MATURITÀ

Il termine m. si presenta con una varietà di significati (dal suggestivo etimo celtico​​ ma,​​ che sta ad indicare il passaggio dalle tenebre alla luce o il raggiungimento della pienezza del frutto acerbo). In termini generali essa sta per: a) le competenze che costituiscono la meta, vertice e compimento insieme, dello sviluppo di un organismo; b) le competenze adeguate per affrontare una determinata situazione, l’«essere-pronti-per»; c) nel senso comune, leggermente in disuso, l’età intermedia tra la giovinezza e la vecchiaia, considerata come il periodo più pieno e fruttuoso della vita. Il termine descrive, in ultima analisi, il livello più alto e completo di funzionalità di un organismo, come vertice della sua evoluzione o come compito specifico. Implicito nel termine è il riferimento al processo autonomo di maturazione che avviene in ogni organismo attraverso il progressivo evolversi, sotto la spinta di fattori interni e ambientali, verso livelli sempre più complessi e stabilizzati di differenziazione e di integrazione. Si parla di m. fisica, mentale, affettiva, sociale, morale, civile, personale, religiosa e così via. Si può intendere comunque la m. anche a livello globale, come m. umana che nasce dall’interazione dei differenti livelli di m. Nel presente contributo ci si soffermerà sulla m. psicologica, poiché essa costituisce un punto cardine nella costruzione e nella integrazione della m. globale. Tuttavia anche tale approccio richiede si sia attenti alla «antropologia latente», e alle questioni epistemologiche ad esso soggiacenti.

1.​​ L’evoluzione storica del concetto.​​ Da poco più di un secolo il concetto di m. è oggetto privilegiato di ricerca da parte della psicologia sperimentale e clinica. Questa infatti non può prescindere dall’assunzione di un modello di sanità e di m. (sebbene i due termini, spesso usati come sinonimi, non siano equivalenti, poiché la m. fa riferimento in modo univoco alla «pienezza di salute» e ha come alternativa l’immaturità, che può anche non essere patologica). S.​​ ​​ Freud fa implicitamente coincidere la m. con la capacità del soggetto di fare luce su di sé con coraggio ed estrema onestà permettendo all’Io​​ un indispensabile controllo delle componenti pulsionali della vita psichica. Si opera, così, una mediazione tra le esigenze dell’Es​​ e le istanze del​​ Super-Io.​​ Maturazione come passaggio dal principio di piacere al principio di realtà ed, in ultima analisi, capacità di​​ lieben und arbeiten​​ (amare e lavorare). Negli anni ’50, a livello sociale e culturale, avviene il decisivo cambiamento di orizzonte antropologico dall’ideale di un uomo adattato in modo «non repressivo», all’uomo «autorealizzato». Si tratta, nei termini di Kohut, del passaggio dall’uomo «colpevole» (guilty man)​​ della​​ ​​ psicoanalisi, all’uomo «tragico» (tragic man)​​ che lotta per la realizzazione di se stesso. Dopo gli anni ’50, in consonanza con una prospettiva di uomo non deterministico, si approda a indicazioni «positive» circa la m. umana.​​ ​​ Allport (1968) caratterizza la personalità matura per i seguenti criteri: a)​​ l’estensione dell’io:​​ capacità di dedicarsi a una grande varietà di interessi, e di progettarli nel futuro; b)​​ l’oggettivazione dell’io:​​ capacità di valutazione realistica di sé e degli altri con un senso di umorismo sui limiti propri e altrui; c)​​ una filosofia di vita​​ che crei unità e impegno responsabile nell’azione; d) la capacità di​​ un caldo e profondo rapporto​​ con se stessi e con gli altri; e)​​ la competenza​​ nelle abilità realistiche nella soluzione dei problemi concreti della vita; f) un senso di​​ compassione​​ nei riguardi della condizione umana, in ogni sua espressione individuale e comunitaria. M. Jahoda (1958) individua sei criteri indispensabili per esaminare la funzionalità psichica: 1)​​ gli atteggiamenti positivi​​ verso il Sé; 2)​​ la crescita,​​ lo sviluppo​​ e​​ l’autorealizzazione:​​ 3)​​ l’integrazione;​​ 4)​​ l’autonomia;​​ 5)​​ la percezione​​ della realtà; 6)​​ la padronanza​​ (mastery) dell’ambiente. A sua volta​​ ​​ Maslow (1982), uno dei fondatori del Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano, propone ben sedici criteri di m., in cui sono rilevabili alcune idee-guida: capacità di percepire la realtà in maniera accurata e di accettarla; capacità di​​ privacy​​ e di inventiva; spontaneità, genuinità, creatività e non conformismo nel vedere e valutare le cose; capacità di amicizie valide; capacità di rapporti democratici; senso dell’umorismo e tolleranza; capacità di conciliare gli opposti. Decisivi si rivelano soprattutto gli apporti di​​ ​​ Rogers, di​​ ​​ Frankl e della terapia della​​ ​​ Gestalt. La m. secondo Rogers (1970), è definita come la capacità del soggetto di avere «potere personale». Ciò implica, allo stesso modo che per Freud, la conoscenza autentica di se stessi, ritenuta possibile però da Rogers anche mettendo tra parentesi l’inconscio, grazie ad un clima relazionale non valutativo, di fiducia, di accettazione e di stima positiva reciproca. Nel drammatico contesto dei campi di concentramento nazisti nasce invece la​​ ​​ Logoterapia di Frankl (1977). La terapia della Gestalt presenta la m. come un processo funzionale nel quale il sistema sensorio (consapevolezza della direzione verso cui l’organismo intende muoversi) agisce in intima connessione con il sistema motorio (energia e capacità di portare a compimento l’intenzionalità dell’organismo). A livello relazionale, la terapia della Gestalt descrive la m. della persona come capacità di contatto. Il benessere o il malessere derivano dalla qualità delle relazioni che la persona instaura con l’ambiente (Perls-Goodman, 1971). Comincia inoltre ad apparire centrale nella comprensione della persona, della sua m. come anche della sua eventuale patologia, la prospettiva evolutiva. Non solo si pensa la m. come un compito dello sviluppo e l’autonomia personale come punto di arrivo dello sviluppo infantile (Salonia, 1989), ma, soprattutto con​​ ​​ Erikson, si vede la m. come processo coestensivo all’esistenza e si parla di m. diverse proprie di ogni età della vita.

