno gli orientamenti dei genitori riceveranno la corona di alloro e di gloria che veniva consegnata a coloro che risultavano vincitori nelle gare sportive. Il commento più bello a questi due versetti ce lo offre il libro del​​ Siracide​​ al c. 21,19.21: «Agli occhi dello stolto l’educazione è come una catena ai piedi o le manette che si mettono ai polsi. Invece per chi ha buon senso, essa è come un gioiello d’oro o come un braccialetto attorno ai polsi».

«Il ferro si affila con il fuoco, / l’uomo si affina nei rapporti con gli altri»​​ (Pro​​ 27,17). Le relazioni degli uomini tra di loro è uno dei maggiori centri d’interesse del libro dei Proverbi. Le relazioni «genitori o educatori-figli» come ci insegnano anche la moderna psicologia e pedagogia sono tra le più importanti esperienze che plasmano la personalità. Gli adolescenti e i giovani hanno come meta la loro maturità umana, l’acquisto della sapienza o di quella conoscenza della vita che permette loro di riuscire o di avere successo nella vita.

Gli educatori li vogliono aiutare nel realizzare questa meta e sono contenti o disperati a seconda del loro successo o del loro fallimento.

Dicono i Proverbi: «Un figlio saggio fa contento suo padre, un figlio insensato fa disperare sua madre»​​ (Pro​​ 10,1). I figli riusciti sono la felicità dei genitori che vedono in questo il successo della loro opera: «Fa’ contenti tuo padre e tua madre; / da’ a tua madre questa soddisfazione»​​ (Pro​​ 23,25).

«Un figlio stolto è dispiacere per il padre, amarezza per la madre che l’ha generato»​​ (Pro​​ 17,25).

Le relazioni tra figli e genitori comportano una serie di atteggiamenti che sono il buon esempio, i consigli, le ammonizioni, i rimproveri, il rispetto, l’obbedienza, gli insegnamenti paterni. L’istruzione​​ (musar-paideia)​​ comprende il rimprovero e qualche volta anche il castigo. Il lasciarsi educare comporta sempre una certa dose di umiltà docile, senza arroganza e superbia.

«Chi rifiuta la correzione disprezza la propria vita (nefesh), chi ascolta il rimprovero acquista senno (lèb)»​​ (Pro​​ 15,32).

Sia nella formazione morale (l’educazione) che in quella intellettuale (l’istruzione) il metodo usato è sempre lo stesso.

«Gli insegnamenti (dei genitori) saranno per te un faro luminoso, i loro consigli ti faranno sapere come comportarti, i loro richiami ti aiuteranno a vivere da saggio»​​ (Pro​​ 6,23). La riflessione teologica ha trasferito in Dio la stessa metodologia pedagogica che i genitori e i maestri usano con i figli o alunni. «È in Dio che si fonda l’autorità», quindi il modo ideale di esercitarla.

Il testo di​​ Pro​​ 3,11-12 ne è la sintesi: «Figlio mio, accetta l’istruzione del Signore​​ (musar Iahvè - paideia Kyriou)​​ e non stancarti dei suoi avvertimenti. Il Signore corregge​​ (paidéuei)​​ quelli che ama come un padre i figli più cari».

 

3.​​ Il giovane e la «scuola»

Forse già ai tempi di Salomone esisteva una prima scuola ebraica per preparare i futuri funzionari e i diplomatici. Lo studente era un adolescente che iniziava la sua scuola a 12 o a 14 anni e durava fino all’età adulta (circa i vent’anni). In un testo del II sec. a.C. proprio del Siracide c’è un invito ad andare a scuola: «Venite a me, voi che avete bisogno di istruirvi, venite a stabilirvi nella mia scuola»​​ (Sir​​ 51,23). Nel testo ebraico del Siracide la scuola è chiamata:​​ bèth midràsh (casa dello studio).​​ Da​​ Pro​​ 1,20-22 sappiamo che forse la scuola si faceva alle porte della città, all’aperto: «Per le strade e sulle piazze la Sapienza lancia i suoi appelli; dall’alto delle mura e alla porta della città essa chiama e proclama...». Ma essa poteva svolgersi anche in edifici a ciò preparati come apprendiamo da​​ 2 Re​​ 6,1-2: «Un giorno, i profeti del gruppo dissero a Eliseo: “L’ambiente in cui ci riuniamo con te è troppo piccolo per tutti noi. Lasciaci andare al fiume Giordano; ci procureremo un tronco per uno e poi costruiremo qui un locale adatto a riunirci”. “Andate pure, rispose Eliseo”». Il maestro era chiamato​​ moreh (istruttore),​​ come si chiama ancora oggi in Israele, o​​ melammed (insegnante) (Pro​​ 5,13). Era definito il padre, il sapiente anche se questo termine ha un significato molto ampio. Il professore oltre ad essere pagato dal re poteva esserlo anche dagli stessi studenti come sembra insinuare​​ Pro​​ 4,7: «La cosa più importante è diventare sapiente; acquista la sapienza, anche a costo di vendere quel che hai».

