LAVORO

LAVORO

Giorgio Campanini

 

1. Il disagio giovanile nei confronti del lavoro

1.1. Svolta della «cultura del ’68»

1.2. Crisi deU’ethos borghese e marxista del lavoro

1.3. Fenomeni attuali: tempo Ubero, part time

1.4. Modificazioni tecnologiche

1.5. Nuove generazioni femminili

1.6. Condizioni disumane e domanda di lavoro

2. I fondamenti della teologia del lavoro

2.1. Spiritualità, etica e pastorale del lavoro

2.2. Valori generali del lavoro

2.3. Attuale etica del lavoro

2.4. Etica professionale

2.5. Lavoro e tempo libero

3. Una pastorale del lavoro per le nuove generazioni

3.1. Storia recente della teologia del lavoro

3.2. Divaricazione tra «umanesimo cristiano»​​ e sviluppo economico

3.3. Crisi dell’ottimismo tecnologico

3.4. Emergere della «solidarietà»

3.5. Direzioni attuali

 

Esperienza centrale e fondamentale nella vita dell’uomo — e dunque nella stessa vita del credente — il lavoro appare assoggettato, soprattutto da un ventennio a questa parte e con specifico riferimento alle società industriali avanzate, a radicali trasformazioni. L’immagine complessiva di lavoro che si va affermando fra le nuove generazioni ha ormai ben pochi punti di contatto con quella delle precedenti generazioni. Comprendere il significato dei mutamenti culturali in atto è condizione essenziale perché la comunità cristiana possa continuare ad annunziare il «Vangelo del lavoro» e rispondere dunque alla​​ nuova domanda di senso​​ che emerge, per lo più a livello inconsapevole, dalla coscienza delle nuove generazioni.

1. Il disagio giovanile nei confronti del lavoro

1.1. Svolta della «cultura del ’68»

Il 1968 (non, evidentemente, in quanto accadimento cronologico, ma come «simbolo» di un mutamento culturale profondo) rimarrà probabilmente come uno dei punti discriminanti della storia ideale della concezione del lavoro in occidente. Quella stagione, infatti, segna in un certo senso la crisi, almeno nell’area europeo-nordamericana, di quello che è stato chiamato l’ethos borghese del lavoro; di una visione del mondo, cioè, al cui centro sta​​ l’homo faber,​​ espressione fondamentale del quale è appunto il lavoro (e, con esso, la tecnica e la produzione). A partire dalla svolta rappresentata dalla «cultura del ’68», per gran parte delle nuove generazioni il centro dell’esistenza si è trasferito​​ fuori​​ del lavoro, in quello che prima di allora veniva chiamato «tempo libero» e che sarebbe più proprio definire come «tempo del non lavoro». Momento centrale dell’esistenza è diventato quello del «consumare», nella accezione più vasta e comprensiva, e non più del produrre; e del resto si produce quasi esclusivamente per procurarsi i mezzi necessari per consumare.

La società occidentale aveva a lungo teorizzato, e spesso praticato, un ideale di vita al centro del quale stava il lavoro, con l’importante conseguenza — evidenziata in particolare da Marx, il quale può essere considerato il più coerente assertore della teoria del primato del lavoro — che espropriare l’uomo del suo lavoro e dei frutti di esso significava in qualche modo​​ espropriare l’uomo.​​ La grande protesta morale del movimento operaio dell’Ottocento nasceva dalla rivolta di uomini, i «proletari», che si consideravano «estraniati» rispetto alla società borghese proprio perché non riconosciuti in una loro fondamentale dimensione, il lavoro. Le stesse libertà civili apparivano prive di senso se non collegate a una nuova visione del rapporto fra uomo, lavoro e società.

1.2. Crisi dell’ethos borghese e marxista del lavoro

In una società sempre più largamente dotata di beni di consumo, nella quale è sufficiente lavorare poco (o, al limite, si può non lavorare affatto) per vivere e per raggiungere, nonostante tutto, un tenore di vita forse modesto ma comunque immensamente superiore, in termini di disponibilità di beni pubblici e privati, rispetto a quello dell’uomo del mondo antico, l’appello che suscita maggiore risonanza fra le nuove generazioni è quello a una vita tutta libera, tutta ludica, tutta erotica, in cui elemento fondamentale non è la fatica del produrre ma la gioia del consumare.

Questo cambiamento di prospettiva mette in crisi congiuntamente tanto l’ethos borghese quanto l’ethos marxista del lavoro, e in parte lo stesso ethos cristiano, che tuttavia non si è mai del tutto identificato né con l’uno né con l’altro, poiché ha sempre affermato il​​ primato della contemplazione​​ in quanto espressione del primato di Dio rispetto alle cose. L’ethos borghese del lavoro, come del resto quello marxista, si era fondato sul primato della prassi. Lavorare non era semplicemente un modo di procurarsi i beni necessari all’esistenza, ma era la via maestra per realizzare l’uomo in una sua fondamentale dimensione e per dare avvio alla trasformazione del mondo attraverso un nuovo rapporto fra l’uomo e la natura. Il marxismo contestava il sistema di potere della società borghese ma non ne metteva in discussione il centro, appunto il lavoro: la rivoluzione, eliminando per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, avrebbe dovuto creare le premesse per la realizzazione non solo di un nuovo modo di produzione ma di un​​ uomo nuovo; ma il centro di questo «uomo nuovo» era pur sempre costituito, in virtù del primato della prassi, dal suo rapporto con la natura, mentre le dimensioni della trascendenza, della contemplazione, dello stesso gioco, venivano presentate come astratte e alla fine alienanti. Ne derivava in generale una concezione della vita che aveva il suo fulcro nel lavoro e nei rapporti di potere ad esso collegati.

1.3. Fenomeni attuali: tempo libero, part time

Nella coscienza delle nuove generazioni il lavoro si colloca ormai alla periferia, non più al centro, dell’esistenza. Il luogo fondamentale di realizzazione di sé stessi è visto sempre più frequentemente nel «non lavoro»; e anche quando il lavoro viene ricercato e comunque accettato, lo si persegue per quegli aspetti di inventività, di imprevedibilità, in qualche modo di «gratuità» che lo assimilano quanto più possibile al «tempo libero». Il rifiuto che in occidente sta colpendo tutta una serie di attività considerate troppo poco creative ed eccessivamente ripetitive (oltre che troppo gravose e stressanti), o anche solo troppo assorbenti e tali dunque da lasciare troppo ristretti spazi di libertà, è illuminante al fine della comprensione di questo mutamento di prospettiva.