2.​​ Dagli anni​​ 70 alla fine degli anni​​ 80: il principio reciprocità e la società complessa.​​ Negli anni ’70 l’interesse per l’incontro interpersonale come espressione dell’apertura dell’uomo che si autorealizza, si trasforma in quello che possiamo chiamare il principio reciprocità. La relazione supera la prospettiva della «feeling expression» e delle caratteristiche di congruenza ed empatia (Franta-Salonia, 1979) per diventare, in un significativo cambiamento di paradigma, chiave di lettura della realtà. Si pensi ai fondamentali lavori di G. Bateson (1976) e agli sviluppi della Terapia della Gestalt. Si può dire che dalla pubblicazione del testo​​ Pragmatica della comunicazione umana​​ (Watzlawick-Beavin-Jackson, 1971) in poi, la lettura sistemica diventa fattore indispensabile di ogni competenza relazionale: la m. è interpretata all’interno del sistema in cui il soggetto si trova inserito (come il tutto che dà significato alla parte), con la relativa accentuazione della competenza relazionale e comunicativa, e la progressiva sottolineatura della dimensione «ecologica» della m. stessa, vista quale capacità di sentirsi inseriti in totalità tanto ampie da includere perfino la terra ed ogni forma di habitat umano. L’uomo si scopre immerso in una complessità irriducibile che lo costringe a mutare punto di vista sul proprio organismo come sul mondo in cui vive, né l’uno né l’altro comprensibili ormai con spiegazioni lineari e monocasuali, ma leggibili solo con strumenti nuovi, capaci di cogliere la circolarità e l’intreccio tra (e dentro) i sottosistemi ad ogni livello e «tarati» sulle inevitabilità del caos e del disordine, secondo il principio dell’order from noise.​​ L’impossibilità di una osservazione «neutra» ed «oggettiva» all’interno di un sistema complesso, riapre in maniera radicalmente nuova la questione della «conoscenza della conoscenza» rendendo problematica, nel nostro caso, ogni definizione di m. che non espliciti i propri presupposti epistemologici.

3.​​ Le prospettive attuali.​​ Oggi una rinnovata riflessione sulla m. deve tener conto della diffusa «frantumazione sociale» come anche della fine delle grandi appartenenze, scaturita dai mutamenti epocali dell’89, ed è altresì chiamata a misurarsi con il senso di frammentazione del soggetto che non si percepisce integro e coerente e non può porsi quale effettivo interlocutore della complessità e della inestricabilità quotidiana dei messaggi. In una cultura assolutamente restia a tracciare parametri valutativi, la m. si va configurando come apertura della persona alle potenzialità germinali del proprio esserci, nell’abbandono netto di modelli antropologici forti e di ogni cultura dell’eroe, per ritrovare la freschezza e la preziosità di ogni esistenza, pur fragile, debole e ferita.

3.1.​​ L’orizzonte dell’interiorità creativa.​​ In una società frantumata, il primo itinerario di maturazione mira al senso dell’integrità personale. La m. è qui anzitutto capacità di contatto con se stesso, disponibilità ad interrogarsi in una mai conclusa conoscenza della propria interiorità, integrazione dei propri bisogni con le proprie intenzionalità e potenzialità, per potersi sentire soggetti attivi, nei propri contesti vitali, capaci di cambiare i vincoli in risorse, grazie ad una aggressività vissuta anzitutto come discernimento critico dei messaggi e positiva forza assertiva, e grazie ad una esperienza integrata della propria immagine corporea («corpo vissuto») non più asservito alla riduzione visiva del «corpo immagine». Tale ritrovamento di sé dentro la frantumazione, ridà forza per sostenere la difficile colpa della separazione e riapre il soggetto alla creatività del gioco​​ ​​ come esplorazione di competenze e relazioni in una dimensione di spontaneità e di leggerezza​​ ​​ e alla forza unificatrice del raccontare, capacità che dà senso alla molteplicità degli eventi.

