MODELLI ANTROPOLOGICI
Carlo Nanni
1. Antropologia e pastorale
2.1. Cultura e umanizzazione
2.2. Cultura e formazione
3. Le attuali tendenze antropologiche
3.1. La crisi dell’immagine moderna dell’uomo
3.2. L’uomo nell’ideologia del progresso e nell’ideologia del cambio
3.3. La crisi antropologica degli anni '70
3.4. Tra moderno e post-moderno
4. I modelli d’uomo emergenti
4.1. L ’intellettuale «organico» e I ’uomo «disorganico»
4.2. Il modello d’uomo dei mass-media
4.3. L'istanza dell’autorealizzazione nel modello di uomo tecnologico e in quello dell’uomo impegnato
4.4. Un modello d’uomo cristiano?
5. Il discernimento nelle affermazioni antropologiche
5.1. Il tendenziale riduzionismo
5.2. Oltre il riduzionismo: la legittimità del pluralismo antropologico
5.3. I limiti del pluralismo antropologico
6. Quale modello d’uomo in educazione e pastorale?
6.1. La priorità di una prospettiva dinamica
6.2. Idea di uomo e prassi educativo-pastorale
7. La partecipazione alla cultura antropologica
7.1. Per una cultura della vita e della promozione umana
7.2. La partecipazione ai movimenti culturali
7.3. Per una prospettiva umanistica di scienza e tecnologia
7.4. L’opera di iniziazione all’umano
7.5. Per una cultura umanistica illuminata dada fede
La voce intende portare la riflessione sulla prospettiva di fondo dell’azione pastorale, là dove la dimensione religiosa e di fede, si incontra con le modalità culturali, con le istanze storiche, con gli impulsi e le aspirazioni personali o di gruppo: in particolare con le idee e con i progetti relativi all’uomo e al suo destino.
1. Antropologia e pastorale
L’attenzione a ciò che l’uomo è o intende essere, a ciò che spera o che pensa di sé stesso, è diventata sempre più viva nell’insegnamento e nella vita della Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II. «Farsi l’occhio all’umano» rientra in quella più vasta capacità di «leggere i segni dei tempi» che costituisce un indubbio obiettivo di ogni vita di fede adulta. Ma l’importanza di una corretta e approfondita visione dell’uomo, cioè di quella che in termini tecnici si dice antropologia, si evince più direttamente dall’analisi della attività pastorale stessa, in sé e per sé e nel particolare momento storico che stiamo attraversando.
L’azione pastorale, non è solo «far cose», ma anche lavorare secondo e per un «progetto-uomo».
Non si agisce infatti senza idee, ma sempre secondo certi quadri di riferimento più o meno coscienti, più o meno organici, ma sempre in ogni caso presenti. Ogni intervento vitale ha sempre una soggiacente visione del mondo e della vita che incide profondamente nel determinare quelle che sono le finalità, i contenuti, le strategie operative, la scelta degli strumenti che si intendono adoperare per condurre a termine l’azione.
Di tale visione del mondo e della vita, gran parte è costituita dalla visione dell’uomo e del suo destino. È tale visione che per lo più fa da luogo di senso per i progetti e per gli interventi individuali e collettivi, spesso in maniera preponderante.
L’annuncio e l’approfondimento del messaggio evangelico non avvengono a mente «pura» dalle idee che si hanno circa 1’esistenza umana. La proposta di fede non solo è incanalata entro un linguaggio e un insieme di codici culturali, ma si accompagna e si coniuga con le visioni, i progetti e i desideri esistenziali di chi fa pastorale.
In questo senso si può dire con una certa sicurezza che non c’è pastorale, catechesi o educazione che non sia solidale con una qualche antropologia.
L’azione pastorale non è fuori del mondo e della storia.
È sempre situata in un contesto socioculturale e collocata in una determinata congiuntura storica. A motivo di ciò risente e partecipa delle concezioni, delle speranze e delle attese del proprio tempo e della propria comunità civile ed ecclesiale, pur avendo da annunciare parole e proclamare «destini» che trasbordano le culture e la storia.
Non solo l’attività pastorale dovrà atteggiarsi e dar risposta o provocare questa mentalità del contesto, ma in concreto ne condividerà con i destinatari le istanze, più o meno fortemente; e in conseguenza accentuerà questo o quell’aspetto del patrimonio di fede ricevuto dalla tradizione.
La presa di coscienza di questa condivisione di mentalità, la vigilanza critica nei confronti di essa, la rielaborazione organica e personale di essa non solo eviterà travisamenti del contenuto oggettivo di fede o scissure e contraddizioni vitali tra ciò che si crede per fede e ciò che si pensa per cultura, ma permetterà di contribuire all’edificazione di quella società a misura d’uomo che è nell’animo di tutti; e di dare il proprio apporto alla costruzione di quei cieli nuovi e di quella terra nuova in cui abita la giustizia e la verità.
2. La cultura e l’uomo
La cultura manifesta ciò che caratterizza l’uomo rispetto alle altre specie viventi e fa capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via della civiltà, vale a dire l’umanizzazione di sé e della natura attraverso il lavoro e la produzione di idee, di valori, di tecniche, di procedure, che appunto diciamo cultura nel senso più vasto.
2.1. Cultura e umanizzazione
Attraverso l’attività simbolico-linguistica l’uomo si è circondato di un universo simbolico e di un mondo di immagini, di cui il linguaggio, il mito, l’arte, la religione, la scienza, la tecnologia costituiscono le forme principali. In tale modo l’uomo dimostra il suo particolare potere di costruirsi un mondo «ideale» con cui media il rapporto con l’ambiente e con gli altri individui e gruppi umani. Nel suo sviluppo storico la cultura si arricchisce di aspetti, di accentuazioni e di particolarizzazioni dovute a cause di origine storica, sociale, economica, politica, religiosa, linguistica, geografica. Mostra tensioni, stratificazioni, giustapposizioni, elementi conflittuali.
Negli ultimi decenni si è fatto più forte un certo «disagio della civiltà» (S. Freud). Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha messo in crisi la cultura tradizionale. La modernizzazione della vita ha messo in questione i sistemi etici e religiosi di riferimento. La complessificazione e la differenziazione della vita sociale hanno ingenerato un forte pluralismo che rischia di polverizzare le singole culture locali e di sfociare in una fragile omogeneizzazione culturale.
La cultura può quindi arrivare a far da velo che impedisce il diretto contatto con il reale. Tuttavia al di là dei suoi limiti, essa è la dimostrazione concreta della intima volontà di una progressiva autoliberazione dell’uomo. La cultura infatti, nella sua realtà più compiuta, presenta punti di vista originali, e talvolta irriducibili, sul mondo, sulla vita, sulla morte, sul significato dell’uomo, sui suoi compiti, sui suoi privilegi e limiti, su ciò che si può conoscere, su quanto è lecito sperare, su ciò che si deve fare. Attraverso concetti e simboli offre i sistemi di rappresentazione che permettono di interpretare sé stessi, il mondo e la storia. Mediante le indicazioni di valore presenta i sistemi normativi che fanno da quadro di riferimento e di giudizio delle situazioni e dell’azione. Grazie all’elaborazione di procedure e tecniche, si hanno i sistemi di espressione e di azione, che aiutano a comunicare e ad intervenire sul mondo e sulla vita individuale e collettiva.
È nel contesto della loro cultura e per mezzo di essa, che le persone entrano nella dimensione propriamente umana della vita, si elevano sopra e al di là di quanto c’è di meramente biologico in loro. Essa offre una forma di vita, nella quale e per mezzo della quale l’esistenza individuale e comunitaria si forma, e nella cui cornice si può costruire il personale e comune destino.