Alla contestazione radicale del lavoro portata avanti negli anni attorno al 1968, e che si esprimeva nell’idealizzazione di una vita disancorata dal lavoro (di cui la figura dello​​ hippy​​ era in qualche modo il simbolo) è subentrata una contestazione di altro segno più duttile e più pragmatica. Si tende a ritardare da un lato l’ingresso formale nel mondo del lavoro e ad anticiparne dall’altro lato l’uscita (dando luogo ai paralleli fenomeni degli «eterni studenti» e dei «pensionati baby»), in modo da fare della fase lavorativa — all’interno di una vita media che tende costantemente a prolungarsi — una sorta di parentesi, pur sempre necessaria in attesa di nuove invenzioni tecnologiche, nell’arco complessivo dell’esistenza. Agli occhi di molti, l’ideale è quello di lavorare per un tempo quanto più breve possibile, per potere disporre di un tempo di non lavoro quanto più lungo possibile.

Nella stessa direzione opera la tendenza, da parte delle nuove generazioni, ad accettare preferibilmente forme di lavoro​​ part time​​ o comunque tali da non assorbire un segmento troppo ampio della giornata. I tipi di lavoro che, per la loro stessa struttura, impongono in qualche modo un’identificazione tra esistenza e lavoro vengono spesso rifiutati e lasciati alle macchine o subordinatamente alle correnti migratorie che stanno determinando, in Italia come in quasi tutti i paesi occidentali, una sorta di nuova «divisione del lavoro», per effetto della quale alle nuove generazioni dei residenti restano affidate soltanto le mansioni meno pesanti, meno onerose in termini di tempo, meno ripetitive (e spesso anche meglio remunerate).

1.4. Modificazioni tecnologiche

Questo mutamento di prospettiva nel modo di percepire il lavoro da parte della nuove generazioni non sarebbe ovviamente intervenuto se nel frattempo non si fossero verificate profonde modificazioni tecnologiche, quelle stesse che hanno indotto a coniare il termine di «società post-industriale», caratterizzata dalla fine della centralità del lavoro industriale e dall’emergenza di una serie di attività e di professioni che hanno, almeno in parte, quelle caratteristiche di autogestionalità e di duttilità che le rendono più appetibili alle nuove generazioni. Relegare il tempo di lavoro in una posizione relativamente marginale nel corso dell’arco dell’intera esistenza è ora possibile in quanto lo sviluppo tecnologico, trasferendo alla macchina una serie di mansioni, ha reso sempre più marginale, in termini di tempo, l’impegno diretto dell’uomo, riservando a questi funzioni essenzialmente di programmazione o di direzione. La società informatica (o cibernetica) alla quale in occidente ci si sta ormai avviando a rapidi passi si caratterizza appunto per questo radicale ridimensionamento del lavoro, in termini di tempo globale se non propriamente di impegno intellettuale.

La società post-industriale, dunque, da un lato spinge essa stessa in direzione di una marginalizzazione del lavoro; dall’altro favorisce una riflessione culturale che propone in termini nuovi il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Del resto, se si continuasse a teorizzare il lavoro come centro dell’esistenza in una società in cui se sta ormai diventando​​ la periferia​​ (anche, come si è visto, sotto il profilo della parte dell’esistenza complessivamente dedicata al lavoro), si determinerebbe una sorta di intollerabile schizofrenia: atteggiamento, questo, per altro riscontrabile di fatto, soprattutto nel confronto-conflitto fra le vecchie e le nuove generazioni, dal momento che vi è chi continua a identificare la persona prevalentemente in base al suo​​ status​​ professionale, come se esso fosse l’unico o almeno il principale fattore di individualizzazione. Alla posizione periferica che di fatto il lavoro ha occupato corrisponde ancora (ma fino a quando?) una posizione di tutto rilievo che esso continua ad avere nel costume e nella mentalità prevalenti; ma si tratta in realtà di una sorta di ritardo culturale a forte caratterizzazione ideologica, nel senso che la realtà appare in qualche modo «camuffata» e si continua a presentare come reale, e a teorizzare, quel «primato del lavoro» che, riscontrabile nell’originaria società borghese, non sussiste più nelle società tecnologicamente avanzate, nelle quali il centro dell’esistenza tende a spostarsi altrove.

 

1.5. Nuove generazioni femminili

Una particolare attenzione merita, all’interno del mondo giovanile, quel particolare «universo» che è rappresentato dalle nuove generazioni femminili. Da circa un trentennio a questa parte, e per la prima volta nella storia dell’umanità, si è spezzata la connessione — rimasta a lungo nella cultura tradizionale, sino ad apparire quasi «naturale» — fra donna e lavoro prestato all’interno della casa (non necessariamente, dunque, «lavoro domestico», ma pur sempre lavoro svolto nel fondo agricolo vicino alla casa, o nella casa stessa trasformata in laboratorio artigianale o in piccola fabbrica). Ciò che a partire dal Settecento veniva presentato come una «necessità», e dunque implicitamente come una eccezione (e cioè il lavoro «extradomestico» della donna, soprattutto della donna sposata) è diventato a mano a mano​​ un diritto,​​ e spesso anche un diritto socialmente riconosciuto e codificato dalla legislazione, se non sempre e non dovunque sanzionato dalla prassi: si ritiene infatti che la personalità della donna debba — al pari di quella dell’uomo — essere posta in condizione di realizzarsi nel vasto ambito del lavoro e delle professioni, nessuna esclusa. Nuova concezione del lavoro della donna, questa, resa possibile per un verso dall’introduzione delle macchine (e dunque dal superamento dei condizionamenti negativi rappresentati dalla minore forza muscolare femminile) e per un altro verso dalla rivoluzione demografica, che ha portato al ridimensionamento della famiglia e alla parallela riduzione dei compiti domestici.

La massiccia immissione delle donne nel «mercato del lavoro» ha tuttavia coinciso con una fase storica in cui, per effetto degli sviluppi stessi dell’innovazione tecnologica, il «monte lavoro» complessivo tende a ridursi continuamente. Da un lato, dunque, il lavoro disponibile diminuisce; dall’altro entrano nel «mercato del lavoro» forze, come appunto le donne, che sino a ieri erano rimaste ai suoi margini. Si profila così quello che sarà il problema sociale del XXI secolo, e cioè l’equa ripartizione del lavoro disponibile fra le varie società mondiali e, nell’ambito di ogni singola società, fra le generazioni e fra i sessi.

1.6. Condizioni disumane e domanda di lavoro

Le considerazioni sin qui svolte non intendono in alcun modo offrire un quadro astratto e idilliaco della realtà del lavoro oggi in Italia e nel mondo. Rimangono ampie fasce di sfruttamento del lavoro (soprattutto degli emigrati, delle donne, dei minori); persistono condizioni di lavoro ancora subumane o ad alto rischio, e dunque con frequenti infortuni sul lavoro, anche mortali; rimane elevata, e presumibilmente non destinata a rientrare in tempi brevi, la disoccupazione totale o parziale.

