IDEOLOGIA

IDEOLOGIA

Mario Montani

 

1. Primarie ambiguità (e negatività) del concetto di ideologia

1.1. L ’ideologia degli​​ «ideologi»

1.2. L’ideologia in Marx (1818-1883)

1.2.1. Ideologia come coscienza «inefficace»

1.2.2. Ideologia come coscienza «falsa»

1.3. L’ideologia in Nietzsche (1844-1900)

1.4. Ideologia e utopia in K. Mannheim (1893-1947)

2. Ricupero del ruolo positivo dell’ideologia

2.1. L’«immaginazione culturale» tra ideologia e utopia in P. Ricoeur (n. 1913)

2.2. Ideologia e maturità umana

2.3. L’ideologia a scuola della storia

2.3.1. La parzialità del sapere

2.3.2. La dinamicità del sapere

2.3.3. La dialogicità del sapere

3. Ideologia e mondo giovanile

3.1. Il fascino dell’ideologia

3.2. Il rifiuto dell’ideologia

3.3. L’educazione all’ideologia

 

1. Primarie ambiguità (e negatività) del concetto di ideologia

Se, come afferma Pirandello, ogni parola è un sacco vuoto in cui ciascuno vi immette un proprio contenuto (rendendo poi impossibile la reciproca comprensione), uno dei vocaboli che a pieni titoli può aspirare al primato di polivalenza e di ambiguità semantica è certamente​​ ideologia.​​ Prima di adoperarlo s’impone sempre la necessità (e l’onestà) di esplicitarne il significato, altrimenti converrebbe non usarlo. Tentare una meticolosa ricerca storica delle sue interpretazioni, oltreché comportare il rischio di perderci in un arido e discutibile elenco di labirinti filologici e sociologici, ci appare soprattutto — nel nostro contesto — una inopportuna distrazione. Coscienti pertanto di trovarci di fronte ad un concetto difficile da definirsi, preferiamo prima presentare il pensiero ispiratore delle principali accezioni del vocabolo (di solito negative) impiegate oggi; poi seguirne uno stimolante ricupero (positivo); infine affrontare alcuni problemi che si insinuano nello specifico rapporto tra ideologia e mondo giovanile.

Il «tempo delle ideologie» è il «tempo del pluralismo culturale». Quando infatti una cultura è retta da un principio unitario del mondo — come potè essere la società medioevale, fondata filosoficamente e garantita teologicamente su una convergente visione della realtà e su un comune modello obbligante di vita — non c’è gran spazio per progetti alternativi. Nondimeno né l’unitarietà (culturale) è, di per sé, tutta positività; né il pluralismo è, di per sé, tutta negatività: saranno l’agevolazione e l’efficacia nel promuovere l’integrale sviluppo dell’uomo e della società, offerte dall’uno o dall’altro ambiente, a postulare preferenze, convenienze, rigetti.

 

1.1. L’ideologia degli «ideologi»

È nel tardo illuminismo settecentesco che appare il termine​​ ideologia​​ («scienza delle idee»), coniato da Destutt de Tracy (17541836) e poi assorbito dai contemporanei esponenti del sensismo francese, per indicare la disciplina che «indaga l’origine (puramente sensoriale) delle idee e la legge secondo cui si formano», sul modello di Condillac. L’obiettivo non era solo quello di «riallacciarsi alla tradizione baconiana della distruzione di tutti gli​​ idoli​​ di natura metafisica e religiosa...; ma mirava soprattutto a gettare le basi di una nuova dottrina dell’educazione, intesa a strutturare in modo liberato (dal giogo dei “pregiudizi”) lo Stato uscito dalla rivoluzione» (Mancini,​​ Teologia ideologia utopia,​​ pp. 290-291), e così realizzare un ordine giusto e razionale dell’umanità senza dover ricorrere al «mistero dell’ordine sociale» (= metafisica e religione). Tale prevalente interesse pedagogico-politico fu combattuto con asprezza dalle due istituzioni dello stato e della Chiesa. Gli​​ ultra​​ cattolici della restaurazione (De Maistre, Chateaubriand) pensavano di fondare la stabilità sociale sull’alleanza trono-altare. Napoleone percepì ben presto come le nuove teorie contrastavano alla radice la pratica del suo potere imperialistico personale; perciò «non risparmiò nulla sul piano della polemica e dell’azione per sbarazzarsene, finché non ebbe partita vinta. Cominciò con il considerare gli “ideologi” astratti, parolai, perdigiorno, per finire con il considerarli sediziosi, nocivi, disgregatori» (ivi,​​ p. 292). In conseguenza di ciò e con un totale rovesciamento di posizione, l’ideologia,​​ nata come progetto critico e rivoluzionario, venne qualificata e definitivamente propagandata in Europa quale «tenebrosa metafisica», e​​ ideologo​​ divenne sinonimo di uno che sta nelle nubi e non capisce nulla dei problemi concreti del mondo.

In ogni modo va rilevato che se il dispregio di Napoleone (poi rimasto) era estrinseco (l’eliminazione di antagonisti politici), in effetti questo concetto di ideologia conteneva già in sé un significato negativo, tanto per il suo sensismo empirista, quanto per l’individualismo e razionalismo illuministico di cui impregnava fin dall’origine il diritto naturale da esso veicolato.