Sui metodi non sappiamo molto: si leggeva ad alta voce per imparare a memoria, «si scriveva sulla tavoletta del cuore»​​ (Pro​​ 3,3; 7,3). Le materie o i contenuti dell’insegnamento ci sono indicati in​​ IRe​​ 5,10-13, ma tutti erano orientati all’apprendimento della sapienza ossia di quella saggezza pratica che doveva aiutare a cavarsela nelle situazioni più difficili dell’esistenza umana.

Specie i Proverbi erano forse un manuale scolastico in cui i giovani si esercitavano come su un’antologia di sentenze su cui riflettere e discutere poi con i maestri. In questi testi, come vedremo, ci sono allusioni a diversi temi che riguardavano l’educazione dei ragazzi e delle ragazze​​ (Pro​​ 31,10-31). Ma oltre i Proverbi anche il Siracide era un libro per la scuola. Ben Sira era un professionista del II sec. a.C. e il suo libro sembra un testo scolastico o una dispensa messa insieme in parecchi anni di insegnamento: cosi si spiega in parte la mancanza di unità tra le varie parti. Leggendo questi due libri e gli altri libri sapienziali si deve tener conto di questo ambiente sociale scolastico in cui essi venivano usati. La definizione più chiara dello scriba-professore ce la dà lo stesso Ben Sira. Egli è l’uomo «che nelle riunioni ha grande responsabilità», colui che​​ «è​​ chiamato a far da giudice»; capisce «le decisioni del tribunale»; è capace «di educare e di giudicare»; fa fruttare «l’istruzione e il diritto»; compare «tra gli autori dei proverbi».

«Egli studia la sapienza degli scrittori antichi e dedica il tempo libero allo studio delle profezie; egli raccoglie i racconti di uomini famosi e penetra nelle sottigliezze delle parabole, studia il significato profondo dei proverbi e per tutta la vita riflette sugli enigmi delle parabole. È a servizio di persone importanti, è ricevuto anche dai capi di stato; va in missione in paesi stranieri e conosce per esperienza il bene e il male degli uomini». Lo stesso Ben Sira ama presentarsi come​​ sóférscriba.​​ È un maestro e nient’altro che un maestro (cf​​ Sir​​ 38,24—39,11): è questo il culmine della sua carriera.

Forse col suo metodo teorico e nello stesso tempo esortativo egli intendeva portare i giovani ad una presa di coscienza della propria vita interiore. Questo metodo didattico consisteva nel dialogo a due (maestro-allievo) o nell’autodialogo. Forse nel metodo si sente l’influsso della scuola greca.

Nel mondo greco una​​ paideia​​ senza dialogo è impensabile.

Nuovo è però lo sfondo formativo. È una vera personalità a cui sta a cuore la formazione dei giovani che egli vuole raggiungere non solo con lo studio delle memorie dei padri ma anche con i modelli delle scuole greche. Egli mostra di stimare sia la letteratura scritta che l’insegnamento orale dei maestri e la tradizione popolare:

«Non disprezzare quel che raccontano le persone sagge, comportati invece come ti suggeriscono loro: riceverai così un’educazione valida e potrai svolgere mansioni importanti anche tra i grandi. Sta’ attento a quel che raccontano, perché essi l’hanno già imparato dai loro padri. Ti insegneranno a ragionare e a dire a tempo giusto il tuo parere»​​ (Sir​​ 8,8-9). La tradizione è il frutto del buon senso del popolo che la produce, perciò egli la raccomanda ai giovani come la migliore garanzia contro le tentazioni di novità. Composta di detti, proverbi, racconti serviva a completare l’insegnamento dei libri sacri. L’alunno l’apprendeva a scuola e l’approfondiva con la meditazione e la preghiera e si rendeva poi idoneo a trasmetterla agli altri. I maestri più validi vi aggiungevano qualcosa di proprio e l’arricchivano con la propria esperienza. Scrittura e Tradizione sono i frutti migliori di questa sapienza. Il Siracide ha voluto far questo, offrire questo insegnamento vivificato e arricchito con la sua esperienza, il suo buon senso. Ha fatto, come ha scritto molto opportunamente il Dubarle «l’inventario di una eredità».

Il grande elogio dello scriba-maestro​​ (Sir​​ 38,24—39,11) sembra il suo autoritratto: «Vari popoli parleranno della sua sapienza e si riuniranno per fare il suo elogio»​​ (Sir​​ 39,10).

Il Siracide moltiplica i suoi consigli ai giovani: li invita a saper dominare i propri desideri​​ (Sir​​ 18,30—19,3). Questa disciplina del desiderio inizia con l’invito: «figlio mio!». Un invito alla temperanza, al buon uso del danaro, al controllo nell’uso del vino e delle donne. Egli consiglia ai giovani a contenere i desideri carnali. In​​ Sir​​ 6,2-4 viene raccomandato il dominio delle passioni. Li esorta inoltre a dominare la vanità e la curiosità​​ (Sir​​ 3,17-24). Questo testo inizia con l’invito ad avere il senso dei propri limiti. È un’elogio dell’umiltà articolato in tre momenti:

— il Signore è glorificato dagli umili (3,17-20);

— al saggio basta lo studio della legge (3,21-23);

— le idee sbagliate portano fuori strada.

Il Siracide raccomanda ai giovani di mostrarsi studiosi. Il testo di​​ Sir​​ 3,25-29 è un invito alla meditazione che è la forza di chi pratica la sapienza. Il giovane ben formato per questo maestro che è Gesù figlio di Sira è:

— paziente: 1,22-24;

— compassionevole verso gli altri: 7,11.32;

— ed è amico di chi soffre.

Però il dominio di sé stessi che il Siracide raccomanda così spesso ai giovani non coincide con un ripiegarsi su sé stessi e con un rinunciare alla propria personalità, perché:

— il giovane deve coltivare il proprio impegno critico (4,20-31; 20,22-23): «Conserva la tua indipendenza di fronte agli stupidi, non lasciarti influenzare da chi ha il potere»​​ (Sir​​ 20,27);

— tra un falso pudore e l’essere sfrontati c’è una giusta via di mezzo (41,14-42,8);

— non bisogna essere ambiziosi: 7,4-7;

— occorre restar fermi nei propositi e attenti a come si parla: 5,9-13;

— è necessario avere saggezza e coerenza:

33,4-6;

— è meglio prima riflettere bene e poi decidere: 22,16-18.

Nella vita nulla vale di più di un buon consiglio: «Prima di fare qualcosa, parlane con altri e prima di prendere una decisione pensaci su»​​ (Sir​​ 37,16).

Ma molte volte vale di più la propria convinzione, o il consiglio dell’Altissimo che guida sulla strada giusta:​​ Sir​​ 37,7-15. È il vertice della sapienza o il suo fine ultimo: saper fare a meno di aiuti esterni! Saper ascoltare ma anche saper tacere. Chi è saggio coltiva l’arte di parlare nel silenzio:​​ Sir​​ 37,16-18. Chi non sa chiudere la propria bocca ignora Tabe della sapienza:​​ Sir​​ 23,7.12-14: «Figli miei, imparate a misurare le parole, perché chi sa controllarsi non sarà colto in fallo».

Nel dare questi consigli ai giovani il Siracide si ispira al libro dei Proverbi e in certo senso

10 attualizza insegnandoci un metodo per come accostarci alla Bibbia anche nella pastorale dei giovani: riprendere la parola delle Scritture per renderla comprensibile agli uomini di oggi, ai giovani, rendendola attuale. Sono orientamenti che vengono dai libri sapienziali che sono una scuola di sapienza e di formazione umana. Ma​​ l’AT​​ ci offre anche alcuni tipi di giovani che, con il loro comportamento e con la loro vita, hanno qualcosa da insegnare ancora oggi. Presentiamone qualcuno.