Nonostante tutte queste considerazioni, si deve tuttavia confermare la lettura culturale del lavoro fatta all’inizio. Si leva ancora dalla società una forte domanda di lavoro, e di lavoro svolto in condizioni umane, sufficientemente garantito e decorosamente remunerato; ma il lavoro non è generalmente ricercato in sé e per sé, come ancora avveniva per molti, se non per tutti, nella stagione dell’egemonia dell’ethos del lavoro borghese e marxista, bensì voluto​​ in funzione di altro,​​ soprattutto di consumi che si vorrebbero sempre più elevati, qualitativamente raffinati e insieme diffusi e anzi generalizzati. Quella della fase lavorativa dell’esistenza appare dunque, agli occhi delle nuove generazioni, una fase di passaggio — ora da subire passivamente, ora da vivere responsabilmente — in vista di una realizzazione di sé i cui «luoghi» vengono generalmente cercati e trovati altrove: nella sfera del «privato», nell’uso del tempo libero, nella realizzazione di spazi di libertà e di creatività posti fuori dell’ambito del lavoro produttivo. La «separatezza» che la cultura borghese aveva realizzato fra pubblico e privato viene dunque riproposta, ma in termini capovolti rispetto al passato: questa volta l’«autentico» non è più il «pubblico», ma il «privato», e il primato non spetta più al pubblico (soprattutto nelle forme della politica e dell’economia) ma al privato: dall’amore, allo svago, al rapporto con la natura, all’esercizio di attività realizzate liberamente come​​ hobby​​ e non subite fatalisticamente come «dovere».

2. I fondamenti della teologia del lavoro

2.1. Spiritualità, etica e pastorale del lavoro

Anche in un contesto profondamente mutato, resta il problema di dare un senso anche religioso al lavoro, che costituisce pur sempre una componente importante — e in talune fasi della vita decisiva — dell’operare e dell’essere stesso dell’uomo. D’altra parte, in un’autentica prospettiva di fede non esistono, nella vita del cristiano, aree neutrali o zone d’ombra che la parola di Dio non possa illuminare. Anche l’esperienza del lavoro non si sottrae a questa regola e pertanto anche nei suoi confronti si esercita quella complessiva​​ attribuzione di senso​​ che è caratteristica peculiare dell’etica e della spiritualità cristiana. Sotto questo aspetto, uno stretto nesso intercorre fra spiritualità del lavoro, etica del lavoro, pastorale del lavoro: si tratta sostanzialmente di tre modi diversi — ma non antitetici, anzi fra loro complementari — di guardare allo stesso problema. Nessun serio cammino formativo proposto ai giovani può prescindere dall’esigenza di sollecitare una stretta e feconda integrazione tra fede e vita quotidiana, ivi compresa l’esperienza del lavoro, senza separatismi e senza dicotomie, ma anzi in una prospettiva che sappia nella fede dare senso compiuto anche a gesti e a operazioni apparentemente ripetitive e banali.

Calare la visione cristiana del lavoro nella peculiarità della condizione giovanile implica la percezione più approfondita possibile dei mutamenti in atto e delle esigenze di cui le nuove generazioni si fanno portatrici, in modo da evitare un’assolutizzazione del dato culturale foriera di pericolose commistioni fra messaggio biblico e realtà contingente, e dunque fra parola di Dio e parola dell’uomo. Una puntualizzazione della teologia del lavoro nei suoi vari aspetti appare di conseguenza necessaria in vista della fondazione di una pastorale del lavoro che tenga in particolare considerazione le nuove istanze della condizione giovanile.

 

2.2. Valori generali del lavoro

Il messaggio biblico sul lavoro si fonda, nella sua essenzialità, sulla proposizione di alcuni valori generalissimi.

Il primo valore è quello della​​ dignità del lavoro.​​ Dio stesso «lavora» (e «si riposa» dopo il suo lavoro), e dunque, se degno di Dio il lavoro è degno anche dell’uomo e anzi rappresenta non semplicemente una «attività» ma una «vocazione» (Gn 1-3); né si tratta soltanto di un’attività svolta in vista del soddisfacimento di mere necessità materiali, ma piuttosto di un orientamento generale della persona a realizzarsi sempre più compiutamente attraverso il pieno dominio della natura.

Il secondo valore è quello dell’instaurazione di un​​ giusto rapporto fra lavoro e riposo​​ e dunque anche fra azione e preghiera (o contemplazione). Il lavoro non è tutto l’uomo ma rappresenta soltanto un aspetto del suo essere nel mondo; occorre quindi fare spazio a Dio all’interno della propria vita: la domenica come giorno gelosamente riservato al Signore (Gn 2,2) è il simbolo di questa permanente tensione fra storia ed escatologia. 11 terzo tema è la​​ valorizzazione della dimensione sociale del lavoro,​​ aspetto sul quale insistentemente ritorna, soprattutto in alcune note parabole, il Nuovo Testamento: fare fruttificare la terra, nel senso di fare sprigionare da essa nuove ricchezze e potenzialità, è doveroso non tanto in vista dell’accumulazione di sempre nuovi beni, ma piuttosto come mezzo per poter venire incontro alle necessità degli altri, in una prospettiva di circolazione e di condivisione dei beni che trova la sua più alta, anche se un poco utopica, espressione nella «società fraterna» delineata dagli Atti degli apostoli (At 2,44-45).

Da questo complesso di insegnamenti — che soprattutto a partire dagli anni ’50 la teologia del lavoro ha ampiamente sviluppato — possono essere dedotte, sul piano della prassi, due fondamentali indicazioni.

La prima riguarda il diritto-dovere di lavorare: ogni uomo è chiamato a contribuire alla valorizzazione del mondo, al di là di ogni prospettiva grettamente economistica e utilitaristica, come modo per rendere gloria a Dio che ha posto l’uomo nel mondo perché lo «coltivasse», gli facesse cioè esprimere tutte intere le sue potenzialità.

La seconda indicazione concerne il diritto-dovere di operare per realizzare un’organizzazione del lavoro che consenta a tutti gli uomini e ad ogni uomo di realizzarsi in esso, attuando cosi la propria vocazione e insieme orientando a vantaggio delle persone le scelte fondamentali dell’apparato produttivo, contro ogni tendenza allo sfruttamento indiscriminato della natura e dell’uomo stesso.

2.3. Attuale etica del lavoro

Mentre la prima indicazione può essere considerata «tradizionale» — essendo già presente nella Bibbia e nella stessa tradizione ebraica, da dove è trapassata nel cristianesimo — la seconda è relativamente nuova, perché frutto di una cultura, come quella affermatasi in occidente dopo la rivoluzione industriale, che fa dell’organizzazione del lavoro non un dato immodificabile e necessitato (come inevitabilmente doveva apparire all’uomo pre-moderno, strettamente legato attraverso il lavoro agricolo a una realtà solo parzialmente plasmabile, la terra) ma il prodotto di un insieme di libere scelte dell’uomo.

