GRUPPO

La prassi cat. e pastorale attuale fa largo uso del G. Lo possiamo considerare come uno dei pochi punti di convergenza nel pluralismo di modelli. È certamente un segno dei tempi.

Nell’ambito della pastorale giovanile poi l’azione pastorale si svolge quasi unicamente in e attraverso il G. Se però analizziamo a fondo questo dato di fatto, nello sforzo di superare le formule generiche, è facile accorgersi che le posizioni, teoriche e pratiche, si differenziano notevolmente.

Queste differenti posizioni sono chiare sul piano teorico, nelle dichiarazioni dei documenti e degli autori che hanno studiato l’ecclesialità di G. Sul piano pratico le diversità si esprimono nelle concrete scelte quotidiane: il modo di vivere l’esperienza di G., i suoi rapporti con l’istituzione ecclesiale e le persone che la rappresentano, il contatto tra G., movimenti e comunità.

1.​​ I termini: gruppo e comunità.

a)​​ Gruppo.​​ Molti equivoci relativi all’uso pastorale del G. nascono dallo statuto epistemologico utilizzato per definirlo. Spesso il termine viene assunto in modo vago, emotivo, con scarsa attenzione strutturale. Suggeriamo invece di utilizzare la voce G., anche nell’ambito cat. e pastorale, in modo tecnico, partendo cioè dalle riflessioni elaborate dalla → dinamica di G., la scienza che studia i fenomeni psicosociali che si scatenano appunto nei G.

Il G. è una collettività identificabile, strutturata, continua, di persone sociali che svolgono ruoli reciproci conformemente a norme sociali, a interessi e a valori nel perseguimento di fini comuni. G. primari sono quelli in cui la collettività di persone che li compongono è relativamente ristretta come numero e con relazioni frequenti a faccia a faccia, con profondi sentimenti di solidarietà e adesione totale ai valori comuni che costituiscono la “cultura” del G. G. secondari sono invece collettività più allentate in cui l’individuo si associa in genere volontariamente o per contratto; le relazioni reciproche sono più esplicitamente regolate da usi, leggi, convenzioni.

Analizzando le definizioni appena date, si può facilmente concludere che il G. primario (quello che interessa l’azione cat.) è un insieme dinamico costituito da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto: non l’insieme degli individui, ma l’insieme dei rapporti che intercorrono tra gli individui.

b)​​ Comunità.​​ Spesso vengono utilizzati i termini G. e “comunità” per indicare la stessa realtà. Qualche volta, al contrario, viene raccomandato ai G. (ecclesiali) di maturare in comunità, come se la comunità rappresentasse uno sbocco ottimale al cammino di G. Per precisare il problema, dobbiamo analizzare cosa si intende tecnicamente per comunità.

Il termine “comunità” viene utilizzato con accezioni spesso diversificate. Con qualche semplificazione possono essere raccolte attorno a tre polarizzazioni. In primo luogo, comunità esprime la solidarietà esistente tra individui, quella qualità di rapporti che fa prevalere la volontà collettiva sull’interesse dei singoli, l’armonia sulla competizione, la cooperazione sul conflitto. In un secondo modello, comunità è semplicemente un insieme di individui in un luogo determinato e concreto. Una terza definizione sottolinea che la comunità è il G. entro cui l’individuo può soddisfare tutti i suoi bisogni e svolgere tutte le sue funzioni (almeno in termini relativi).

Se organizziamo le definizioni in modo unitario, comunità è quel G. di persone, segnato da intensi rapporti di solidarietà, collocato in un territorio e dotato di capacità totalizzanti rispetto al suo obiettivo. Assumendo così la definizione, possiamo concludere che G. e comunità non sono sinonimi in senso stretto: ogni comunità è anche G. primario, mentre non ogni G. è comunità.