3.2.​​ L’orizzonte della condivisione.​​ In una società pluricentrica, in cui la struttura gerarchica è sostituita da quella a rete, diventa necessario apprendere nuove modalità paritarie per ricostruire il «noi», come luogo in cui «consegnare» la propria autonomia. Compito drammatico della m. è oggi riapprendere le regole della relazione, scorgendo l’autenticazione dell’unicità soggettiva, nel riconoscimento pieno del valore dell’altro proprio perché differente. Si profila un​​ ethos​​ della parità, che richiede il superamento incessante delle ricadute nella dipendenza e nella controdipendenza (delega, invidia, gelosia, accusa: «il mondo delle chiacchiere») e il congedo coraggioso dalle evasioni narcisistiche nella eccezionalità personale o di gruppo. Il riconoscimento è terreno di lotta (Gadamer, 1983): esso non è possibile effettivamente senza il rischio del conflitto, in cui vengono espresse sino in fondo le reciproche modalità di esistenza e di resistenza (paura / desiderio di invadere e di essere invasi) e le differenze reciproche emergono con la massima intensità, consentendo così la realizzazione di una situazione nuova e nutriente per i soggetti in gioco (Gadamer, 1983; Perls-Goodman, 1971). In tale prospettiva l’amicizia diventa luogo di apprendimento della effettiva compagnia; la relazione amorosa si fa momento di strutturazione dell’esistenza, in un’intimità affettiva e corporea radicalmente collocata dentro l’orizzonte della fedeltà a se stessi e all’altro; il lavoro diventa ambito di collaborazione e di competenza.

3.3.​​ L’orizzonte della responsabilità.​​ In una società sottoposta al rischio dell’individualismo esasperato, percorsi della m. passano attraverso il sentirsi responsabili dell’altro, come capacità di «prendersi cura»: prendersi cura di chi cresce (abbandonando le scorciatoie distruttive del dominio e del convincimento unidirezionale, per lo sviluppo di una educazione propositiva incentrata sul confronto e sull’obiezione); prendersi cura degli ultimi, di coloro che pur abitando la casa comune non usufruiscono degli stessi diritti e delle stesse possibilità degli altri. Si accede alla m. del tempo postmoderno quando ci si sente custodi responsabili anche del fragile, del caduco in quanto tale e dell’umanità futura. Naturalmente gli orizzonti delineati, mentre tentano di indicare le strade della m. percorribili in un presente vario e difficile, presuppongono continuamente un ritrovato senso del limite e del confronto aspro e liberante con le assurdità dell’esistenza. L’interrogativo duro che ad ogni ipotesi di m. viene dalla violenza, dalla guerra come anche dal dolore dei singoli e dalla morte, non può essere eluso: essere maturi significa prima di tutto imparare a cercare un significato umano e una possibilità di crescita anche nel massimo dell’orrore e dello smarrimento, nel tempo della speranza oltraggiata e del terribile silenzio di Dio, non più da eroi, ma da uomini che si fanno carico umilmente della propria debolezza e di quella degli altri. La definizione della m. è costretta a rimanere un​​ work in progress,​​ una domanda aperta per ogni diversa sensibilità culturale.​​ Wege,​​ nicht Werke​​ (sentieri, non opere), direbbe Heidegger, perché nella m. non conviene forse parlare di definizioni o di parametri, ma di sentieri aperti.

Bibliografia

Allport G. W.,​​ Psicologia della personalità,​​ Zürich, PAS-Verlag, 1968; Perls F. - R. Hefferline - P. Goodman,​​ Teoria e pratica della terapia della Gestalt,​​ Roma, Astrolabio, 1971; Bateson G.,​​ Verso un’ecologia della mente,​​ Milano, Adelphi, 1976; Franta H. - G. Salonia,​​ Comunicazione interpersonale,​​ Roma, LAS, 1979; Minuchin S.,​​ Famiglie psicosomatiche,​​ Roma, Astrolabio, 1980; Maslow A. H.,​​ Motivazione e personalità,​​ Roma, Armando, 1982; Gadamer H.,​​ Verità e metodo,​​ Milano, Bompiani, 1983; Freud S.,​​ Il disagio della civiltà,​​ X, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, 553-563; Salonia G.,​​ Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto,​​ in «Quaderni di Gestalt» 8 / 9 (1989) 45-54; Hillesum E.,​​ Diario,​​ Roma, Adelphi, 1990.

G. Salonia

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