L’etica cristiana del lavoro non può dunque ridursi, quasi privatisticamente, a un’etica individuale della persona del lavoratore, ma è tenuta ad affrontare il problema del significato del lavoro anche sotto il profilo dell’organizzazione del sistema produttivo nel suo complesso. Proprio perché fatto eminentemente sociale, il lavoro va considerato non come un insieme di gesti e di comportamenti isolati, ma come un complesso di scelte e di atteggiamenti che si legano gli uni agli altri e il cui senso ultimo non può essere dato dal frammento, ma dal tutto, cioè dall’intenzione profonda, esplicita o implicita, che sta alla base dell’insieme del sistema produttivo.

A un’etica del lavoro preoccupata quasi esclusivamente dei comportamenti individuali, secondo un orientamento prevalente sino al recente passato, subentra un’etica del lavoro attenta soprattutto ai condizionamenti sociali che sul lavoro si esercitano. È a questo aspetto del produrre e del lavorare, del resto, che appaiono particolarmente attente le nuove generazioni, nonostante le sollecitazioni che nei loro confronti esercitano le spinte individualistiche largamente presenti in una società che nelle sue stesse nuove forme organizzative (in particolare per il sostituirsi di piccole e agili unità produttive alla grande fabbrica) tende a operare nel senso dell’accentuazione della dimensione soggettiva del lavoro.

2.4. Etica professionale

In questa prospettiva può e deve essere riproposto il problema dell’etica professionale, intesa nel suo significato più ampio (con riferimento, cioè, a tutte le forme di lavoro, dipendente o indipendente). A livello di pastorale giovanile non è tanto importante fondare le singole e specifiche etiche professionali — impresa, d’altra parte, impossibile, essendo oltre tutto imprevedibile il quadro delle future professioni — quanto piuttosto fornire alcuni orientamenti di fondo, tendenzialmente validi per tutte le professioni.

Sotto questo profilo appare necessario, in primo luogo, ricuperare la dimensione sociale di ogni etica professionale. Non esistono infatti attività o mestieri che non abbiamo in sé una dimensione relazionale; anche il lavoro più astratto ha sempre un concreto referente, diretto o indiretto, in altri uomini e nell’umanità nel suo complesso (la stessa incidenza sull’ambiente ha, indirettamente, ripercussioni sull’uomo). Si tratta dunque di formare i giovani alla comprensione del carattere strutturalmente «multidimensionale» del lavoro e alla percezione della inter-relazioni intercorrenti fra i vari gesti dell’uomo. Si supererà, per questa via, il rischio di una lettura individualistica dell’etica professionale, quasi fosse possibile dare senso al lavoro soltanto «facendo il proprio dovere», senza domandarsi quali ripercussioni questo insieme di atteggiamenti abbia, in positivo e in negativo, sulla società e alla fine su altri uomini. In secondo luogo, l’etica professionale deve essere incoraggiata a superare una concezione ristretta e alla fine deformante del rapporto tra fini e mezzi, con il rischio di una valutazione puramente economica (o, ancor peggio, soltanto utilitaristica) del proprio lavoro. Ciò che può essere valido nell’ambito di un’economia considerata in sé e per sé, può non esserlo sul piano generale della vita sociale: si pensi, ad esempio, alle connessioni fra lavoro e vita familiare, fra lavoro e salvaguardia dell’ambiente, fra lavoro e religione. Al limite, scelte legittime nel solo ambito dell’etica di una specifica professione possono diventare illegittime se collocate in un ambito più vasto.

In una società complessa come la nostra, senza pretendere di fornire ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro risposte definitive in ordine al rapporto fra etica e professione, è pur sempre possibile offrire alcuni grandi criteri orientativi capaci di creare le premesse per l’esercizio di un sano spirito critico, al di là dell’orizzonte, spesso ristretto, di ogni singola professione.

2.5. Lavoro e tempo libero

In sintesi, una teologia del lavoro è chiamata, anche nei confronti delle nuove generazioni, a far crescere nella coscienza dei credenti la capacità di assumere il lavoro in tutte le sue dimensioni, personali e sociali, per farne un momento di liberazione e di crescita della persona: senza affidare al solo lavoro il compito di far crescere tutto l’uomo, anche soltanto nella sua dimensione fabbricatrice.

Il lavoro è certo un fondamentale momento di affermazione, di liberazione, di promozione dell’uomo; ma non lo esaurisce tutto, e anzi trova il suo senso profondo nel costante rapporto dialettico con il non-lavoro: i momenti del riposo, della distensione, della contemplazione, del gioco, del culto, del raccoglimento sono non meno essenziali all’umanizzazione dell’uomo di quanto non sia il tempo del lavoro.

Conferire senso al lavoro, attribuendo insieme un significato costruttivo e personalizzante anche al «tempo libero», rappresenta il fondamentale obiettivo dell’etica cristiana del lavoro e della stessa pastorale giovanile del lavoro. Soprattutto nel momento in cui viene meno l’immagine tradizionale del lavoro — fondata, come già si è rilevato, sull’individuazione della prassi come campo privilegiato della realizzazione di sé — appare necessario ricuperare le radici autenticamente religiose del lavoro, oltre l’ethos borghese (influenzato alle origini, secondo le note tesi di M. Weber, da componenti religiose, che tuttavia sono state a poco a poco perdute per via) e insieme oltre l’ethos marxista, in una prospettiva atta a ritrovare l’equilibrio già indicato nella felice formula della regola benedettina​​ Ora et labora;​​ formula che, in termini moderni, potrebbe essere ripresa e ritradotta sotto forma di contemperamento delle dimensioni «libera» e «necessitata» dell’esistenza, entrambe necessarie ma cariche di senso solo in una prospettiva in cui l’una non esclude l’altra, fuori di un orizzonte che rinchiuda l’uomo nel cerchio invalicabile della pura prassi.

3. Una pastorale del lavoro per le nuove generazioni

3.1. Storia recente della teologia del lavoro

La teologia del lavoro si è sviluppata lentamente ma progressivamente a partire dagli anni ’30, grazie alla «teologia delle realtà terrestri» e alla «nuova teologia» (in particolare a M. D. Chenu), passando attraverso la fondamentale esperienza dei «preti operai» (e dei «cappellani del lavoro» o di figure simili), sino a trovare una sistemazione in qualche modo definitiva con la costituzione conciliare​​ Gaudium et spes​​ (si vedano di essa sia tutto il contesto della prima parte sia i nn. 63ss in particolare). Parallelamente allo sviluppo della teologia del lavoro, e in parte per le sollecitazioni da essa provenienti, ha cominciato a costituirsi anche una pastorale del lavoro, le cui prime organiche anticipazioni possono essere individuate, dopo alcune pionieristiche esperienze del «cattolicesimo sociale» dell’Ottocento, nelle esperienze più sistematiche condotte già negli anni ’30 soprattutto a opera di gruppi specializzati dell’Azione cattolica. In verità l’integrazione fra teologia del lavoro e pastorale del lavoro non è stata così armonica come sarebbe stato necessario: mentre infatti la prima si è sviluppata sul piano prevalentemente teoretico e in direzione dell’approfondimento delle tematiche bibliche ad essa connesse, la seconda è stata fortemente condizionata dall’esigenza, del resto ineludibile, di prendere posizione su problemi fortemente avvertiti dalle masse lavoratrici, e soprattutto dai lavoratori dell’industria, quali il conseguimento di più equi livelli salariali, la salvaguardia del posto di lavoro, l’umanizzazione del lavoro di fabbrica, l’instaurazione di forme di cogestione e di compartecipazione. È mancata in parte la stretta collaborazione, che pure sarebbe stata necessaria, fra quanti riflettevano teologicamente sul lavoro e coloro (soprattutto laici impegnati nei vari settori produttivi) che vivevano direttamente, da credenti, quello stesso impegno.