La funzione della cultura è innanzitutto e soprattutto quella di dare un vincolo, di situare l’uomo da qualche parte, in un tempo e in luogo determinato, gravandolo di una certa eredità, per il meglio e per il peggio, di aprirgli nel contempo un certo orizzonte di possibilità, secondo una prospettiva particolare, un particolare modo di significare e di umanizzare il mondo.
2.2. Cultura e formazione
Per dirla con terminologia oggi molto in voga, la cultura e il sapere possono diventare fonte del saper fare e del saper agire. Ma possono contribuire più profondamente a saper essere sé stessi nell’apertura agli altri e nella diversità pluralistica e complessa dell’esistenza comune. L’identità personale e la capacità di decisione autonoma e responsabile sorge e si sviluppa certamente anzitutto attraverso l’elaborazione del proprio vissuto nel vivo contatto con l’ambiente e nella diretta partecipazione alla vita comunitaria, non senza una qualche mediazione culturale. Ma concretamente, oggi più che mai, l’esperienza personale viene potenziata e le capacità personali vengono portate a maturazione attraverso l’apprendimento intenzionale e sistematico del patrimonio sociale d’idee, di valori, di forme espressive e di modelli comportamentali che diciamo cultura in senso oggettivo e contenutistico, sia a livello comune (tra cui primeggia la cosiddetta cultura di massa), sia a livello specialistico (tra cui oggi appare dominante la cultura scientifico-tecnologica).
Come è già stato messo in risalto, la cultura di un gruppo, a prescindere dalle sue segmentazioni o dislivelli interni, permette di rappresentare in forma simbolica la realtà naturale ed umana in termini di globalità, d’interconnessione organica tra i suoi aspetti e momenti, dì verità e valore, di limite critico e d’impegno progettuale, d’individuazione singolare e di corresponsabilità comunitaria. Rispetto ai bisogni di formazione individuali e-o collettivi, la proficua interazione tra vissuto soggettivo e patrimonio sociale di cultura si configura come quel processo di «coltivazione personale» che nella tradizione era detta «paideia» presso i greci e «cultura animi» presso i romani e che rispetto alle altre accezioni di cultura potrebbe essere intesa come cultura in senso soggettivo. A sua volta l’attività messa in atto a questo scopo è diretta ad aiutare una solida formazione intellettuale e culturale, vale a dire a portare allo stadio di struttura consolidata e di esercizio maturo le capacità conoscitive (oltre quelle intellettive vere e proprie, quelle sensitive, intuitive, razionali, creative), le capacità espressive, emotive, affettive, operative, fino ad un’organica sistemazione del sapere e del mondo personale con quello sociale, non solo in senso riproduttivo, ma anche di rielaborazione personale e di creatività produttiva.
3. Le attuali tendenze antropologiche
Rispetto alla globalità della cultura, con l’idea di uomo e dell’umano veniamo ad indicare ciò che crediamo l’uomo sia e debba essere, e spesso anche ciò che vogliamo che sia. Realtà e desiderio, indicativo, imperativo ed ottativo, vanno di pari passo. Descrizione del reale e prospettive che si vogliono imprimere al presente sono poste insieme ed in continuità. Per questa loro carica ideale, l’idea di uomo e di umano fanno da base, da visione orientante al progetto-uomo ed al progetto-persona, che i singoli individui e l’intero corpo sociale intendono portare avanti nel concreto della loro vicenda storica. Esse permettono di comprendere meglio e più specificamente cosa significa «divenire uomo» e quindi in quali direzioni concentrare le energie e gli sforzi del lavoro formativo.
Spesso tale visione teorica è allo stato informe. Sta come sullo sfondo, senza emergere coscientemente. L’esperienza di questi anni ci ha aiutati a prendere coscienza dei molteplici ostacoli che si contrappongono ad ogni intento di scendere dalle intuizioni di fondo al livello dei concetti chiari e distinti. È infatti obiettivamente difficile definire una realtà, come l’uomo, che è sempre dato e compito, realtà e progetto, problema e mistero, soggetto ed oggetto, libertà e determinazione, individualità e collettività, interiorità ed esteriorità, privato e pubblico, personale e politico. Dal punto di vista culturale, spesso parlare di «uomo» ha voluto significare semplicemente «l’uomo bianco moderno e civilizzato». L’emergenza della condizione femminile e le lotte per la sua emancipazione (al di là d’inevitabili e polemiche accentuazioni) hanno messo in luce che l’immagine di uomo è spesso ritagliata su misura dei «maschi». Al vaglio della storia, molte affermazioni sull’uomo sono risultate alla fine prodotti di falsa coscienza, fatti per giustificare prassi sociali ed educative, legate a precisi interessi sociali, economici, politici di parte: si è trattato cioè di affermazioni ideologiche nel senso peggiore del termine.
3.1. La crisi dell’immagine moderna dell’uomo
Più concretamente in questi ultimi anni è entrata in crisi l’immagine moderna dell’uomo: vale a dire la rappresentazione mentale con cui comunemente l’uomo delle società postmedievali vedeva sé stesso, pensava e prospettava la sua esistenza nel mondo e nella storia. La coscienza occidentale moderna è indubbiamente molto sensibile agli aspetti di costruttività, di storicità, di socialità, di operatività, di sviluppo, presenti nell’esistenza umana. Le trasformazioni economiche e politiche conseguenti alla cosiddetta rivoluzione industriale, le conquiste della scienza e della tecnica, lo sviluppo prorompente delle tecnologie, le lotte sociali e civili, l’emergenza di nuove classi nella vita politica, hanno portato l’uomo moderno ad una nuova coscienza di sé e delle proprie capacità di modificazione del reale attraverso l’azione individuale e collettiva, sorretta dalle forze della ragione.
Rispetto alle età precedenti (quella grosso modo rappresentata nell’immagine medievale dell’uomo), l’uomo moderno si è visto e si è prospettato come centrato su sé stesso, non tanto su Dio o sull’Universo. Si è parlato per questo di «uomo copernicano», nel senso che l’uomo si veniva a porre come centro solare, attorno a cui veniva a ruotare tutto il resto (come era il sole nella concezione di Copernico, rispetto alla precedente centralità della terra, come era nella antica concezione tolemaica).
Posta piuttosto in ombra la dimensione creaturale e quella di particella dell’universo, soprattutto dall’illuminismo in poi, si è andata esaltando la capacità dell’uomo di costruire il proprio destino attraverso la propria azione e l’energia pratica della sua razionalità.
Si è visto l’uomo essenzialmente come homo faber, cioè costruttore e non esecutore o fruitore di un mondo o di un ordine già dato, già determinato. In questa linea si è talora arrivati a mettere tra parentesi ogni senso del limite, dell’errore, dello scacco, della colpa, o anche del diverso, dell’altro, della oggettualità delle cose, delle strutture, delle leggi, dell’istituito.
3.2. L’uomo nell’ideologia del progresso e nell'ideologia del cambio
Una tale immagine di uomo, seppure non sempre organicamente, è stata assunta e rinforzata dalle grandi ideologie che tra il secolo scorso e l’attuale hanno guidato o perlomeno sostenuto la prassi sociale e politica delle nazioni e dei gruppi all’interno delle singole società, offrendo ad essi coerenza, giustificazione razionale, prospettive e linee d’azione. A queste ideologie l’immagine moderna dell’uomo ha infuso vigore, forza, potenza persuasiva, qualità attrattiva e coagulazione veloce di consensi, dando loro il crisma delle ideologie forti e delle filosofie vincenti. Negli anni sessanta quest’immagine d’uomo si è riproposta secondo due versioni principali: una che si affidava piuttosto alla potenza della scienza, della tecnologia, della produzione economica lasciata al libero gioco delle regole di mercato; l’altra che invece sottometteva il tutto al preventivo cambio politico e strutturale. La prima tendenza si è ritrovata nell’ideologia dello sviluppo o del progresso; la seconda nell’ideologia del cambio, affidata alle nuove classi ed ai nuovi soggetti storici (variamente identificati nel proletariato, nei popoli del terzo mondo, nei giovani, nelle donne, negli emarginati). In entrambi i casi — come il pensiero religioso ha sottolineato — si è avuta una sorta di religione secolarizzata ed una fede laica, fiduciosa e tutta protesa verso un illimitato progresso, unicamente fondata sulle leggi della scienza o della natura, aperta ad orizzonti di liberazione e di felicità per tutti, in un ipotetico «regno di libertà», in cui l’uomo, finalmente affrancato da ogni feudalesimo esteriore ed interiore, potesse avviarsi verso l’assoluta e plenaria espansione e realizzazione di vita.