 

4.​​ Alcune figure giovanili

 

4.1. Mosè

L’episodio di cui parla​​ Es​​ 2,11-15: quando Mosè vedendo un egiziano colpire un ebreo, «uno dei suoi fratelli», lo uccide ed è quindi costretto a fuggire nel paese di Madian si può porre nella sua età giovanile. Mosè prende coscienza della sua identità, dell’ingiustizia e dell’oppressione del suo popolo e nasce in lui il desiderio di diventare il liberatore dei suoi fratelli. Passeranno molti anni di preparazione prima che con l’aiuto di Dio possa realizzare questo suo desiderio.

 

4.2. Davide

La Bibbia dedica molto spazio alla descrizione dell’attività giovanile di Davide: da quando viene scelto tra i figli di lesse da Samuele: «lesse mandò a prenderlo: era giovane e con un bel colorito, due begli occhi e di piacevole aspetto...»​​ (1 Sam​​ 16,12), a quando manifesta la sua forza nel duello contro Golia: «Tu, gli rispose Davide, vieni contro di me con spada, lancia e giavellotto, ma io vengo contro di te nel nome del Signore degli eserciti, il Dio delle schiere di Israele che tu hai insultato»​​ (1 Sam​​ 17,45). È la forza di Davide, quella stessa che egli aveva descritta a Saul presentandosi con le parole: «Quando ero a guardia del gregge di mio padre, veniva a volte un leone o un orso a portar via una pecora. Allora io lo inseguivo, lo colpivo e gli strappavo la preda di bocca. Se poi cercava di attaccarmi lo afferravo per i peli della gola e lo uccidevo»​​ (1 Sam​​ 17,34-35). Ma anche forza di Dio donata a Davide per un servizio a favore del suo popolo. È bello ricordare accanto a Davide il suo amico Gionata, figlio di Saul. Un altro giovane forte e coraggioso che sa però interpretare la sua forza come strumento al servizio di Dio per il bene del suo popolo. La Bibbia descrive con tratti molto belli​​ (1 Sam​​ 18,1-3) questa amicizia generosa mostrando come la giovinezza oltre ad essere l’età della forza è anche l’età dell’amicizia, dei rapporti leali e disinteressati tra giovani capaci di costruire grandi amicizie.

 

4.3. Geremia

La Bibbia presenta la vocazione di Geremia come quella di una persona chiamata da Dio in età giovanile. Benché forse la risposta di Geremia a Dio che lo chiama: «Signore mio Dio, come farò? Vedi che sono ancora troppo giovane per presentarmi a parlare»​​ (Ger​​ 1,6) si riferisca alla sua incapacità nel parlare per poter fare il profeta, e siccome l’età minima per parlare in pubblico si aggirava sui trent’anni, doveva essere più giovane. Poiché la sapienza viene con l’esperienza e quindi con l’età, la giovinezza sembra l’epoca meno adatta per dire cose sagge e quindi per poter essere ascoltati e fare i profeti. Ma la stessa S. Scrittura ricorda che ci possono essere anche strade diverse per giungere alla sapienza: «So molto più dei miei maestri, perché medito i tuoi precetti. Sono più avveduto degli anziani, perché osservo i tuoi decreti»​​ (Sal​​ 119,99-100). Geremia si vede segnato fin dall’inizio della sua missione dalla parola di Dio che lo ha sedotto e di cui saranno improntati i suoi interventi presso il popolo e che nonostante le difficoltà, le sofferenze e le crisi sarà sempre per lui fonte di gioia: «Ero affamato delle tue parole, e quando le trovavo mi sentivo il cuore pieno di gioia ed ero perfettamente felice, perché appartengo a te, Signore, Dio dell’universo»​​ (Ger​​ 15,16). Pare proprio che sia la giovinezza, caratterizzata da slancio e entusiasmo l’età migliore per accogliere con autenticità la forza della parola di Dio!