Di questo stacco ha risentito anche il cammino formativo delle nuove generazioni, all’interno del quale solo in modo parziale e disorganico è stato affrontato il problema del lavoro, con particolare riferimento all’etica e alla spiritualità dell’impegno professionale. A lungo la catechesi ha pressoché totalmente ignorato il problema del lavoro (salvo qualche generico spunto di etica professionale) e non sempre le sollecitazioni provenienti dai nuovi catechismi della CEI sono state raccolte e sviluppate.

3.2. Divaricazione tra «umanesimo cristiano» e sviluppo economico

Tale complessivo ritardo della riflessione sul lavoro è apparso ancor più grave a seguito del parziale venir meno dell’«umanesimo del lavoro» che si era affermato, anche in Italia, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale ed era stato in qualche modo recepito, anche per iniziativa dei Costituenti cattolici, dalla Costituzione italiana (art. 1.). Quell’umanesimo si era implicitamente fondato sul presupposto, rivelatosi poi non verificato, che l’espansione della produttività e i miglioramenti nelle condizioni di lavoro determinati dagli sviluppi della tecnologia potessero di per sé porre su nuove basi il rapporto fra uomo e lavoro, creando così le premesse per una reale liberazione del lavoro. In realtà la struttura dei tradizionali rapporti di produzione (e di potere) si rivelava pressoché impermeabile a queste nuove sollecitazioni, e gli stessi obiettivi strategici della classe operaia, e dello stesso sindacalismo di ispirazione cristiana, tendevano a spostarsi in direzione dell’acquisizione di un più elevato tenore di vita piuttosto che di una diversa distribuzione del potere decisionale nell’ambito dei processi produttivi. D’altra parte manifestava la sua astrattezza, e rivelava dunque una limitata incidenza pratica, all’interno della cultura di ispirazione cattolica, una certa enfasi personalistica lontana dai problemi reali: la «centralità della persona» nei luoghi di lavoro e il «primato del lavoro» sul capitale venivano a più riprese proclamati e in qualche misura teorizzati, ma raramente tradotti nella pratica.

Di qui una crescente divaricazione fra l’«umanesimo del lavoro» espresso dalla cultura cattolica (e per certi aspetti anche da quella di ispirazione marxista) e il reale procedere dell’economia nazionale. Grazie al «miracolo economico» e all’adozione di tecnologie sempre più raffinate, cresceva immensamente — nel relativamente breve arco di un trentennio — la disponibilità di beni e di servizi e si riduceva parallelamente il tempo di lavoro, sia in termini di durata della giornata lavorativa sia in generale sotto il profilo del rapporto fra «vita attiva» e fase della formazione professionale a monte e del pensionamento a valle; ma il lavoro tendeva a perdere in larga misura il posto di rilievo che negli anni delle grandi lotte sociali e sindacali dell’immediato dopoguerra aveva occupato: al centro si collocava, come già si è rilevato, il momento del consumare assai più che quello del produrre, e il primo assai più del secondo veniva indicato come il vero luogo di un «umanesimo del lavoro» (in realtà di un «umanesimo del non lavoro») calato nella realtà dei processi produttivi della società post-industriale.

3.3. Crisi dell’ottimisino tecnologico

A mano a mano che questi processi giungevano a maturazione, tuttavia, si verificava un mutamento di prospettiva che potrebbe essere espresso in termini di​​ crisi dell’ottimismo tecnologico.​​ Si è in parte verificata la previsione di un movimento tendenzialmente ascensionale dei profitti e dei salari, e dunque dell’accumulazione e dei consumi; ma ciò è avvenuto a prezzo di pesanti costi umani e ambientali e senza che si verificasse l’auspicato salto di qualità nel processo di umanizzazione del lavoro. La teologia del lavoro giungeva a riconoscere pienamente, dopo quasi due secoli di diffidenze e di incomprensioni, il significato e il valore della tecnica proprio nella fase storica in cui, dopo gli entusiasmi tecnologici degli anni ’50 e ’60, la stessa tecnica era assoggettata a un severo processo all’interno delle stesse scienze umane. Sempre più frequentemente ci si domandava, e ancora ci si domanda, se compito delle innovazioni tecnologiche non dovesse essere non soltanto liberare dal lavoro ma anche​​ liberare il lavoro;​​ in realtà l’impresa riusciva sul primo piano ma falliva in gran parte sul secondo, e quella sorta di «redenzione laica» che l’umanesimo tecnologico si attendeva dal lavoro veniva trasferita altrove e trovava il suo epicentro nell’attività ludica disinteressata, e dunque fuori del lavoro.

Agli occhi delle nuove generazioni il lavoro appare sempre più come una realtà sostanzialmente​​ secondaria,​​ come condizione per l’ottenimento dei mezzi necessari per realizzarsi​​ fuori del lavoro: in virtù di una sorta di eterogenesi dei fini per effetto della quale un meccanismo che avrebbe dovuto avere in sé stesso la sua giustificazione finisce per cercarla e trovarla​​ altrove.

In una stagione che, per il lavoro, è quella del disincanto e della disillusione — e dunque, parallelamente, anche della perdita di combattività sul piano di un rivendicazionismo sindacale che si proponga finalità generali — resta tuttavia affidato alla comunità cristiana il compito di ricuperare e di rifondare il senso e la dignità del lavoro in sé e per sé, indipendentemente dalla sua redditività economica; momento certo non unico dell’agire dell’uomo, ma espressione pur sempre importante e qualificante di un impegno grazie al quale il credente si associa al compito creativo di Dio e alla missione redentrice di Cristo.

3.4. Emergere della «solidarietà»

Al centro di questa riproposizione del senso del lavoro da parte della comunità cristiana sta la categoria della​​ solidarietà.​​ Componente tradizionale della «fraternità operaia», la solidarietà è stata posta in crisi dall’avvento di una cultura fortemente soggettivistica, individualistica, frammentaria, decisamente orientata al successo e dunque strutturalmente competitiva.