 

1.2. L’ideologia in Marx (1818-1883)

Della dozzina di interpretazioni che studiosi come G. Gurwich hanno individuato nella produzione marxiana, noi presenteremo le due più caratteristiche e più diffuse. Seguiremo il saggio di Mancini, il quale, per focalizzare variazioni contenutistiche e momenti cronologici, fa perno sul termine​​ coscienza,​​ intesa come «il complesso mondo delle idee filosofiche, religiose, morali, politiche che Marx chiama “la gigantesca sovrastruttura”» (ivi,​​ p. 307).

 

1.2.1. Ideologia come coscienza «inefficace»

Per il giovane Marx la religione è la forma paradigmatica della coscienza ideologica: non per la sua falsità, bensì per la sua inefficacia (riprende e supera la critica di Feuerbach alla religione). Quando Marx scrive le famose espressioni: «La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è​​ l’oppio​​ del popolo (Opium des Volkes). La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione,​​ 1843), egli riconosce alla religione una funzione contestativa della miseria umana. «Solo che si tratta di una contestazione inefficace, perché il rimedio misticheggiante è in realtà mistificatore, e invece di trasformare il mondo, lo accetta così com’è... Si vuol fuggire la miseria presente, ma unicamente sperperando tesori terrestri nel cielo. Più che oppio per il popolo, la religione diventa così oppio​​ del​​ popolo, che va in cerca di un falso superamento. L’ideologia nasce qui, da questa inefficacia legata alla rappresentazione religiosa» (Mancini, p. 310). Per far scomparire il riflesso religioso bisognerà allora eliminare la causa, dovuta non alla natura umana ma ad un preciso fatto storico: il capitalismo e la divisione del lavoro. Perciò non si dovrà togliere un’idea, bensì la contraddizione reale esistente nella vita pratica: «Il comuniSmo è la posizione come negazione e perciò il momento​​ reale​​ — e necessario per il prossimo sviluppo storico — dell’umana emancipazione e restaurazione»​​ (Manoscritti economico-filosofici del 1844).

 

1.2.2. Ideologia come coscienza «falsa»

Con​​ L’ideologia tedesca​​ (1845) Marx matura un nuovo concetto molto più radicale del precedente (possiamo chiamarlo della «falsa coscienza»), poiché si è convinto che tutte le forme di coscienza (giuridiche, politiche, economiche, artistiche, filosofiche e religiose) non sono che​​ sovrastrutture​​ del modo di essere del capitale e del lavoro nella realizzazione borghese. Non è più soltanto questione dell’inefficacia della religione e dell’indirettamente negativo; ora si afferma una totale negazione del complesso mondo della coscienza, la quale si reputa autonoma nel suo formarsi mentre è appieno subordinata alla pretesa mistificatoria della società borghese. La negazione della veridicità della coscienza è fatta coincidere con l’emergere del primato dell’essere​​ economico e sociale, ritenuto capace di determinare con «leggi scientifiche» la realtà dell’uomo. L’analisi delle forme e dei rapporti di produzione rivela come la classe dominante giustifica e mantiene i propri privilegi creando e difendendo una​​ sovrastruttura concettuale​​ (l’ideologia, appunto), vera e propria deformazione della realtà che plagia le coscienze e le rende inconsapevolmente «false»: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza​​ materiale​​ dominante della società è in pari tempo la sua potenza​​ spirituale​​ dominante... Le idee dominanti non sono altro che l’espressione dei rapporti materiali dominanti»​​ (L’ideologia tedesca).​​ Chi pertanto si interessa solo del mondo astratto delle idee (filosofi e teologi) senza intervenire sulla base materiale (o struttura) e senza operare sugli individui storici concreti, non fa che prolungare l’inganno della «cattiva coscienza», dal momento che «non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»​​ (ivi).

1.3. L’ideologia in Nietzsche (1844-1900)

Prescindendo dalle tappe della sua elaborazione, in Nietzsche l’ideologia si definisce come «volontà di potenza». Siamo sempre nel contesto dello spaesamento della verità e della ragione, «ma su di esso si innesta una nuova funzione della coscienza che conduce alla formulazione di una ontologia dei valori, sciolta totalmente dal rispecchiamento economico e legata a peculiari funzioni della volontà e del dominio» (Mancini, p. 387). La frase del folle de​​ La gaia scienza​​ «Dio è morto», sintetizza la proclamazione del nichilismo dei «valori finora ritenuti supremi» (metafisica, religione, cristianesimo compreso che vi si appoggia): alla concezione dell’essere come verità (che non esiste) subentra l’essere come valore (da crearsi a misura d’uomo). La logica dà senso al comportamento umano, non perché sia vera ma «per porre e ordinare un mondo che deve essere vero per noi». Il più-vero consiste allora nel piùfecondo, nel più-potente e il giudizio non è legato all’è​​ così​​ ma all’è​​ utile che sia così.​​ «Vivere il nichilismo» per «superare il nichilismo» significa quindi l’abbandono volontario di ogni riferimento alla verità dell’essere e far coincidere la «verità» con la potenza, il vero con l’effetto (l’utilità), con il tenuto per vero, con il criterio del contagio. Simili premesse, per una «logica interna», richiedono e impongono di dionisiacamente vivere la gioia dell’eterno ritorno dell’eguale (ché il mondo esiste senza valori dati e senza escatologia). L’uomo nuovo, l’Ubermensch​​ (il superuomo) è colui che vive senza le categorie di Dio e di scopo, e che vive solo in funzione della forza finale; ossia è colui che è uomo in base alla realtà determinata dalla propria «volontà di volere» (= ideologia). La nuova umanità, liberata da alienazioni metafisiche e religiose, si determina nel vivere​​ attivamente​​ per assumere il dominio della terra. E da una posizione di totale condanna e rifiuto (benché, a dire il vero, sia prima di tutto di incomprensione) del cristianesimo, Nietzsche lancia la grande accusa, che diventa la grande sfida: «Finisce la vita dove comincia il Regno di Dio... Solo un Dio che sappia danzare è un Dio credibile».