3.3. La crisi antropologica degli anni ’70
Come si è detto, questa stessa immagine di uomo è oggi altamente problematica. Essa è entrata in profonda crisi durante quelli che sono stati detti i difficili anni ’70.
A livello propriamente antropologico, si è anzitutto risentito il contraccolpo del tracollo dell’idea di uno sviluppo illimitato. I limiti dello sviluppo si sono mostrati repentinamente ma drasticamente. La società opulenta e lo stato assistenziale (il «Welfare State») sono entrati in una crisi irreversibile. Non meno pesante è stato l’effetto della caduta verticale dell’idea del cambio rivoluzionario. Il «sol dell’avvenire» è scomparso velocemente dai cieli del nostro tempo. Ma oltre a ciò si è avuta come un’erosione dall’interno, ad opera di quelle tendenze di pensiero strutturalista, radicale e nichilista, che hanno messo in crisi i concetti stessi di razionalità, di soggettività, di progettualità su cui si fondava l’immagine dell’homo faber.
L’uomo è stato visto in balìa di strutture e di processi anonimi, che lo sorpassano da ogni dove. Errato oltre che irrealistico è apparso ogni tentativo di uscire fuori od ergersi al di sopra della «ferrea necessità» che avvolge l’uomo. La libertà non sarebbe niente più che un mito vano ed infondato, secondo le affermazioni di alcuni strutturalisti. La fede nelle capacità progettuali umane non solo non troverebbe riscontro nella realtà, ma non potrebbe neppure reggersi sulle certezze della razionalità, incapace di raggiungere fondazioni consistenti o inseguire mète sicure. La proclamazione nietzschiana della morte di Dio (vista non tanto come negazione ateistica, quanto piuttosto come affermazione della fine di ogni assolutezza e di verità o di valori eterni ed immutabili) è fatta riecheggiare dai neo-nichilisti agli orecchi dell’uomo contemporaneo.
La soggettività umana stessa si sgretola sotto gli occhi di quella che generalmente è detta cultura radicale. L’uomo è ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e di bisogni, che atomizzano 1’esistenza individuale e collettiva. Una razionalità immanente alla storia, così come una normatività oggettiva della natura sono considerate assolutamente impensabili. Al limite l’uomo viene paragonato al rizoma, pianta senza vero fusto e foglie, ricco di riserve interne, dalle diramazioni clandestine e dagli sviluppi sotterranei non prestabiliti. E l’esistenza collettiva è considerata simile a quella di un formicaio in cui ogni individualità è come dominata da un incessante dinamismo che la supera e che si riproduce oltre ogni mutilazione od eliminazione di questa o quella individualità. Allo stesso modo, rifiutata ogni fondazione razionale ed ogni collegamento rigido alla tradizione od ogni tentativo di riduzione ad unità organiche, 1’esistenza è vista come incessante e libera produzione dei bisogni e dei desideri che liberano «disorganicamente» la molteplicità spontanea di quelli che son detti «bisogni radicali».
A conclusioni non sostanzialmente dissimili arrivano coloro che, prendendo sul serio la «sfida» dell’attuale sviluppo tecnologico, non vedono altro sbocco di futuro per l’uomo che è il rifiuto dell’umanesimo tradizionale e la cibernetizzazione dell’intera esistenza individuale e sociale. Occorrebbe andare «oltre la dignità e la libertà» (come insinua il titolo di un volume di F. B. Skinner, psicologo e pedagogista americano, edito nel 1971 e subito diventato un «bestseller») ed affidarsi ad un controllo ed uso regolato delle informazioni. Nulla dovrebbe essere lasciato al caso, alla fantasia, agli umori del momento. Tutto andrebbe precisamente determinato e computerizzato, in modo da evitare errori e sprechi così come disordini sociali e sofferenze personali.
3.4. Tra moderno e post-moderno
In sintesi, pur se da diverse prospettive, sembra delinearsi sempre più nettamente un’immagine di uomo che, se non può dirsi del tutto opposta, certo è per tanti versi diversa da quella tradizionalmente considerata moderna. Per tali motivi sono sempre più quelli che parlano di «uomo post-moderno», cioè di un’immagine di uomo in cui è fatto spazio alla differenza, all’alterità, al limite, a vie alernative di emancipazione e di liberazione. In ogni caso la crisi è vista come passaggio obbligato per ogni itinerario futuro umano. Altri invece pensano che a tramontare siano state le concezioni tradizionali dell’uomo legate alla civiltà agricola contadina o alla civiltà industriale urbana. Una nuova forma di modernità si imporrebbe: quella planetaria della società dell’informazione, dominata dalle nuove tecnologie informatizzate e dalla egemonia delle professionalità del terziario avanzato (finanza, tecnica, servizi, informazioni, managerialità, ecc.).
4. I modelli d’uomo emergenti
Queste stimolazioni antropologiche di vario segno e di diverso spessore, in mano a coloro che operano nelle diverse centrali della cultura (maestri del pensiero, movimenti, gruppi di potere, organizzazioni scientifiche, massmedia), hanno prodotto negli ultimi venti anni, una serie di modelli d’uomo, tendenzionalmente egemonizzante ogni altra prospettiva antropologica.
Con l’espressione «modelli d’uomo» si intende qualcosa di più specifico che un insieme di idee sull’uomo. Si vuole indicare piuttosto un’immagine d’uomo organica e definita, che sintetizza e semplifica i molti dati d’esperienza, li organizza intellettualmente attorno ad un’idea-chiave o ad un valore centrale magari tramite una specifica prospettiva teorica, e che viene a proporsi come un modo ideale di vita.
4.1. L’intellettuale «organico» e l’uomo «disorganico»
Negli anni della contestazione del sessantotto sembrò che l’unico modo che valesse seguire, se si voleva essere veri uomini e donne, fosse quello dell’intellettuale progressista e rivoluzionario, «organico» alle lotte per la emancipazione, la liberazione e il cambio del sistema. Altrimenti si era reazionari e fascisti. Questo modello d’uomo si rifaceva ad un Marx, che ognuno interpretava come voleva; e se ne considerava concreta incarnazione Castro, Mao, il popolo vietnamita, ecc. L’apporto teorico più consistente è venuto dalla sociologica critica della scuola di Francoforte (M. Horkheimer, T. Adorno, W. Benjamin) e soprattutto dal pensiero di H. Marcuse e dalla psicologia critica di E. Fromm.
Nella seconda metà del decennio trascorso è prevalso piuttosto il modello dell’uomo «disorganico», portato avanti dalla «cultura radicale». Se nel sessantotto si diceva che il privato è politico, ora i termini si rovesciano: il politico è privato. Non il pubblico ma la soggettivizzazione dei modi di vita diventa egemone. Si celebrano la corporeità, i liberi impulsi, la forza del desiderio. L’esaudimento dei bisogni diventa la regola suprema dell’azione. Liberare i propri impulsi; scrollarsi di dosso le arruginite impalcature delle leggi e delle norme sociali tradizionali; andare oltre ogni ideale di organicità partitica o sindacale; arrivare alla gioia totale del corpo; sono queste alcune delle parole d’ordine che hanno in quegli anni ispirato i movimenti femministi, la lotta per la difesa dei diritti civili; o sono state proclamate dagli indiani metropolitani, dai «punk»; ma purtroppo sono state condivise pure da chi imboccava poi per suo conto o con pochi altri la via della destabilizzazione sociale e del terrorismo; o all’opposto si perdeva nelle tangenti oscure della droga.