Questa nuova «cultura del lavoro» incentrata sulla competitività esprime essa pure taluni valori e rappresenta per certi aspetti un fattore di innovazione e dunque di progresso economico (ma non sempre necessariamente anche sociale); e tuttavia comporta costi assai pesanti, soprattutto nei confronti degli individui e dei gruppi più deboli e marginali. Si tratta di costi che, dal punto di vista meramente economico, la società industriale avanzata riesce in qualche modo a coprire (ad esempio garantendo un decoroso livello di vita anche ai gruppi esclusi dal lavoro o precocemente espulsi dal mondo del lavoro) ma che, dal punto di vista umano, sono in realtà insopportabili e inammissibili.

La «logica delle cose» sembra spingere i rapporti fra gli individui e i gruppi sociali (e gli stessi rapporti fra i popoli) in una direzione che accresce il divario fra i «ricchi» e i «poveri», fra le avanguardie e le retroguardie di questo nuovo processo di sviluppo tecnologico; ma vi è da domandarsi se la comunità cristiana possa subire passivamente questo andamento dell’economia o non debba invece cercare di correggerlo — e, prima ancora, di guidarlo, piuttosto che subirlo — soprattutto nel senso dell’attivazione di nuove spinte in direzione della solidarietà.

Su questa linea, del resto, si è posto da tempo il più recente magistero sociale della Chiesa, dalla​​ Populorum progressio​​ (1967) alla​​ Sollicitudo rei socialis​​ (1988).

Il forte richiamo che la coscienza cristiana ha a più riprese elevato in direzione degli «ultimi» e dei loro diritti opera appunto nel senso dell’attivazione di nuove energie di solidarietà che prendano il posto di quelle, in parte ormai disperse, dell’antico movimento operaio. Senza solidarietà e condivisione, del resto, il lavoro è destinato a perdere in gran parte il suo significato umanizzante.

 

3.5. Direzioni attuali

Una pastorale del lavoro orientata a cogliere i bisogni e le attese, almeno impliciti, delle nuove generazioni, deve dunque sapersi orientare in alcune ben precise direzioni.

La​​ prima​​ è quella della fondazione complessiva del senso del lavoro, in una prospettiva che sia insieme teologica e spirituale, capace cioè di attribuire significato ai gesti della fatica quotidiana, ovunque e comunque svolta, muovendo dalla consapevolezza che il lavoro non è mai soltanto «professione» ma anche «vocazione»​​ (Beruf),​​ e dunque pone l’uomo in relazione non soltanto con le cose ma, da ultimo, con Dio.

La​​ seconda​​ direzione è quella della non assolutizzazione del lavoro come unico tempo vitale dell’uomo, in una prospettiva formativa che ricuperi il senso del lavoro​​ accanto​​ ad altre esperienze non meno importanti e ricche di significato (la vita sociale e di relazione, il godimento della natura e dell’arte, l’amore e la vita familiare, la contemplazione e la preghiera...).

Il fatto che non si attenda più tutto, o quasi, dal lavoro, non implica che da esso non ci debba attendere più nulla, anche in termini di concorso alla crescita complessiva della persona grazie a quelle qualità di impegno, di disinteresse, di accettazione della fatica, di collaborazione con gli altri, che strutturalmente il lavoro richiede.

La​​ terza​​ ed ultima direzione è quella della rivalutazione di una categoria che la cultura moderna tende, pericolosamente, a porre fra parentesi, e cioè quella di​​ gratuità,​​ strettamente legata all’altra di solidarietà, anzi in un certo senso fondativa di essa. Vi può essere, nel mondo delle cose, una pura logica del dare e dell’avere, della redditività e dell’efficienza; ma questa logica non può essere trasferita nel mondo della vita personale senza che essa non ne riceva, come contraccolpo, una pericolosa degradazione. Operare nel mondo del lavoro significa anche attrezzarsi per queste fondamentali esperienze di gratuità e di solidarietà senza le quali anche un lavoro professionalmente serio e qualificato è privo di quell’anima profonda che è la sostanza stessa del processo di umanizzazione del lavoro.

 

Bibliografia

A) Sul lavoro e società

Accornero A.,​​ Il lavoro come ideologia, Il Mulino, Bologna 1980; Baggio A. M.,​​ Lavoro e Cristianesimo - Profilo storico e problemi, Città Nuova, Roma 1988; Bagolini L.,​​ Filosofia del lavoro, Giuffré, Milano 1971; Campanini G.,​​ La «cultura del lavoro» cattolica e le sue fonti: la teologia morale e la catechesi, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 1987, n. 1, pp. 3-14;​​ La cultura del lavoro dall’illuininismo all’informatica​​ (a cura di S. Azzaro), CSEO, Bologna 1983; De Masi D. (a cura),​​ Giovani e lavoro, Angeli, Milano 1983;​​ Giovani e lavoro - Dati empirici e prospettiva culturale, Vita e Pensiero, Milano 1981; Girardi G. (a cura),​​ Coscienza operaia oggi, De Donato, Bari 1980;​​ Il lavoro per l’uomo, Città Nuova, Roma 1982; Novak M.,​​ Lo spirito del capitalismo democratico e il Cristianesimo, Studium, Roma 1987, (con pres. di A. Tosato); Piazzi G. - Cipolla C.,​​ Il disincantato affettivo - Ricerca sulla condizione giovanile in un contesto di terza Italia, Angeli, Milano 1985; Scuola, giovani e professioni, Vita e Pensiero, Milano 1979.

B) Sulla teologia del lavoro

Bianchi G. (e coll.),​​ Dalla parte di Marta - Per una teologia del lavoro, Morcelliana, Brescia 1986; Bottiglione R.,​​ L’uomo e il lavoro, CSEO, Bologna 1982; Campanini G.,​​ Etica cristiana del lavoro, in Aa. Vv., «Messaggio cristiano ed economia», Dehoniane, Bologna 1974; Campanini G.,​​ Il cristiano fedele alta terra, Dehoniane, Bologna 1984; Chenu M. D.,​​ Per una teologia del lavoro​​ (1955), Borla, Torino 1964;​​ Per una teologia del lavoro nell’epoca attuale, Dehoniane, Bologna 1985.​​ Lavoro e Chiesa oggi - Per una lettura della «Laborem exercens», Vita e Pensiero, Milano 1983 (19872);​​ Danaro e coscienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1987 (cf in particolare Pavan P.,​​ La dimensione umano-cristiana del lavoro, pp. 201 - 213); Truhlar K. V.,​​ Il lavoro cristiano - Per una teologia del lavoro, Herder, Roma 1966.

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LAVORO

L’accostamento dei termini l. ed educazione richiama una duplice connessione dinamica: l’educazione​​ al​​ l. o formazione in vista dell’attività lavorativa ed educazione​​ nel​​ l. quale occasione specifica di crescita umana.