 

1.4. Ideologia e utopia in K. Mannheim (1893-1947)

Per il Mannheim, sociologo e storicista, l’ideologia non è, come nel marxismo, giudizio e norma della condotta politica di una classe sociale; è invece un comune e ineliminabile modo di vedere la realtà, privo di ogni elemento valutativo. «Con il termine di “ideologia” noi intendiamo affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi nascondono lo stato reale della società a sé e agli altri e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice» (K. Mannheim,​​ Ideologìa e utopia, p. 41). Svelato l’elemento inconscio, un’ideologia si dissolve agli occhi dell’osservatore per passare ad un’altra, in un perpetuo cerchio in cui si chiude l’orizzonte storico dell’uomo. Ammettere che «i significati di cui si costituisce il nostro mondo sono storicamente condizionati e nient’affatto assoluti»​​ (ivi,​​ p. 86), non equivale a cadere nel nichilismo: «Questo giudizio non valutativo che diamo alla storia non conduce inevitabilmente al relativismo, ma piuttosto al relazionismo. Il conoscere, considerato alla luce della concezione totale dell’ideologia, non è un’esperienza vana, poiché l’ideologia nel suo aspetto relazionale non coincide affatto con l’illusione. La conoscenza che nasce da una esperienza concretamente vissuta, sebbene non sia assoluta, non per questo è meno conoscenza»​​ (ivi).​​ E per salvarsi dall’appiattimento dell’immodificabile ciclo storico, in cui è assente il criterio dell’assoluto, il Mannheim distingue (cf​​ ivi,​​ p. 97) una forma di​​ ideologia negativa​​ che «elude il presente, tentando di comprenderlo nei termini del passato» (= coscienza «ideologica») e una forma​​ valutativa e dinamica​​ che «trascende il presente ed è orientata verso il futuro» (= coscienza «utopica»).

Poiché in genere le utopie si ritengono portate avanti dalle classi in ascesa, mentre le ideologie dalle classi dirigenti e «stagnanti» (da qui, tra l’altro, l’esplicito rimprovero allo stesso marxismo di essersi trasformato da utopia in ideologia), anche la tesi del Mannheim sull’utopia (tutta positiva) — come quella di Marx sull’ideologia (tutta negativa) — raccolse ampi consensi, tanto da diventare uno dei punti fermi della cultura contemporanea. Tuttavia nel rapporto antitetico fra ideologia e utopia si è andato sviluppando un fecondo ripensamento critico che ha rivisto e corretto le valutazioni di entrambe.

 

2. Ricupero del ruolo positivo dell’ideologia

 

2.1. L’«immaginazione culturale» tra ideologia e utopia in P. Ricoeur (n. 1913)

Il volume​​ Tradizione o alternativa​​ (contiene saggi del 1974-76) di P. Ricoeur è uno dei più importanti contributi che hanno rimesso in discussione le tesi tradizionali di Marx e Mannheim, riscattando l’ideologia dal pesante verdetto di condanna inflittole dal primo e ridimensionando l’aureola decretata dal secondo all’utopia. Ricoeur riscontra come l’ideologia, assieme alla funzione negativa denunciata da Marx, ne ha diverse altre talvolta ancor più importanti: «essa è per la prassi sociale quello che un motivo è per un progetto individuale: un motivo è contemporaneamente ciò che giustifica e ciò che trascina. Analogamente, l’ideologia ha una sua logica; essa è mossa dalla volontà di dimostrare che il gruppo che la professa ha ragione di essere ciò che è. Ma non bisogna troppo in fretta trarre da ciò un argomento contro l’ideologia: il suo ruolo mediatore resta insostituibile; e questo ruolo eccolo: l’ideologia è sempre più di un​​ riflesso,​​ nella misura in cui essa è anche​​ giustificazione e progetto» (p. 63). Inoltre il ruolo di questa forma di sapere — o, secondo il linguaggio ricoeuriano, di «immaginazione culturale» — «non è soltanto di diffondere la convinzione al di là della cerchia dei padri fondatori per farne il credo del gruppo intero; si tratta anche di perpetuare l’energia iniziale oltre il periodo di effervescenza» (p. 63). Ne consegue, tutto sommato, che «l’ideologia ha una sua funzione fondamentale: quella di modellare, consolidare, dare ordine al corso dell’azione... Svolge una funzione di conservazione, sia nel senso buono che in quello cattivo della parola» (p. 51). Affinché poi risulti prevalente il ruolo positivo, bisognerà sforzarsi di neutralizzare ciò che essa ha per natura di ambiguo: la tendenza alla ripetizione, la capacità di colmare il vuoto di ogni sistema di autorità, la preferenza per gli «siogans» dissimulanti, la difesa della «ortodossia», gli atteggiamenti di intolleranza, che cominciano quando la novità minaccia gravemente la possibilità per il gruppo di ri-conoscersi, di ritrovarsi.