4.2. Il modello d’uomo dei mass-media
Dopo il serrare le file che si è avuto a tutti i livelli fin dagli inizi degli anni ottanta, allo scopo di uscire dai tunnels bui della crisi; e con i buoni segni della fine dell’emergenza e della ripresa economica verso la metà degli anni ottanta, si può dire che ormai emergono fondamentalmente tre grossi modi di prospettare l’idea ed il progetto-uomo da far balenare agli occhi dei giovani: anzitutto quello propagandato dai mass-media; in secondo luogo quello che si accompagna al prepotente sviluppo dei nuovi media computerizzati; ed in terzo luogo quello prospettato dai movimenti di impegno e volontariato sociale, civile e-o cristiano. Volendo etichettarli potremmo chiamare il primo, l’uomo della «self-realization»; il secondo, l’uomo tecnologico-cibernetico; il terzo, l’uomo del protagonismo e dell’impegno.
Ad ottenere maggior consensi è senza dubbio il modello d'uomo della «self-realization». Infatti esso corrisponde ad istanze umane di sempre. Già Platone diceva che era ridicolo chiedere ad un uomo se volesse essere felice; perché tutti desideriamo esserlo, a meno di essere psicologicamente malati o di trovarci in un momento di particolare depressione psichica.
Ma risponde pure ad esigenze del tempo. In questo senso è anche di moda; non solo perché è il più seguito. A voler essere sottili si potrebbe dire che è seguito (= va di moda) perché coglie la moda ( = il ciò che prevale). Ed infatti nella crisi di strutture e di cultura, che ha percorso l’Occidente nel decennio trascorso e che ha propagato i suoi effetti al terzo mondo ed ai paesi del sottosviluppo, l’io è diventato come l’ultima spiaggia da salvare a tutti i costi dai mali della vita moderna. Entrate in crisi le ideologie forti e i sistemi di significato del recente passato, si è avuta una profonda soggettivazione e frammentazione dei modi di vita.
Parimenti l’istanza di democratizzazione e l’allargamento a tutti (o per meglio dire alla stragrande maggioranza della popolazione) della possibilità di accedere ai beni di consumo prodotti, ha permesso (almeno nei paesi sviluppati) non solo una maggiore attenzione al benessere personale e sociale , ma ha fatto balenare l’idea della possibilità di poter giungere ad una plenaria e totale autorealizzazione.
Ora il modello d’uomo propagandato dai mass-media mostra appunto in modo suggestivo dei modi di essere uomo e donna, e di stare insieme, pieni di vita, attraenti, fascinosi, realizzati sotto ogni punto di vista, da quello fisico a quello delle relazioni sociali a quello professionale. L’uomo della «self-realization» è l’uomo del successo, che tutti si augurano di essere, sotto ogni cielo, in questo nostro tempo segnato dall’istanza della produttività e dall’efficacia storica.
4.3. L’istanza dell’autorealizzazione nel modello di uomo tecnologico e in quello dell’uomo impegnato
C’è da dire che il tema dell’auto-realizzazione è pure al fondo degli altri due modelli d’uomo segnalati. La differenza sta piuttosto nei modi e negli strumenti pensati per conseguirla. Nel modello tecnologico-cibernetico essa è riposta non solo nell’uso delle nuove tecnologie informatizzate, ma soprattutto in un modo di affrontare i problemi dell’esistenza che sia logico e razionale; e nel prospettare interventi individuali e collettivi secondo stili di controllo razionale e di programmazione rigorosa, ad evitare scompensi o guasti inutili e dannosi. Esso è un poco l’ideale delle élites giovanili, quelli che sono detti «yuppies».
A sua volta, nel modello dell’uomo impegnato, l’autorealizzazione consegue come frutto dal fiore della personale e volontaria dedizione a favore di una causa che dà senso alla vita. Per il costo d’impegno che richiede e, forse ancor prima, per il grado di consapevolezza di vita che presuppone, tale modello è ovviamente seguito piuttosto da minoranze pluralisticamente diversificate.
Nel modello della «self-realization» invece la pienezza di vita è affidata piuttosto alle risorse interiori, alle personali capacità di essere intelligenti, creativi, vivaci, capaci di «vincere la vita» con le proprie forze e con un pizzico di fortuna.
È appena da notare che vi sia in questo modello d’uomo una forte vena di quell’americanismo che pervade la nostra cultura e che vede la sua incarnazione e la sua espressione più cospicua in quel R. Reagan che da attore giunge ad essere il presidente degli USA e guida della leadership mondiale: un «nato per vincere» che è riuscito alla fine ad arrivare al culmine del successo. Ma più da vicino esso trova la sua incarnazione nella miriade degli uomini e donne di successo, i «vip»: dai personaggi dell’economia e della politica ai personaggi del mondo del cinema e della canzone, alle mille dive o agli «assolutamente esordienti» premiati da concorsi ogni anno o baciati ogni settimana o quasi dalla fortuna.
La forza attrattiva di questo modello è data a ben vedere dal fatto che esso non richiede posizioni di partenza privilegiati: è potenzialmente alla portata di tutti. Non richiede particolari mezzi di sostegno: è affidato infatti essenzialmente alle proprie capacità personali. D’altra parte si può subito intravedere i possibili scompensi cui può facilmente condurre, quando si veda la corrispondenza tra i propri sogni di successo e la realtà, spesso magra, con cui si ha a che fare; oppure si può comprendere la tensione di vita che innesca, al fine di poter «riuscire», essere sempre «up», all’altezza delle situazioni.
4.4. Un modello d’uomo cristiano?
Verso gli anni cinquanta c’era una larga convergenza tra i cattolici nel credere il personalismo come il modello d’uomo per eccellenza cristiano. L’esperienza del Concilio Vaticano II, che ci ha resi attenti alle molteplici mediazioni culturali secondo cui si esprime e viene «codificata» la fede cristiana, così come la molteplicità e il pluralismo dei modi di essere e di vivere la vita cristiana nel complesso tessuto sociale di appartenenza, hanno messo alle corde una posizione così univoca.
Indubbiamente però difficilmente potrebbe dirsi ed essere consentaneo con la tradizione cristiana un modello d’uomo che sacrifichi la irrepetibilità della persona, la sua libertà a questo o a quel centro di potere sociale od economico; oppure che riduca l’uomo entro la curva dei giorni senza alcuna speranza di trascendenza; o lo costringa entro le strutture e le condizioni materiali di vita senza alcun respiro di spiritualità; o infine che lo ingabbi dentro l’orticello mondano che spesso ci fa tanto feroci, come diceva Dante Alighieri, negandogli la radicale possibilità di un destino più grande del mondo e del tempo, in un rapporto con un Dio personale (e quindi non riducibile ad una pura idea o ad un semplice trasporto sentimentale), e in una storia di salvezza e di liberazione che anela a cieli nuovi e terra nuova in cui abita quella giustizia e verità, che sono al fondo del cuore umano e del suo desiderio.
Si può quindi affermare tranquillamente che in linea teorica sono possibili molteplici modelli d’uomo cristianamente qualificati. Nei loro confronti la fede viene ad avere un rapporto di «incarnazione» (nel senso che vi trova la mediazione culturale per esprimersi storicamente); ed in pari tempo funge da «riserva critica» per gli eventuali aspetti «troppo umani» che essi avessero, e da «forza di futuro» per oltrepassare gli ambiti stessi della concettualizzazione intellettuale in vista di un’azione aperta ed anelante ad un umanesimo integrale. Ma sulla questione del discernimento relativo alle prospettive antropologiche contemporanee, occorre allargare il discorso.