1.​​ L.,​​ educazione e contesto storico-culturale.​​ Nel corso della storia questo duplice nesso assume una consistenza molto diversificata, perché variando il concetto di l. nei diversi contesti culturali, mutano di conseguenza significati e prassi educative riguardanti l’attività lavorativa. Nel mondo occidentale è soprattutto la riflessione filosofica a offrire, nel corso dei secoli, una serie di concezioni emblematiche di l., a cui sono inevitabilmente sottesi dei particolari orientamenti dell’educazione. Nell’antichità (Grecia e Roma), prevaleva una valutazione negativa del l., considerato come attività manuale riservata agli schiavi, mentre era proprio degli uomini liberi dedicarsi alla guerra, alla politica, alla speculazione. Più oltre, nell’epoca paleocristiana, il l. fu visto come mezzo di espiazione, come sofferenza solo attenuata dal senso di partecipazione all’attività creativa di Dio. Durante il​​ ​​ Medioevo esso assurge con le corporazioni a strumento di solidarietà economica, politica e religiosa. Ma è solo con il Rinascimento che viene esaltato come veicolo di progresso civile e di autonomia personale. Col​​ ​​ protestantesimo Lutero ne fa «un servizio» e Calvino una via di ascesi, come valore etico per la consacrazione della vita nel mondo. L’Illuminismo e l’Idealismo ne mantengono l’immagine positiva quale elemento di dignità sociale. Questo ottimismo viene successivamente incrinato con l’evoluzione del​​ ​​ capitalismo verso ampie forme di sfruttamento del l. umano. Marx, riconoscendo il l. come azione vicendevole di scambio tra uomo e natura, ne denuncia anche i risvolti spesso alienanti. Le critiche si approfondiscono poi con la Scuola di Francoforte. Intanto lo scenario del rapporto fra sviluppo del l. e società si fa più complesso. L’esplosione delle rivoluzioni industriali porta alla frantumazione dei mestieri tradizionali e al diffondersi dell’automazione, dell’informatica, della robotica, della terziarizzazione delle attività economiche, facendo assumere al l. un significato talmente polimorfo da suscitare problemi biologici, psichici, filosofici, politici e conseguentemente educativi. Ormai tutte le correnti della filosofia contemporanea riservano al l. una riflessione attenta e spesso centrale: sorto come strumento dell’uomo, esso può diventare un potenziale per la sua crescita, ma insieme una realtà che lo soverchia e ne minaccia il destino (Friedmann, 1971), fino ad esserne preconizzata la fine (Rifkin, 1995). La stessa Chiesa cattolica, anche attraverso una serie di encicliche papali emanate in particolare dal 1891 ad oggi, ha inteso elaborare un’etica del l. costantemente rispettosa delle esigenze della persona in contesti in divenire.

2.​​ Pedagogia e l.​​ Il pensiero pedagogico ha considerato il l. come componente specifica dell’educazione solo a partire dalla fine del 1700. In precedenza, non era mancata una certa valorizzazione dell’operatività fondata sull’esperienza pratica e manuale. Ma di una «scuola del l.», sia pure come mezzo di riscatto delle classi povere, parlò per primo​​ ​​ Pestalozzi nel 1790, tuttavia bisognò attendere il periodo a cavallo tra il XIX e il XX sec. perché la pedagogia riconoscesse al l. una funzione precisa di maturazione della persona. Da allora, a seconda delle varie aree geografiche e culturali, vi è stato un moltiplicarsi di proposte, dibattiti ed esperienze. Nell’ambiente tedesco, fu soprattutto​​ ​​ Kerschensteiner a formulare una vera sintesi pedagogica sul l., esaltato per la sua relazione con i valori, la sua utilità civile e i potenziali di sviluppo nelle capacità di ideazione, pianificazione e controllo. Negli Stati Uniti dell’industrialismo taylorista e fordista,​​ ​​ Dewey denunciò i pericoli dell’economicismo e dell’individualismo, indicando nell’attività professionale uno spazio privilegiato di collaborazione sociale.​​ ​​ Kilpatrick, suo discepolo, propose come obbligatoria nei​​ colleges​​ qualche esperienza di l. Sulla scia del pensiero marxista la pedagogia russa (​​ marxismo pedagogico), andò sviluppando l’idea di una «formazione politecnica», a base sia teorico-scientifica che pratico-polivalente, orientata a formare il giovane come padrone della macchina e vero protagonista nella vita collettiva. Lo svizzero Ferrière considerò la scuola come un insieme di attività svariate che, passando dal gioco al l., dall’imitazione alla costruzione autonoma, sollecitasse un impegno sia manuale che intellettuale e sociale. In Italia, nel solco di una ricca tradizione di​​ ​​ formazione professionale, offerta da istituzioni religiose (Somaschi,​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane,​​ ​​ Salesiani),​​ ​​ Gentile e​​ ​​ Lombardo Radice proposero un curricolo scolastico capace di fondere gioco e l.​​ ​​ Gramsci propugnò una scuola unica, fatta di cultura generale e di esperienze successive di orientamento alla professione. Intorno alla seconda metà del secolo vari studiosi aggiungono ulteriori elementi di riflessione e proposta.​​ ​​ Hessen diffonde a livello europeo l’idea di una scuola longitudinale unica orientata a superare una mentalità produttivistica, per una cultura della solidarietà e dello sviluppo globale dell’uomo che, a suo avviso, va liberato​​ nel​​ l. e non​​ dal​​ l. Litt è per un’educazione che sottragga dalle dinamiche fagocitanti dell’evoluzione economica e tecnologica, attraverso un recupero della libertà con scelte di valore sugli indirizzi dell’attività produttiva.​​ ​​ Maslow, gerarchizzando i bisogni dell’uomo al l., pone a loro vertice dinamico l’autorealizzazione, come tensione a diventare pienamente se stessi.

3.​​ Evoluzione tecnologica e professionalità.​​ Fino a un passato recente i termini mestiere e​​ ​​ professione indicavano un insieme di competenze precise, costituite da capacità e abilità specifiche, necessarie per lo svolgimento di una particolare mansione. Oggi questa connessione è pressoché disciolta. Sparita la vecchia cultura agricola e artigiana, la stessa società industriale si va trasformando rapidamente nella società delle informazioni e dei servizi, con mutamenti che investono ormai tutta l’impalcatura della professionalità tradizionale. In questo quadro si riducono fortemente le prestazioni puramente esecutive, mentre si dilatano enormemente quelle di programmazione, controllo e informatizzazione. Oggi anche il lavoratore tradizionale deve possedere doti di intellettualizzazione circa i processi del l., iniziativa, mobilità geografica e professionale, flessibilità di fronte alle esigenze di aggiornamento continuo e di acquisizione di nuove tecnologie, di collegamento con settori diversi dal proprio: dalla finanza al marketing, dal diritto alle scienze sociali e della comunicazione. L’apparire di una nuova «classe creativa» (Florida, 2003) sta accelerando inoltre lo sviluppo di un diverso professionalismo, in cui diventa prioritaria la capacità di collaborare e di acquisire linguaggi scientifico-culturali, la consapevolezza e duttilità nei ruoli organizzativi, l’abilità di​​ problem solving,​​ l’attitudine alle scelte e decisioni e il possesso di impianti valoriali di fondo ispirati alla​​ ​​ tolleranza e all’interculturalità. Nel contempo questa evoluzione aumenta i rischi di obsolescenza professionale che rende sempre più spesso necessari interventi di ricollocazione e di riorientamento.