Dell’utopia, che sembrava presentarsi tutta candida nell’esibizione dei suoi scopi, Ricoeur mette in luce i tratti patologici. Dapprima riconosce che «se l’ideologia è intesa come una funzione dell’integrazione sociale, per contrasto l’utopia appare come la funzione della sovversione sociale» (p. 54) e che «il modo utopico è per l’esistenza della società ciò che l’invenzione è per la conoscenza scientifica.

Essa può essere definita come il progetto immaginario di un altro tipo di società, di un’altra realtà, di un altro mondo. L’immaginazione svolge qui la sua funzione costitutiva in modo inventivo piuttosto che integrativo» (p. 52).

Ma proprio a motivo della sua forte tensione verso il futuro, l’utopia cade con facilità nell’«evasione»; tipica sua malattia è «una tendenza a sottomettere la realtà ai sogni, a delineare schemi di perfezione del tutto separati dall’intero corso dell’esperienza umana del valore» (p. 55). «Questa eclissi della prassi può essere ritrovata nella fuga nello scrivere... Al suo ultimo stadio, la patologia dell’utopia nasconde sotto i suoi tratti di futurismo la nostalgia per il paradiso perduto, se non un regressivo quanto ardente desiderio per il grembo materno» (p. 56).

Per Ricoeur ideologia e utopia non sono antitetiche, in quanto si rivelano, in una tensione insuperabile, «come l’azione reciproca di due direzioni fondamentali dell’immaginazione sociale. La prima tende verso l’integrazione, la ripetizione e un rispecchiamento dell’ordine dato. La seconda tende a portare fuori, poiché è eccentrica. Ma Luna non può operare senza l’altra» (p. 57), pur ammettendo che «l’utopia tende verso la schizofrenia così come l’ideologia tende verso la dissimulazione e la distorsione» (p. 58). Ammaestrati da cosiffatta presa di coscienza, dovremmo «incaricare la funzione “sana” dell’ideologia di curare la pazzia dell’utopia» (p. 58) e sfruttare la «malattia» dell’utopia (quell’ambiguità tra fantasia e creatività) come terapia per la sclerosi di istituzioni morte e di «disordini stabiliti».

2.2. Ideologia e maturità umana

Benché i chiarimenti forniti da Ricoeur siano esibiti in una prospettiva ermeneutica storico-sociologica, si dimostrano sostanzialmente corretti e preziosi nel rivelare la validità e la necessità dell’ideologia per la maturazione delle persone. Chiaritasi e arricchitasi in dialettica con l’utopia (non più interpretata come «evasione» astratta, bensì come ricerca di una realtà nuova e migliore, con efficacia critica delle istituzioni e con funzione stimolatrice nei riguardi dell’azione), l’ideologia si configura come un’interpretazione del mondo, dell’uomo e della società, volta alla prassi. Sempre più numerosi, gli studiosi le riconoscono la funzione principale di fornire una sorta di «schema simbolico» per l’organizzazione dei processi sociali di un gruppo, di dare ad un gruppo sociale un’immagine che lo definisca e lo distingua. C’è perfino chi, in pratica, identifica l’ideologia di un gruppo sociale con la sua cultura, quando «per cultura s’intende quella concezione della realtà e quella sensibilità ad essa, socialmente acquisita o indotta, che orienta gli individui nelle diverse situazioni che si offrono nel corso dell’esistenza» (T. Tentori). Comunque, se l’ideologia​​ riesce a liberarsi dalle deformazioni o unilateralità (marxiane e nietzschane, in modo particolare), di cui è stata intorbidita, e quando denota una ragionevole «visione del mondo» con relativa fondazione di valori e progetti operativi, essa consente di parlare con serenità di «ideologia cristiana», «ideologia induista», «ideologia liberale», ecc., e rivendica — lo ripetiamo — tutta la sua adeguatezza e indispensabilità per la crescita completa degli individui. Giacché l’uomo è un essere «condannato al significato», per lui la vita decade se non è guidata e alimentata da valori capaci di dare senso all’esistenza, di stabilire cosa occorra fare, quali ideali perseguire, quali siano i traguardi finali, individuali e sociali. Non si richiede, evidentemente, un ammasso enciclopedico di discipline specialistiche o, peggio ancora, di nozioni superficiali: si esige invece una «sintesi», un «quadro di riferimento», una «sapienza», che giudichi e padroneggi i mille eventi del quotidiano, senza lasciarsi fuorviare o fagocitare dal dispersivo, dall’epidermico, dal sensazionale. Già Benedetto Croce, all’inizio del secolo, lamentava che stesse prevalendo «il tipo dell’uomo che ha​​ conoscenze​​ non poche, ma non ha la​​ conoscenza; che è ristretto ad una piccola cerchia di fatti o dissipato tra fatti della più varia sorte, ma che, così ristretto o così dissipato, è privo di un orientamento o, come si dice, di una fede». L’ideologia, nonostante e a dispetto dell’usura e dell’abuso del termine, ha proprio il compito di fornire questa «conoscenza», questo «orientamento», questa «fede» (sia pure laica).