5. Il discernimento nelle affermazioni antropologiche
A loro modo la crisi ed i movimenti di pensiero che si sono mossi «realisticamente» entro di essa hanno dato voce e vigore ad istanze umane irrinunciabili, piuttosto mortificate nel recente passato o poco considerate nelle immagini di uomo prevalenti: le istanze dell’individualità e dell’interiorità personale o delle relazioni interpersonali ed amicali, rispetto all’invadenza del pubblico, del politico, dell’ideologico o del cosiddetto oggettivismo scientifico; oppure le istanze del mondo emozionale ed inconscio, rispetto ad una rigida ed astorica supremazia di una coscienza e di una razionalità troppo «chiare e distinte», fonti e vittime, allo stesso tempo di spinte autoritarie, repressive ed anti-emancipatorie.
5.1. Il tendenziale riduzionismo
D’altra parte queste stesse espressioni di pensiero sembrano spesso assumere un carattere di costruzioni reattive, soprattutto quando tendono a proporsi come affermazioni assolute e definitive. In tal modo ricalcano, seppure in senso diametralmente opposto, gli errori di cui accusano le ideologie forti del recente passato. E ciò perché, pur spiegando il reale, non spiegano tutto il reale. Infatti il loro fissarsi sulle urgenze del presente rischia di far perdere di vista l’insopprimibile dimensione di passato e di futuro, pur esistenti nel presente e nel vissuto. Allo stesso modo l’impietosa messa a nudo dei limiti umani può portare a misconoscere le reali capacità e potenzialità delle libere decisioni volontarie, per quanto si voglia ristrette e sotto condizione; oppure non rende giustizia ai movimenti attivi dello spirito individuale e collettivo, della memoria del singolo e delle collettività, della fantasia progettuale e creatrice di ognuno e di tutti, della conoscenza veritativa e delle forze d’amore, che si rivelano spesso alla prova dei fatti come serbatoi di energie superiori ad ogni previsione. Così ad insistere troppo nel dare «la parola alle cose», ai fatti, all’esistente, (e non alle vane conclamazioni ideologiche) si può finire con il negare anche i movimenti oltre 1’esistente, che pure si trovano nel reale, almeno a livello esigenziale. Invece di un uomo si rischia di delineare e prospettare solo un misero «homunculus» (V. E. Frankl).
Da questo punto di vista il pensiero cristiano, alla luce della visione biblica dell’uomo «immagine di Dio» e dell’umanità rinnovata nel Cristo, ha fortemente criticato le immagini di uomo emergenti nell’età moderna e contemporanea: sia quella liberal-borghese, che sta alla base dell’ideologia del progresso; sia quella del socialismo scientifico o libertario, che sta alla base dell’ideologia del cambio; sia quella del pensiero negativo e radicale, che sembra stare alla base della cosiddetta cultura radicale. Esse infatti sembrano affette da un forte tasso di riduzionismo antropologico, che mal corrisponde all’ampiezza di possibilità della condizione umana attuale. L’uomo rischia di essere chiuso dentro l’ambito del mondo e del tempo, e la sua esperienza circoscritta entro i termini delle relazioni inter-umane, della vita sociale, del rapporto con la natura, dei processi culturali (storicismo). La sua liberazione è fatta coincidere quasi totalmente con gli aspetti economici, sociali, politici (materialismo), e la sua felicità — se e nella misura in cui è dato conseguirla — sembra essere quasi tutta compresa nei limiti dell’autorealizzazione storica (immanentismo storico). Allo stesso modo non cessa di far coscienti delle possibili riduzioni dell’uomo a macchina ed a oggetto, cui sembrano portare talora certe affermazioni dell’ideale cibernetico-informatico.
5.2. Oltre il riduzionismo: la legittimità del pluralismo antropologico
D’altra parte, come si è visto, sono facili gli sbilanciamenti e le esorbitanze verso forme di affermazioni unilaterali. Ne consegue la necessità di una somma cautela in ogni affermazione sull’uomo. È importante inoltre, nella formazione di un preciso quadro di riferimento per l’azione educativa e pastorale, tener presenti alcuni criteri di fondo. Ciò che colpisce di più nell’uomo-individuo e collettivo è la complessità nell’essere e nell’operare; ma insieme una fondamentale unità e continuità, ricca di articolazioni ed espressioni, pur nel bagaglio, più o meno abbondante, di contraddizioni, di scompensi, di disarticolazioni o di squilibri. Espressione cospicua di quest’irriducibile ed ineliminabile complessità sono i diversi tentativi di determinazione per affermazioni antinomiche o per aspetti complementari (io-me; essere-coscienza; oggettività-soggettività; essenza-esistenza; uomo-universo, individuo-società; libertà-necessità; materia-spirito; temporalità-eternità; anima-corpo, ecc...) o anche per paradossi e negazioni. Da ciò sembra emergere una prima e basilare convinzione, quasi un postulato procedurale: nel parlare dell’uomo o nell’immaginarlo si deve tenere assolutamente in conto tale complessità, contraddittorietà, unitarietà, storicità, impegno di realizzazione. 1 dati dell’esperienza comune costituiscono il punto di partenza a cui si dovrà ritornare e con cui ci si dovrà confrontare dopo ogni costruzione teorica.
Ne segue pure una seconda convinzione che è un po’ corollario della prima: non si può bruciare tale complessità attraverso affermazioni riduttivistiche. Ciò è particolarmente importante in sede educativa. Se è vero infatti che l’immagine dell’uomo si rispecchia nella concezione che si ha dell’educazione, sarà pure vero che ad un’immagine riduttiva dell’uomo seguirà facilmente una concezione distorta dell’educazione, ridotta di volta in volta, ad esempio, a puro allevamento ed addestramento, da certe forme di radicale biologismo antropologico; ad addestramento ed apprendimento, da certe forme di radicale comportamentismo o fenomenismo; ad educazione intellettuale, da certe forme di razionalismo; ad educazione morale o a pietismo pedagogico, da certe forme di spiritualismo o idealismo; ad educazione sociale od a semplice socializzazione, da certe forme di sociologismo; a puro decondizionamento psicologico ed ambientale, da certe forme di radicale spontaneismo psicologico.
Sembra anche abbastanza evidente una terza istanza critica consistente nell’affermazione di un legittimo pluralismo nel sistemare, organizzare, interpretare questi fondamentali dati dell’esperienza comune in modelli antropologici particolari, sempre ed in ogni caso soggetti alle regole della «criticabilità» propria delle costruzioni teoriche, nella misura in cui lasciano a desiderare per ciò che concerne:
1) l’incontraddittorietà interna (= la logicità, la conseguenzialità, la sistematicità);
2) il riferimento a principi razionali di fondo (principio di identità, di non contraddizione, di evidenza empirica o razionale);
3) la capacità di dar conto dei problemi e di reggere alla prova dei fatti.
È infatti da prendere coscienza che la costruzione di una visione antropologica è sempre in qualche modo conseguente ad un processo ermeneutico. È cioè frutto di una attività interpretativa più o meno laboriosa e riflessa, in cui entrano in gioco sia il mondo delle precomprensioni soggettive (ciò che uno pensa al momento, a seguito della propria formazione, del proprio bagaglio culturale, della vicenda storica che ha passato) sia le attese che si hanno nei confronti della realtà, così come essa è colta e così come essa si desidera e si vuole che diventi, sia a livello individuale sia a livello collettivo.
Con E. Husserl, il fondatore della fenomenologia, si può dire che il mondo della vita è più grande di quello delle sue concettualizzazioni; ed è quindi passibile di molteplici punti di vista ideali, che non si oppongono necessariamente e totalmente.