 

4.4. Daniele

L’intervento di Dio che concede al giovane Daniele la sapienza e la capacità di giudicare rettamente le cose emerge nel celebre, benché triste, episodio della casta Susanna di cui parla l’autore del libro al c. 13. Questa giovane donna, accusata ingiustamente, viene condannata a morte a causa della corruzione e per il vizio di alcuni anziani: «Mentre essa già veniva portata via per essere uccisa, Dio ispirò la giusta protesta di un giovane, chiamato Daniele»​​ (Dn​​ 13,45).

Anche in questo episodio la Bibbia mette in evidenza il giusto rapporto tra giovinezza e sapienza.

Se Dio dona la sua Parola o il suo Spirito anche una persona anagraficamente giovane diventa sapiente. Bella la considerazione sapienziale del Deuteroisaia: «Egli dà energia a chi è affaticato e rende forte il debole. Perfino i giovani si stancano, anche i più forti vacillano e cadono; ma tutti quelli che confidano nel Signore ricevono forze sempre nuove: camminano senza affannarsi, corrono senza stancarsi, volano con ali di aquila»​​ (Is​​ 40,29-31).

 

4.5. Tobia

Nel libro di Tobia troviamo la figura di questo autentico israelita, il vero credente, il giusto che rimane fedele a Dio in ogni circostanza buona e cattiva della sua vita, fedele alle sue pratiche religiose: l’osservanza della purità legale, la preghiera, la castità, le opere di misericordia, in particolare l’elemosina, la pietà verso i morti... Un padre che inculca queste virtù non solo con le parole ma soprattutto con la testimonianza della vita a suo figlio Tobit in cui ogni genitore e ogni educatore potrebbe vedere un ideale a cui aspirare.

Tobit, un modello di sapienza giovanile: la lettura di questo libretto può dare anche alle generazioni attuali una impronta precisa e indelebile.

 

4.6. Il «giovane» del Cantico

La portata educativa e pastorale del Cantico dei Cantici cade su un punto essenziale dell’esistenza: l’amore umano.

Attraverso la lettura di questo libro ogni giovane ebreo poteva scoprire la sua profonda umanità, le sue più legittime tendenze, le sue aspirazioni, senza estraniarsi dalla storia del suo popolo, dal rapporto col Dio dei padri. Nella tradizione biblica il desiderio, la gioia, il piacere, l’attrattiva amorosa, il reciproco possesso dell’uomo e della donna sono valori positivi, rispondono a un ordinamento «buono» stabilito dal Creatore.

Questo libro segna il recupero della donna, della vita affettiva e del matrimonio, visto non più come contratto ma come una «comunione di amore e di vita». Il Cantico è l’idealizzazione della coppia umana. L’essere «una sola carne», che gli sposi sono chiamati a realizzare viene celebrato con tutta l’enfasi e l’emozione di due cuori giovanili. Il Cantico pone l’amore nuziale in tutti i suoi aspetti anche sensibili in una luce di ottimismo. La lettura di questo libro era destinata a un profondo affinamento dell’animo giovanile e ad aprirlo a una convivenza familiare straordinaria. È lo stesso ideale proposto nel libro di Tobia.

Concludendo, vorrei ricordare poi quel che dice Giovanni nella prima lettera: «Ho scritto a voi, giovani: voi siete forti, e la parola di Dio dimora in voi, e avete vinto il maligno»​​ (Gv​​ 2,14).

La Bibbia non ci offre una definizione di giovane ma ci parla di figure di giovani; ne abbiamo esaminato alcune, che ci fanno pensare a qualche caratteristica di questa età preziosa.

La «forza», è un elemento positivo se viene visto nell’ambito del progetto di Dio e diventa strumento di riuscita, la generosità e il disinteresse, la sapienza precoce, sono doni di Dio che permette alla giovinezza di essere un’epoca di entusiasmo e di saggezza.

 

Bibliografia

Bissoli C.,​​ Bibbia e Educazione,​​ LAS, Roma 1981; Cimosa M.,​​ I giovani in ascolto (Proverbi e Siracide),​​ Ed. Dehoniane, Napoli 1988; Gioia F.,​​ Pedagogia ebraica dalle origini all’era volgare,​​ Carucci, Assisi-Roma 1977; Monari L.,​​ Figure giovanili nella Bibbia,​​ in: «Parole di Vita» 31 (1986) 20-27.

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