 

2.3. L’ideologia a scuola della storia

Forse è il caso di ripetere che non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti le traversie accadute all’ideologia nel corso della sua storia, con le conseguenti revisioni critiche impostele, hanno insegnato che il suo ruolo costruttivo resta subordinato, in larga parte, al rispetto di una triplice «consapevolezza».

 

2.3.1.​​ La parzialità del sapere

Ciò che è acquisito e fondato come vero non è mai la totalità della verità. Non è, questa, un’apologià dello scetticismo o del relativismo (filosofico): è rendersi conto, con umiltà, del​​ fatto​​ che l’uomo «può ricostruire la completa e unica verità solo attraverso pezzi staccati, come frammenti di uno specchio infranto che ci sforziamo incessantemente di ricomporre. Le nostre braccia sono troppo strette per stringere l’universo con un gesto così ampio che Luna o l’altra delle ricchezze vi trovi il suo giusto posto... Le epoche dell’umanità possiedono ciascuna quasi la vocazione collettiva di scoprire e di esaltare l’uno oppure l’altro di questi valori» (M. D. Chenu). Pure Giovanni Paolo II ricordava ai docenti universitari di Bologna (18.4.1982): «La visione della verità che l’uomo moderno attinge attraverso l’avventurosa fatica della ragione non può essere che dinamica e dialogica. Poiché la ragione può cogliere l’unità che lega il mondo e la verità alla loro origine solo all’interno di modi parziali di conoscenza, ogni singola scienza — compresa la filosofia e la teologia — rimane un tentativo limitato che può cogliere l’unità​​ complessa della verità unicamente nella​​ diversità,​​ vale a dire all’interno di un intreccio di saperi​​ aperti​​ e​​ complementari».

 

2.3.2. La dinamicità del sapere

«Se l’eterno dovesse sempre conservare il volto in cui lo incarna un’epoca, non sarebbe più l’eterno» (Mounier): per non diventare «astorica» (ossia inadeguata, inutile, dannosa) l’ideologia deve senza posa rimanere attenta a dare il dovuto peso alla componente storica dei valori e delle loro espressioni, senza per questo doversi dileguare in un effimero storicismo. È ben vero che il valore precede l’ideologia; tuttavia non può fare a meno di esprimersi storicamente. Quando un valore deve rivestire un corpo nuovo — e il corpo deve rinnovarsi continuamente perché l’immutabilità uccide la vita — esso perde la sua efficacia e corrode la sua validità se non è duttile alle esigenze mutevoli dell’esistenza. Quindi non limitiamoci a parlare di «valori metafisici»: abituiamoci (ad ammettere e) a parlare di «valori reali storici».

 

2.3.3. La dialogicità del sapere

Il dialogo, oltre che imposto dall’attuale ineludibile «pluralismo culturale», è in primo luogo esatto come metodo insostituibile nella ricerca della verità. Esso, ovviamente, è ben diverso dalla «discussione» (nel senso deleterio di battibecco polemico).​​ Dialoga​​ colui che accosta una persona (o un’ideologia), stimandola; la lascia parlare, ascoltandola e cercando di capirla; le risponde, amandola.​​ Discute,​​ invece, chi aspetta solo che «l’altro» smetta di parlare per poter continuare il proprio monologo, senza aprirsi all’arricchimento caso mai scoperto nell’altro. In un contesto di stima per il dialogo, le​​ persone​​ si rispettano sempre, anche quando non la pensano come noi; mentre le​​ idee​​ si chiarificheranno, non potendo acquietarci finché non troviamo la verità (ne va del nostro destino personale). E si rimarrà pronti a cogliere l’«anima di verità» di ogni esperienza umana, poiché anche l’«errore» ha sempre una parte di vero (sovente è una «verità impazzita»). «Se io sono diverso da te — asseriva con arguzia Saint-Exupéry — non solo non ti faccio torto, ma ti arricchisco».

Questa «lezione della storia» ha decretato la fine dell’ideologia come sistema totale, definitivo, apodittico di modelli cognitivi e valutativi (in specie filosofici e religiosi) sul cui metro misurare e cambiare gli «altri». Ce ne può venire una conferma, indiretta, dallo stesso Concilio Vaticano II (limitandoci a considerarlo dal punto di vista di «evento culturale»).

La Chiesa del post-Concilio, senza rinnegare la fedeltà al passato né la tensione profetica al futuro, ha scelto il dialogo come suo tipico modo di prendere contatto con il mondo e come suo mezzo indispensabile di rinnovamento. Si percepisce come questa «opzione metodologica» sia innanzitutto il rifiuto dell’integrismo​​ e del​​ profetismo utopistico,​​ i quali, sia pure per motivi opposti, squalificano radicalmente il dialogo. L’integrismo (o la conservazione ad oltranza) non dialoga ma condanna, condanna senza ascoltare; presume di dedurre tutto immediatamente dalla fede o dal «si è sempre fatto così». Il profetismo utopistico non cammina coi piedi per terra e nella storia umana; disattento ai «segni dei tempi» non s’incarna nel «qui-adesso»; non sogna che un futuro evanescente; anch’esso (come l’integrismo) annuncia senza incarnarsi, solo che fugge in avanti, pensando così di essere più «puro», più «rivoluzionario», più «simpatico», più «giovanile». In entrambe le posizioni, però, c’è l’incapacità di affrontare il presente e di ricercare umilmente la verità.