Del resto la possibilità del pluralismo discende pure dal concetto stesso di modello teorico. Esso indica una costruzione mentale che sistematizza i dati di esperienza in una forma unitaria e articolata attorno ad una (o più) idea o valore, al fine di avere una visione organica e globale della realtà che si intende osservare o su cui si vuole intervenire. Tutto ciò avviene a spese di una certa astrattezza, artificiosità e semplificazione della complessità reale o per lo meno con il privilegiamento di un aspetto piuttosto di un altro. È facile quindi che i modelli teorici rischino di cadere in affermazioni unilaterali o pecchino di esorbitanze o sbilanciamenti eccessivi.
5.3. I limiti del pluralismo antropologico
L’affermazione della legittimità di un pluralismo di modelli d’uomo sembra essere tipica di questa nostra età, che ha imparato dalla crisi a far spazio alla differenza, alle diversità, all’alterità, al limite, all’alternativo, all’oltre e all’ulteriore.
D’altra parte ciò non vuol dire ammissione di relativismo o di storicismo: sarebbe un altro assoluto! Ma neppure significa omogeneizzazione e equivalenza di tutto.
La molteplicità dei modelli d’uomo può essere infatti interpretata come un tentativo di adeguare idee e istanze alla complessità e alla essenziale storicità dell’essere umano; ed anche come un invito a guadagnare nel pluralismo e nel «conflitto delle interpretazioni», affermazioni vere, sempre più calibrate e circostanziate rispetto alla realtà cui intendono riferirsi. Da questo punto di vista si possono indicare ulteriori criteri di giudizio, paragonabili a delle pietre di paragone reali che soppesano e misurano la forza di quanto si viene affermando.
Si può segnalare in primo luogo la rispondenza e l’adeguatezza all’uomo e al ragazzo reale, cioè alle persone concrete, materialmente individuate, storicamente determinate, geograficamente situate; e di conseguenza ai gruppi sociali, in cui le persone sono concretamente inserite.
Come la legge, così anche le idee sono per l’uomo, non viceversa.
In secondo luogo, oltre che per la fedeltà all’uomo-ragazzo reale, i modelli antropologici e pedagogici reggono nella misura in cui sanno essere aderenti alla realtà e alle esigenze dello sviluppo storico (sociale, politico, economico, culturale, religioso), ed in particolare al parallelo sviluppo culturale, scientifico e tecnologico.
Non basta che siano formalmente corretti e logicamente espressi, se poi risultano sfalsati di secoli o parlano un linguaggio incomprensibile all’uomo attuale.
In terzo luogo, d’altra parte, la fedeltà alla storia non significa idolatria dell’esistente. 1 modelli dell’uomo e della sua crescita devono corrispondere anche alle attese e alle speranze dell’uomo storico.
In questo senso si può parlare di una necessaria fedeltà al futuro dell’uomo, e secondo il pensiero religioso al movimento di trascendenza che qualifica la sua esistenza e che non fa essere la sua libertà ultimamente una «passione inutile» (Sartre).
Per il credente infine esiste un ultimo indice di validità; ed è quello della fedeltà a Dio, al Vangelo, alla vita comunitaria ecclesiale, alla prassi di fede, entro cui il cristiano, come singolo e come comunità gioca e prospetta la sua vita e la vita degli altri.
6. Quale modello d’uomo in educazione e pastorale?
In questo sforzo di discernimento, all’interno del legittimo pluralismo antropologico, si vuole insinuare che la prospettiva educativa invita a fare delle scelte tra i molteplici e legittimi modelli di uomo in circolazione nella cultura di appartenenza.
Nella prospettiva educativa è prioritaria la intenzione di corrispondere alla domanda di formazione personale e sociale.
6.1. La priorità di una prospettiva dinamica
Da questo punto di vista si può arrivare a dire che non sono del tutto adeguati ai fini della riflessione e della ricerca educativa dei modelli d’uomo di tipo speculativo-essenzialista, tesi soprattutto a svelare l’essenza dell’uomo e che parlano di lui quasi esclusivamente in termini di qualità costitutive e determinanti ( = intelligenza, libertà, spiritualità, corporeità) o di dimensioni fondamentali (= individualità, socialità, politicità, autotrascendenza) o del suo «statuto soprannaturale» (grazia e peccato, virtù teologali, sacramentalità dell’esistenza individuale e comunitaria). Una tale antropologia in chiave di natura, di essenza profonda, rischia di lasciare un po’ all’oscuro gli aspetti di crescita e di sviluppo dell’essere umano.
L’essenza sembra mettere tra parentesi la fondamentalità dell’esistenza. Lo sguardo eternale con cui è visto l’uomo rischia di bruciare in una statica perennità, il farsi e la dialettica del divenire umano nel mondo con gli altri, anche nella prospettiva credente di storia della salvezza che costruisce ed aspetta la vita senza fine.
Ma neppure sembrano del tutto soddisfacenti, nell’orizzonte dell’educazione, modelli dell’uomo di tipo esperienziale-relazionale, volti a determinare le condizioni di possibilità di un’esistenza autentica (= l’uomo visto come realtà misteriosa, soggettività situata, intersoggettività, libertà condizionata, tesa alla ricerca di senso). Quest’antropologia in chiave d'intersoggettività rischia di trascurare per un verso la «materialità» delle strutture e dei contesti, in cui 1’esistenza si pone, e per altro verso di trascurare troppo la consistenza sia del superindividuale e del sociale sia le radici essenziali della soggettività che si mette in relazione con gli altri nel mondo, esistendo ed autenticandosi.
Alla luce delle istanze e delle necessità che spingono ad educare sembrano più adeguati modelli d’uomo che si pongono in una prospettiva storico-prassica, che pensano l’uomo in termini di soggetto e popolo, di uomo e donna che è e si fa persona, libertà, comunità, storia, cultura, civiltà, in e mediante l’attività comune di trasformazione della realtà concreta in cui ci si trova a vivere, fatta anch’essa in tal modo partecipe dello stesso processo di emancipazione e di liberazione, pur con tutti i limiti messi in evidenza dal pensiero e dalla crisi contemporanea. È evidente che in tale prospettiva è prioritaria l’analisi delle situazioni concrete in cui l’umanità si trova a vivere.
Come si è accennato, il referente ultimo di ogni affermazione sull’uomo è infatti l’uomo reale, non, in primo luogo almeno, l’idea d’uomo e neppure la natura umana o l’uomo in generale, ma la persona concreta, materialmente individuata, cronologicamente datata, geograficamente ubicata e, secondo il punto di vista educativo, aperta allo sviluppo e alla formazione nell’interazione con l’ambiente e grazie all’aiuto degli altri e della società in cui vive. Di conseguenza il rimando è pure ai gruppi sociali economici, politici, culturali, religiosi, in cui concretamente si compiono come evento i processi formativi d’inculturazione, socializzazione, educazione.
A sua volta, in questa concezione dinamica le due prospettive precedenti vengono assunte come fondamento ed orizzonte di marcia della prassi storica; e con funzione di provocazione critica nei confronti della realtà esistente, soprattutto nelle sue tensioni e carenze o, come non troppo correttamente si dice, nelle sue contraddizioni. La dimensione storicosituazionale (= l’uomo come effettivamente è) è messa a nudo dalla luce della prospettiva dell’uomo «essenziale» e dell’uomo «relazionale» (= l’uomo come deve essere), innescando il processo dell’azione, sorretta dalla visione delle possibilità dell’uomo e della sua destinazione ultima. È appena da notare come anche in questa prospettiva l’esito rimanga sempre pluralistico e sottostia a quelle correzioni di tiro che sono necessarie nella progettazione e nell’attuazione dell’intervento educativo.