4.​​ L’educazione e la formazione professionale.​​ Alla luce di queste trasformazioni, attuali e di prospettiva, l’educare​​ al​​ l. e​​ nel​​ l. comporta ormai nuove ottiche, sia nella riflessione pedagogica che negli interventi concreti. Infatti l’educazione è destinata non solo a valicare gli ambienti tradizionali della famiglia e della scuola, ma ad estendersi al corso dell’intera esistenza individuale, nella prospettiva del​​ lifelong learning. UNESCO, Consiglio d’Europa, OCSE e l’UE lo stanno affermando da qualche decennio. In Italia questa cultura pedagogica del l. si sta affermando. Sono tuttavia ancora ampiamente da integrare concetti e prassi inerenti l’educazione (intesa come maturazione globale della persona sotto il profilo etico, psicologico, religioso e sociale), l’istruzione (finalizzata all’accrescimento culturale) e la formazione professionale (come risposta alle esigenze di autorealizzazione nell’ambito lavorativo). Vanno meglio definiti in sé, e resi fra loro realmente integrati e flessibili, sistemi formativi come l’istruzione tecnica e professionale e la formazione professionale. Nella panoramica variegata dell’attuale «cantiere delle riforme», sembra si possano segnalare alcune aree privilegiate di educazione professionale e, in esse, alcune esigenze particolari di intervento: a)​​ L’orientamento come modalità educativa permanente.​​ L’azione orientativa corrisponde, all’interno del processo educativo, all’aiuto fornito alla persona affinché possa realizzare le sue potenzialità mediante scelte adeguate verso la professione, dalla giovinezza all’età adulta. In questo senso orientamento scolastico e professionale risultano complementari, in quanto il primo pone l’attenzione sullo sviluppo globale dell’individuo e sui problemi di apprendimento, mentre il secondo è focalizzato sulle scelte di studio o di l. che consentiranno la sua maturazione professionale. b)​​ Una scuola rinnovata,​​ aperta e per tutta la vita.​​ Una prima esigenza di una scuola orientata al l. è un suo collegamento più stretto con la prospettiva della professione. Secondo alcune proposte formulate più direttamente per la situazione italiana, il sistema scolastico dovrebbe essere possibilmente unitario dall’infanzia all’università e prevedere uscite e rientri più facili rispetto al mondo del l. Scuola e università dovrebbero confrontarsi costantemente con il mondo lavorativo e imprenditoriale, mentre la stessa cultura professionale dovrebbe trasformarsi in vera «cultura del cambiamento», nell’ottica di una qualificazione continua rispetto al «diverso e possibile» e di un apprendimento esteso a tutta la vita. c)​​ La formazione professionale: iniziale,​​ continua e plurima.​​ La formazione professionale, in quanto dimensionata sullo sviluppo economico e produttivo, è in continua evoluzione e si sta configurando verso un vero e proprio sistema, come raccomandato fortemente dalla UE. Nella situazione italiana è possibile delineare in essa una certa varietà di dimensioni tra la formazione iniziale di base (di livello secondario), una nuova formazione superiore non accademica (di livello terziario) e la formazione continua. d)​​ Linee educative trasversali.​​ Tutte le iniziative dovrebbero svolgere un’azione di educazione globale dei giovani e delle giovani, che nella scuola e nelle strutture formative, vanno preparati a ricercare nel l. un’occasione di autorealizzazione individuale e sociale. In questo senso è importante la «motivazione» al l.: sotto il profilo dei suoi aspetti sociali, retributivi e del suo significato esistenziale personale. Andrebbe insieme evidenziata la dimensione cognitiva dell’attività lavorativa, quale ambito di conoscenza per il superamento dei problemi. Inoltre sembra da favorire un reale processo di socializzazione al l. nel percorso di formazione dell’identità personale lungo i momenti diversi della carriera professionale.​​ 

5.​​ Problematiche connesse con l’educazione al l.​​ L’educazione professionale non può non includere anche riflessioni e prassi specifiche circa esperienze strettamente collegate con quella del l. La disoccupazione, ad es., che permane un fenomeno di vaste dimensioni, postula aiuti preventivi e puntuali, per contenerne i danni psicologici, stimolare tecniche efficaci di ricerca del l., destare le risorse psicologiche e sociali dell’individuo. Lo stesso tempo libero, che sembra avere significative correlazioni con l’attività lavorativa, va fatto rientrare in un’educazione professionale che sia formazione globale dell’uomo. Nelle situazioni di devianza si può trovare nel l. una via pedagogica efficace (ergoterapia) al recupero e allo sviluppo della personalità. In tempi più recenti sono emerse anche le nuove problematiche legate all’andamento demografico, all’invecchiamento della popolazione e alla crisi dei sistemi pensionistici (tipiche dell’ageing society). Le sfide poste all’educazione dalla realtà di un l. umano, estremamente polimorfo e destinato a evoluzioni imprevedibili, sono sfide pienamente aperte che restano di vitale importanza per l’intera qualità dell’esistenza, a livello tanto individuale che collettivo.

Bibliografia

Negri A.,​​ Filosofia del l. Storia antologica,​​ Milano, Marzorati, 7 voll., 1980-1981; Rifkin J.,​​ La fine del l., Milano, Baldini e Castoldi, 1995; Beck U.,​​ Il l. nell’epoca della fine del l., Torino, Einaudi, 2000; Donati P.,​​ Il l. che emerge, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; Fraccaroli F. - G. Sarchielli,​​ È tempo di l. Per una psicologia dei tempi lavorativi, Bologna, CLUEB, 2002; ISFOL,​​ Prolungamento della vita attiva e politiche del l., Milano, Angeli, 2002; Florida R.,​​ L’ ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita,​​ valori e professioni, Milano, Mondadori, 2003; Alessandrini G. (Ed.),​​ Pedagogia e formazione nella società della conoscenza, Milano, Angeli, 2005; Marcaletti F.,​​ L’orizzonte del l.​​ Il prolungamento dell’esperienza professionale nell’ageing society, Milano, Vita e Pensiero, 2007.

G. Tònolo

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