 

3. Ideologia e mondo giovanile

Tutti sappiamo quanta astrattezza contenga l’espressione «mondo giovanile», dovuta sia alla stessa indeterminatezza cronologica di «gioventù», sia alle diverse e contrastanti situazioni socio-culturali, le quali ora sollecitano ora scoraggiano l’adesione ad una ideologia «esigente». Oggi, appunto, si parla di «culture forti» e di «culture deboli» nella proposta di valori e nello stimolo alla dedizione. Tuttavia ci sembra che emergano, abbastanza individuabili, due «schemi di comportamento» tenuti dai giovani nei riguardi delle «agenzie ideologiche» (senza trascurare debite puntualizzazioni e immancabili dosaggi).

 

3.1. Il fascino dell’ideologia

È comprensibile che il giovane, caratterizzato dall’instabilità, dalla ricerca di un significato, dall’esigenza di difesa (nel gruppo dei coetanei), dal desiderio di «cambiare», senta istintivamente il fascino per l’ideologia sicura e forte (e non alludiamo soltanto ai partiti politici), la quale prodighi più certezze che verità, più conclusioni che ricerche, più cose da fare che cose su cui pensare.

In questa atmosfera di allettamento aggregativo Mounier vi distingue, con acume, due stadi del cammino verso la «comunità di persone» (cf 3.3). Il primo stadio lo chiama​​ il mondo dei «noialtri»​​ (o​​ il mondo dei​​ «blocchi»),​​ dove i partecipanti nutrono degli ideali ben definiti, si ergono delle frontiere sicure e si buttano a capofitto, con abnegazione concorde e spesso eroica, nella causa comune. Nel raggruppamento dei «noialtri», l’individuo è posseduto dall’esaltazione collettiva, dal conformismo, il quale — benché polarizzato — non cessa di essere tale e non può non tendere per natura all’ipnosi e alla spersonalizzazione. Si abdica all’angoscia, al dubbio della scelta, agli obblighi personali. «I vantaggi sono individuali, le perdite sono collettive, come nel mondo del denaro; ciascuno attribuisce a sé quello che gli altri hanno pensato e fatto di buono (“per parte nostra noi abbiamo...”) e riversa sugli altri gli errori (“essi avrebbero dovuto...”)» (Rivoluzione personalista e comunitaria,​​ p. 107). Ogni spontaneità originale e ogni freschezza rivoluzionaria viene strappata all’individuo dall’appello del «blocco» che s’impone alla libertà responsabile dei componenti.

Un passo avanti verso la vera comunità lo si ha nel​​ cameratismo​​ (o​​ corporazione).​​ Si tratta di un nucleo alimentato da una ricca vita privata in cui ognuno degli aderenti può portare il contributo personale e può lasciare una propria impronta. Per molti è un genuino atto rivoluzionario il tuffarsi nell’animazione, nel dinamismo che regnano in uno di questi gruppi. Non è piccola però la loro meraviglia nel constatare, un bel giorno, il brusco esaurimento di tanto baccano. «Tutto questo dipende dall’aver confuso — come oggi troppo spesso avviene — ciò che è vivo (il pettegolezzo, il movimento, l’agitazione) con ciò che è reale (la collaborazione, l’approfondimento, la comunità); in poche parole dall’aver preso il dinamismo come un segno di verità o anche di realtà»​​ (ivi,​​ p. 109). Nonostante questi vistosi limiti e insidie, lo «spirito di gruppo» è utile esercizio «per mettere in moto la macchina» ed è un valido mezzo materiale per creare un clima in cui alcune persone possono trovarvi un alimento provvisorio. Comunque un siffatto riconoscimento non deve far dimenticare che i movimenti «ideologicamente forti», amano profondere energie nell’accusare, denunciare, mettere a nudo la menzogna e il vizio: proprio in questo semplice porsi e sentirsi contro gli altri si nasconde con troppa facilità la convinzione di possedere senz’altro la verità assoluta e di propugnare la giustizia più pura. «Il principale difetto di queste denunce consiste nel far pesare sempre l’accusa e la responsabilità sugli altri, quasi scagionando colui che le pronuncia. Anche se esse investono un gruppo, persino un gruppo di cui l’accusatore fa parte, il fatto di essere accusatore lo pone anche in questo caso tra le pecore buone del gregge in opposizione alle cattive»​​ (ivi,​​ p. 357).

 

3.2. Il rifiuto dell’ideologia

Le motivazioni addotte dal giovane (in modo esplicito o implicito) per rifiutare l’ideologia si distendono in sì ampia gamma di posizioni da poter parimenti tradire acerbità o maturità di comportamento.

Un primo motivo si annida in quella confusione tra​​ autenticità​​ e​​ originalità​​ in cui sovente incappa l’adolescente (...magari prolungato fino ad età stagionata!). L’originalità è un «sottoprodotto» dell’autenticità: quando uno è «autentico» (ossia è sé stesso, perché attua le proprie doti e la propria vocazione, diventando «qualcuno»), proprio per questo diviene «originale» (non è una copia di un altro, si distingue dagli altri). Difatti vediamo che le «grandi personalità» (per es. S. Francesco, Napoleone, ecc.) furono originali perché... furono «sé stesse» (furono «autentiche»), Spesso invece l’adolescente imbrocca con superficialità la facile via dell’«originalità» (cioè si vuol distinguere e differenziare dagli altri, rifiutando le loro idee e le loro maniere, arrivando perfino alle stramberie) per far credere a sé e agli altri di essere «qualcuno» (di essere cioè «autentico»). Di qui un’istintiva ripulsa per tutto quanto sappia di conformismo o di «pecorismo». Ora se l’ideologia crea, qualifica e difende un «gruppo» per plasmarne i membri, è naturale che essa non entri in sintonia con questa mentalità. Cosicché se un giovane non chiarisce prima a sé stesso l’ambiguità della propria «autenticità», non arriverà mai a comprendere la validità dell’ideologia, fosse anche la più idonea e la più equilibrata.