6.2. Idea di uomo e prassi edueativo-pastorale
Difatti l’idea di uomo, pur con le cautele teoriche di cui si è detto, non è di per sé un «prodotto compiuto», direttamente fruibile in sede educativa. Essa dev’essere combinata per un verso con le possibilità soggettive di educazione, determinate sia cronologicamente (cioè secondo le diverse età della vita) sia ai diversi livelli dell’esistenza (ad es. a livello bio-psichico, socio-culturale, materiale-spirituale, etico-religioso, privato-pubblico, individuale-collettivo), e per altro verso con le concrete richieste ed opportunità sociali di sviluppo umano.
Infatti se l’idea di uomo risponde all’esigenza di totalità, unitarietà e coerenza educativa, è tuttavia incompetente almeno in un doppio senso: anzitutto perché, mantenendosi ad un livello di universalità e concettualità, è sempre generale ed astratta, manca cioè di articolazione, individuazione, concretezza; secondariamente perché, indicando i termini e gli orizzonti dell’esistenza umana in sé e per sé, non dice ancora il termine e l’orizzonte specifico e proprio di chi è soggetto d’educazione. Così pure è solo uno dei termini di riferimento dell’azione educativa; non l’ultimo, anche se certamente necessario ed importante. L’ultimo riferimento rimangono le persone concrete nella loro concreta relazione educativa, da studiare, da vivificare, da promuovere.
7. La partecipazione alla cultura antropologica
Come si è detto l’immagine dell’uomo e del suo destino costituiscono una parte rilevante della cultura. Bisognerà quindi — così come si dovrebbe fare per ogni prodotto che ci viene dai processi formativi — non solo assumere cultura, o consumarla, ma fare cultura, cioè personalizzarla, reinterpretarla, innovarla, trasformarla e se occorre, cambiarla, affinché sia sempre un mezzo adeguato alla vita comune e alle sue esigenze presenti e future.
In questa opera i credenti sono chiamati a svolgere quel compito di animazione che, come ci dice la Lettera a Diogneto, è la caratteristica dei cristiani che vivono nel mondo: non avendo città proprie, ma operando il bene nelle città di tutti, vengono ad essere come l’anima del corpo sociale.
La cultura è certamente un luogo dove i cristiani possono continuare l’opera del Cristo e riscrivere ogni giorno il suo Vangelo, per la gloria di Dio che è l’uomo vivente (S. Ireneo di Lione).
Senza pretese di esaustività, vorrei provare ad indicare alcune vie privilegiate per tale opera di animazione del culturale.
7.1. Per una cultura della vita e della promozione umana
Si è detto che la pietra di paragone di ogni costrutto ideale è l’uomo reale.
Sarà quindi da lavorare anzitutto sul terreno della liberazione e della promozione umana individuale e collettiva, cosi come sul terreno della ricerca di una migliore qualità della vita.
Come il recente insegnamento pontificio ha ricordato, l’uomo è la prima via della Chiesa: una via da percorrere, forse da ricostruire o addirittura in molta parte da suscitare. Oggi, in particolare sarà da andare alle sorgenti dell’umano.
La minaccia della catastrofe ecologica, l’attentato alla vita individuale e collettiva, la spersonalizzazione invadente sono alcuni dei luoghi in cui operare, cercando idee, valori, norme, modelli, strumenti, cioè in definitiva una cultura, che sia adeguata ai bisogni reali.
E già a livello personale sarà da imparare a riascoltare i segni della vita, i suoi movimenti, le sue spinte, le sue pulsioni, le sue aspirazioni.
Bisognerà capacitarsi a sentirla pulsare in noi ed empaticamente negli altri, attorno a noi, in tutta la sua complessità e molteplicità di manifestazioni.
D’altra parte sarà da comprenderla e portarla, a tutti i livelli, alla sua pienezza soggettiva, personale, collettiva. Per il cristiano questa pienezza è ben oltre il cosmo ed è commisurata con la statura del Cristo totale, del Cristo risorto, che è diventato il capo del corpo che è la Chiesa e la primizia di tutti i viventi. In tale senso aver paura della vita è l’esatto contrario della volontà di Dio, e della incarnazione del Cristo, che è venuto «perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza» (Gv 10,10).
Più esattamente c’è da aver paura dei segni di morte, degli istinti di aggressività e di noninnocenza che alla vita si oppongono e che sarebbe sciocco far finta dire che non esistano o lasciarli a briglia sciolta.
7.2. La partecipazione ai movimenti culturali
Per tanti motivi, in gran parte di ordine storico-politico, i cristiani precedenti alla nostra generazione hanno spesso sofferto del complesso «anti-moderno», quasi che tutta la cultura moderna e contemporanea — in quanto prodotta da forze che si muovevano in senso anticlericale o antiecclesiastico — fosse da considerare negativamente o addirittura da rigettare in blocco. Spesso si è arrivati a far la figura dei tradizionalisti ed antimodernisti ad oltranza. Il Concilio Vaticano II ci ha liberato da questa situazione. Mettere in luce i limiti delle produzioni storico-culturali è segno di quella funzione critica che è tipica del cristiano. Ma in pari tempo cogliere i valori universali presenti in esiti ed espressioni particolari, e magari parziali, è indice di una lettura attenta ai segni dei tempi.
In questo, come nel resto, la funzione profetica del cristiano non è solo di critica, ma anche di stimolo, di integrazione, di promozione.
Tutto ciò impone per un verso una buona conoscenza dei movimenti culturali (ideologici, filosofici, artistici, letterari) presenti nella propria cultura e per altro verso un ascolto vigile e approfondito di essi, in quanto potrebbero essere luoghi privilegiati della voce e della volontà di Dio per il nostro tempo. D’altra parte in questo lavoro non c’è da cominciare da zero. Lo si potrà fare con frutto se ci si saprà collegare con la tradizione cristiana-ecclesiale, sapendo scegliere, come dice il Vangelo, dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
Se è vero che la Chiesa è «sparsa» tra le genti è pure vero che è «insediata» da quasi due millenni nella nostra storia. Si è formata una tradizione, meglio, delle tradizioni cristiane o più esattamente delle tradizioni cristianoculturali (di usi, costumi, modelli di comportamento, idee, valori, ecc.).
Ne abbiamo spesso sperimentato sulla viva pelle la pesantezza e talora persino l’oppressione. Senza quindi assolutizzarle e con una buona dose di vigilanza critica, tali tradizioni possono costituire un utile «codice» per interpretare fatti ed eventi e operare nel proprio ambiente.
In particolare sarebbero da considerare attentamente le immagini di uomo che il pensiero, cristianamente ispirato, ha prodotto lungo i secoli e in questi ultimi anni (dalle forme di «filosofia perenne», tomista, agostiniana; alle antropologie che si richiamano a Pascal, Blondel, Kierkegaard, Rosmini; al personalismo di Mounier, di Maritain, di Guardini; alla teologia nella speranza, della liberazione, della croce, ecc.; oppure al recente magistero conciliare e papale, o delle Chiese locali; ecc).
7.3. Per una prospettiva umanistica di scienza e tecnologia
Un’altra pista di lavoro riguarda la natura e il senso della scienza e della tecnologia nell’insieme della cultura. In termini tecnici si potrebbe dire che occorre arrivare a formarsi una corretta epistemologia, cioè una concezione critica della scienza e della tecnologia. La scienza attuale non ha certo pretese di monopoli. Anzi in primo luogo esalta il suo carattere di operatività e di manipolazione modellistica sul reale. Riconosce, oltre le proprie procedure, altri approcci alla realtà e altri linguaggi, dichiarativi e comunicativi di verità, di problemi, di stimolazioni conoscitive.