C’è, poi, un altro tipo di rifiuto, fondato su una scelta di libertà sinonimo di spontaneità, di istintività, di disimpegno totale, di indifferentismo (speciosa preoccupazione è di «non portare il cervello all’ammasso»). Non costa molta fatica scoprire come qui ci troviamo di fronte ad un rigetto apparente, il quale in sostanza è una accettazione acritica di una precisa mentalità, con le sue selezioni teoriche e pratiche. Ne siamo coscienti o no, ogni nostra azione è la parte emergente di un «iceberg» (un «insieme di convinzioni») che la sostiene e la dirige. È perciò pericolosa ingenuità trascurare la parte sottostante (portante!) dell’«iceberg», ritenendola inesistente o inutile; anzi, se non ci fermiamo, almeno di tanto in tanto, a pensare come viviamo, si finisce inesorabilmente per vivere come ci fan pensare gli altri. Agire senza coscienza del fine, non vuol dire eliminarlo: significa rendersi schiavi di decisioni altrui. Del resto perfino Nietzsche metteva in guardia che «il fatto è sempre stupido, e in ogni tempo è sempre somigliato piuttosto ad un vitello che a un Dio».

Infine, quando il rifiuto si spiega, almeno in gran parte, nel e per il contesto di una «cultura povera» (si parla allora di «nichilismo» e di «morte dei valori»), o quando si tratta di un convinto rigetto di specifiche ideologie totalitaristiche e schiavistiche, in tali casi la riflessione deve di necessità portarsi su validità, limiti e rischi dell’ideologia.

 

3.3. L’educazione all’ideologia

Un discorso sull’educazione all’ideologia si presenta legittimo e obbligatorio qualora essa denoti — come noi intendiamo — un «quadro di riferimento», un «criterio di giudizio» per un «giudizio di valore» su ciò che realizza l’autentico sviluppo umano, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI) e su ciò che costruisce una autentica comunità. Qui pensiamo alla «comunità di persone» di Mounier, nella quale ogni persona si attuerebbe nella pienezza di una vocazione continuamente feconda, e la comunione dell’insieme sarebbe una risultante di ciascuna di queste conquiste singole. Punto di partenza per il cammino verso questa meta è l’educazione alla «critica» (nel senso etimologico greco di «discernimento, giudizio, valutazione»). Lo ribadiva Giovanni Paolo II: «La civiltà contemporanea tenta di imporre all’uomo una serie di​​ imperativi apparenti​​ che i loro portavoce giustificano ricorrendo al principio dello sviluppo e del progresso... Un’educazione (compiuta) esige che i giovani siano forniti di una coscienza critica che sappia percepire i valori autentici e smascherare le egemonie ideologiche che, servendosi dei mezzi della comunicazione sociale, catturano l’opinione pubblica e plagiano le menti» (Lettera nel centenario della morte di San Giovanni Bosco,​​ 31.1.1988). Quando, nel discredito verso l’ideologia, si accampano le prevedibili delusioni per obiettivi realizzati non a perfezione o per strategie lacunose nel «gestire il presente», va rammentato come sia il trinomio «vedere giudicare agire» a dare concretezza e vigore ad ogni impresa umana. Eludere l’azione con il pretesto dei limiti congeniti ad ogni ideologia, è somma astrattezza e infantilismo cronico. Legge inesorabile dell’agire umano è che «chi agisce sceglie, chi sceglie rinuncia, chi rinuncia non disprezza». Ci sia consentito un esempio esplicativo: potendo domani fare una gita o a Firenze o a Venezia, se decido devo scegliere una delle due città; se scelgo Firenze, rinuncio a Venezia; rinunciando a Venezia, non per questo la disprezzo o essa diventa meno bella... D’altronde qui più che mai va ripetuto che «gli assenti hanno sempre torto».

In problemi delicati e complessi come il nostro è d’obbligo invocare la prudenza: ...«virtù», che richiede di scegliere con ponderatezza e perspicacia i mezzi più adeguati per raggiungere uno scopo! Chi non fa nulla, non è «prudente»: è un «fannullone». Quindi una prudenza che si limitasse ad una semplice riguardosa cautela nell’agire, ad una pura circospezione nemica dei rischi e delle difficoltà, e bandisse il coraggio, lo spirito d’inventiva, il santo ardire, non sarebbe altro che un velo menzognero calato su una ideologia languida e morente.

Nemmeno si può giustificare o consigliare il disimpegno ideologico con il pretesto che in un ambiente di pluralismo culturale è il dialogo, non l’imposizione, a creare e a difendere tolleranza e democrazia. Dialogare (cf 2.3.3) non significa «annacquare il proprio vino» (magari fino a vanificarlo); postula, all’opposto, di conservarlo genuino per presentarlo nella sua migliore vigoria, pronti semmai ad arricchirlo con aromi offerti da altri produttori. Fuori della metafora: soltanto persone e «gruppi» di identità chiara, consistente e vitale permettono il dialogo; se no vengono meno i supporti e i termini del confronto. «Il dialogo suppone un io autentico e consapevole, ma che al tempo stesso si riconosca limitato e imperfetto, e perciò spontaneamente aperto verso l’altro... Il dialogo esige in entrambi gli interlocutori la docilità vicendevole e la volontà di migliorarsi con l’aiuto dell’altro, nella segreta consapevolezza che il Vero e il Bene trascendono ogni soggetto umano e si perseguono nello scambio da persona a persona» (P. Rossano). Il rapporto creato dal dialogo non mancherà, infatti, di esercitare una reciproca azione maieutica.

A coloro i quali, sempre «saggi e prudenti» a dismisura, questa volta temono le delusioni del «sogno», insito in ogni ideologia viva e vivace, si potrebbe ripetere che, di sicuro, l’equilibrio e un sano realismo rimangono dappertutto doverosi; però si dovrebbe contemporaneamente ribattere che il sogno è una dimensione feconda dell’ideologia, perché — ammoniva Mounier — «quando gli uomini non sanno più sognare le cattedrali, non sono più nemmeno in grado di costruire delle belle soffitte».

Non torni impertinente un ultimo sagace aforisma di Mounier, rivolto agli «eccessivamente preoccupati» (o che si dimostrano tali) per disinvolture e intemperanze di aderenti a ideologie pur sane e costruttive: «Perché un gallo ha cantato troppo forte, vogliono che vi siano soltanto dei capponi!».

 

Bibliografia

Mancini I.,​​ Teologia ideologia utopia, Queriniana, Brescia 1974; Mannheim K.,​​ Ideologia e utopia,​​ Il Mulino, Bologna 1957; Mounier E.,​​ Rivoluzione personalista e comunitaria,​​ Ed. Comunità, Milano 1955 (nuova edizione Ecumenica, Bari 1984); Ricoeur P.,​​ Tradizione o alternativa,​​ Morcelliana, Brescia 1980; Topitsch E.,​​ A che serve l’ideologia,​​ Laterza, Bari 1975.

image_pdfimage_print

 

IDEOLOGIA

Insieme organico di idee, implicante una certa visione del mondo e della vita, con funzione regolativa e normativa della prassi, politica in particolare.

1. Gli illuministi francesi dell’Enciclopedia​​ e il loro epigono A. Destutt de Tracy (1754-1836), introduttore del termine, credevano necessaria per i loro tempi un’indagine critica sull’origine, la natura e il valore delle idee, in opposizione alle dottrine tradizionali. L’i. veniva così ad essere un aspetto della battaglia degli illuministi contro l’Ancien régime.​​ Pare sia stato Napoleone a bollarli come «ideologhi», cioè gente astratta, non concreta, segnando così il termine di una connotazione ironica e negativa, vicina a quella che le darà K. Marx (​​ Marxismo). Dopo di lui, l’i. è stata considerata come una razionalizzazione e giustificazione teorica del potere politico e dei privilegi economico-sociali delle classi dominanti, come uno strumento di conservazione dell’assetto sociale esistente e come dominazione «mentale» delle classi subalterne. In tal senso lo stesso Marx chiamò i. l’idealismo tedesco, in quanto espressione ideale degli interessi della «classe» prussiana al potere in Germania, e bollò lo stesso materialismo di L. Feuerbach come i. della borghesia illuministica. A partire dagli anni venti, con i cosiddetti sociologi della conoscenza (K. Mannheim, R. K. Merton, G. Gurvitch, P. A. Sorokin) e con neo-marxisti, come G. Lukács o​​ ​​ Gramsci, si mette in risalto un versante semantico più positivo di i., nel senso che, pur sorgendo come espressione e giustificazione di parte, può dar forza a ideali di liberazione e promozione umana, stimolare la costruzione di strategie operative, favorire teorizzazioni filosofiche, scientifiche e tecnologiche.

2. L’educazione e la formazione (e la scienza o le teorie pedagogiche) possono risultare «apparato ideologico» (come le disse L. Althusser) per la trasmissione, la riproduzione e l’interiorizzazione delle i. dei gruppi sociali dominanti. Negli anni ’80 si è parlato di «tramonto dell’i.», ad indicare la caduta del carattere assolutizzante ed egemonizzante di essa. Ma è venuta a cadere anche la sua funzione di mediazione culturale e di spinta ideale: specie nell’oggi, sempre più dominato dal «discreto fascino» dell’i. neo-capitalistica e dalla propaganda consumistica del mercato mondializzato. In tal senso la vigilanza critica, l’idealità umanistica, la responsabilità etica e la correttezza deontologica restano tratti imprescindibili del lavoro educativo e della ricerca pedagogica.

Bibliografia

Broccoli A.,​​ I.​​ e educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Rossi Landi F.,​​ I., Milano, ISEDI, 1977; Catalfamo G.,​​ L’i. e l’educazione,​​ Messina, Peloritana, 1980; Colletti L.,​​ Il​​ tramonto dell’i.,​​ Roma / Bari, Laterza, 1980; Antonucci M. C.,​​ I. e comunicazione. Costruzione di senso e nuove tecnologie, Milano, Angeli, 2006.

C. Nanni

image_pdfimage_print

Related Voci

image_pdfimage_print