La metafisica e la religione possono animare addirittura la ricerca: possono diventare «aurora di scienza». Si vorrebbe ricordare che altrettanto è la scienza per la vita di fede, che può essere fruttuosamente stimolata dalle istanze della scienza e della tecnologia. La povertà e la sobrietà della fede ne acquisteranno, ma anche la qualità umana di essa. È pure vero che nei confronti della mentalità comune c’è ancora qualcos’altro da fare. Se infatti lo scientismo a livello di ricercatori e di scienziati è in gran parte svanito, forse permane nell’opinione pubblica una sorta di scientismo pratico; cioè una fiducia assoluta e a-critica nelle affermazioni scientifiche; in particolare in quelle delle scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia, scienze della comunicazione, ecc.).
Il lavoro da fare, senza negare la validità dell’apporto, sarà proprio di superare questo residuo di scientismo, sia in termini di esaustività (la scienza e le scienze umane non riescono a dire tutto dell’uomo), sia in termini di univocità (la fede, la filosofia, l’intuizione empatica, il senso comune possono scoprire aspetti dell’uomo e avere delle ragioni che nessuna scienza riesce ad affermare).
D'altra parte è da riportare la scienza alla sua radicale ragion d’essere (la scienza per l’uomo) e al suo radicale soggetto: l’uomo, individuo e gruppo, che conosce, comprende, opera nella realtà attraverso la scienza, la tecnica; ma non solo, non sempre e non totalmente attraverso essa.
La tecnologia oggi è uno stimolo allo stesso sviluppo scientifico. Conoscerne la logica, saperla utilizzare a fini pratici, può dar efficacia storica alla propria azione. Ma potrà far toccare con mano come la tecnologia possa essere non tanto nemica ma piuttosto «alleata dell’uomo», come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem exercens.
7.4. L’opera di iniziazione all’umano
In questo contesto di deprivazione antropologica si è fatto più forte e più vasto il ricorso all’umano, come a luogo stabile — anche se generico — di ogni «verità» sul reale, e come a sicuro termine di riferimento dell’agire storico. All’umano — come in passato allo Spirito, all’Idea, al Progresso, alla Scienza, alla Società — molti tornano a riferirsi, quando s’intende vagliare fatti o processi, impegni storici o diritti individuali e collettivi. Non è solo la voce della Chiesa «esperta in umanità» ad innalzarsi a favore dell’uomo nell’attuale tempo di crisi. Non sono solo i gruppi religiosi o gli organismi internazionali o i movimenti ideologici, che di fronte ai fenomeni di oppressione, dominazione, alienazione umana e di fronte al malessere collettivo ed individuale, fanno appello, ad esempio, ai diritti inalienabili dell’uomo, alla sua dignità, alla sua capacità di libera ed autonoma decisione morale e politica, ai molteplici valori che l’uomo esprime nella sua prassi storica. Intorno all’uomo sembra esserci un’indubbia convergenza di vedute. L’uomo sembra essere diventato per tutti, laici e cristiani, credenti e non credenti, il comune orizzonte di comprensione, la base comune d’intesa universalmente condivisa. L’uomo, la sua vita, la vita dell’ambiente naturale e sociale in cui egli vive, sono diventati il denominatore comune su cui vengono ad incontrarsi ed a consentire varie interpretazioni, magari sul resto fortemente disparate o in conflitto tra loro. L’umano sembra porsi come criterio ultimo nella valutazione d’ideologie e di prassi sociali. E pensando al futuro, dopo la crisi dei modelli e dei progetti fino a ieri dominanti, si parla e ci s’interroga su un qualche nuovo «progetto-uomo», che possa essere fonte di realizzazione dell’umanità di tutti e di ciascuno.
D’altra parte queste affermazioni sono altamente problematiche non solo sul terreno pratico, ma anche su quello teorico per le prospettive innegabilmente diverse che le muovono e per i presupposti concettuali che le ispirano. È indispensabile quindi un lavoro di approfondimento e di specificazione, volto a chiarire ed a cogliere meglio le determinazioni presenti in una categoria di pensiero così vasta, pena di veder subito disciolto e svanito il consenso appena raggiunto. Dal punto di vista educativo-pastorale, rimane che l’umano indica il perimetro delle possibilità soggettive e relazionali o, forse, più precisamente, gli aspetti universali dell’individuo, da portare a congruo livello di attuazione attraverso i processi di sviluppo e l’attività sociale di formazione. Ciò permetterebbe sul piano dell’esistenza storica quella comunanza e partecipazione alla specie ed alla vicenda umana, vale a dire all’umanità storica, che è pure ciò che spesso s’intende per umano. A sua volta contravvenire all’umano equivarrebbe ad intaccare negativamente, in minore o maggiore misura, la vita umana in sé stessa.
In questa concentrazione sul primato dell’umano e sui processi di umanizzazione riacquista attualità la tradizione pedagogica umanistica, secondo la quale l’educazione è vista in generale come «iniziazione all’umano» e, sul piano scolastico, come formazione che stimola e sviluppa l’apprendimento di ciò che c’è di tipicamente umano nell’uomo, a cominciare dalla sua razionalità e da una disciplinata libertà individuale. A questi esiti, non potrà non pensare anche l’azione pastorale di formazione.
7.5. Per una cultura umanistica illuminata dalla fede
Da parte del credente tutto ciò va peraltro inquadrato in un più vasto orizzonte di fede e visto secondo un superiore sguardo di fede. L’umanità dell’uomo e la sua crescita vanno cioè ricomprese nella linea del Dio ricco di misericordia e del Cristo Redentore degli uomini. E ciò, senza bruciare le differenze e le autonomie che questo stesso sguardo di fede proclama per le realtà terrestri e per la vita laicale.
Allo scopo di rispettare questa indubbiamente non facile dialettica, bisognerà abituarsi a non contrapporre l’umano e il divino, il naturale e il cosiddetto soprannaturale, il profano e il sacro, la materia e lo spirito, il tempo e l’eterno, ma cercare — non senza difficoltà teorica e pratica — di cogliere l’eterno che è nel tempo, lo spirito che è nella materia, il sacro che è nel profano, e, viceversa, di arrivare alle radici eterne del tempo, allo spessore spirituale della materia, alla sacralità del quotidiano.
Per essere capaci di far ciò, potrà essere utile rifarsi all’insegnamento del Concilio Vaticano II (specialmente per quanto concerne il rapporto Chiesa-mondo, Chiesa-cultura, Chiesa e condizione contemporanea dell’uomo).
La meditazione del mistero dell’incarnazione del «Redentore degli uomini» e una buona teologia dei segni dei tempi, radicate in una corretta e profonda esegesi biblica, potranno dare saldezza ad un quadro di riferimento, valido e significativo.
A queste fonti culturali cristiane occorrerà familiarizzare operatori pastorali e giovani. D’altra parte la coscienza credente avverte che la conoscenza dell’uomo e il lavoro di promozione umana hanno tra le loro condizioni favorevoli, anche l’invocazione, la vita di comunione con Dio e con gli altri, la fede fervida, la speranza fiduciosa, la carità operosa verso Dio e verso l’uomo.
In questo senso si vorrebbe insinuare che una risposta non insulsa alla questione del «che fare» per la promozione di una cultura a misura d’uomo, si declina anche nelle forme molteplici e personalissime di una testimonianza di vita, consapevole della propria fragilità e della gratuità del dono di Dio; nella proclamazione, sobria e delicata, di parole di speranza in risposta al bisogno di senso e di assoluto che è nell’uomo; nell’attenzione fattiva ed efficace ai bisogni dei poveri e dei piccoli, cui inerisce il Cristo risorto. Ed è facile concludere che in un tempo di crisi e di «fine dell’onnipotenza», come è il nostro, ogni giovane e ogni uomo, di qualsiasi condizione sociale essi siano, vengono ad essere sempre più omologabili ad essi.
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