2.​​ La funzione del​​ G.:​​ modelli differenti.​​ L’uso del G. nell’azione cat. e pastorale non è diversificato soltanto a causa di una differente ricomprensione terminologica. Prima di tutto il problema è teologico, perché risultano molto differenti i modelli in cui viene definita la sua funzione in ordine all’esperienza di Chiesa. Per verificare l’affermazione basta confrontare le risposte che vengono date a interrogativi come quelli che seguono. Quale rapporto esiste tra comunità ecclesiale e crescita nella fede? Si richiede una diretta esperienza comunionale o è sufficiente una generica appartenenza ecclesiale? La vita ecclesiale mediata dalle istituzioni tradizionali assolve sufficientemente alle esigenze di una vera esperienza o è necessaria una realtà dotata di maggiore capacità​​ identificativa?

Il G. giovanile può rappresentare questa eventuale istituzione alternativa? Qual è la sua reale funzione in ordine alla esperienza di Chiesa?

Prima di suggerire una nostra risposta, analizziamo le differenti posizioni. Per comodità le organizziamo in una tipologia.

a)​​ La vita di G. come propedeutica alla vita di Chiesa.​​ La prima posizione affida al G. una funzione solamente propedeutica rispetto alla comunità ecclesiale. Solo nella grande comunità si vive l’appartenenza alla Chiesa; solo essa è soggetto salvifico a pieno titolo. Il G. aiuta a maturare; sostiene nel difficile cammino verso la comunità. È destinato a sparire, nell’azione pastorale, appena il soggetto è pronto a entrare nella comunità.

b)​​ La funzione strumentale del G.​​ Una posizione simile a questa può essere rappresentata da coloro che affidano al G. solo una funzione strumentale. Si parte dalla constatazione, facile e diffusa, delle molte carenze di cui soffre la comunità ecclesiale di fatto. Il G. rappresenta quello spazio esistenziale dove grandi parole come “comunione”, “corresponsabilità”, “presenza” diventano esperienza. Esso ha quindi una sua ragione d’essere, non intrinseca ma funzionale, strumentale appunto.

c)​​ Il G. come “chiesa parallela”. La radicalizzazione del modello strumentale porta a progettare il G. come “chiesa parallela”. Quando ci si rende conto della impraticabilità di una riforma, il G. accentua la sua funzione fino a porsi in parallelo alla vitti della comunità.

d)​​ Il G. come ecclesiogenesi.​​ Infine, autori e prassi concrete affidano al G. la funzione di ecclesiogenesi, di generazione della Chiesa dal basso. Attraverso il​​ G.​​ si concretizza una importante esigenza ecclesiologica: non si trapianta deduttivamente una Chiesa ma si fa esistere qui-ora la Chiesa. Il G. è quindi il luogo in cui la Chiesa rinnovata sta nascendo. Non è destinato a spegnersi con il tempo, ma rappresenta una alternativa indispensabile per rendere viva, interpellante e salvifica l’unica Chiesa di Gesù.

3.​​ La funzione del G.: una proposta.​​ Tenendo conto delle indicazioni più mature contenute nella tipologia appena descritta e soprattutto di quello che si può oggi comprendere ed esperimentare nella vita e nella autocoscienza ecclesiale attuale, proponiamo una prospettiva alternativa. Essa esprime in sintesi il nostro punto di vista circa la funzione ecclesiale del G.

a)​​ Il G. ecclesiale come “mediazione” dell’evento di Chiesa.​​ La meditazione teologica più attenta in ordine alla funzione salvifica della Chiesa porta a tre importanti constatazioni:

— l’esercizio concreto della sacramentalità ecclesiale richiede un forte senso di appartenenza: le realizzazioni ecclesiali si misurano perciò anche in rapporto alla loro capacità di creare identificazione;

— la coscienza analogica di ecclesialità permette di riconoscere che le differenti realizzazioni di Chiesa (diocesi, parrocchia, famiglia, comunità di base, comunità religiose, gruppi ecclesiali...) sono tutte Chiesa, anche se a titoli diversi;

— alcune realizzazioni di Chiesa raccolgono meglio di altre le condizioni di ecclesialità; vanno perciò considerate come principio di riferimento indispensabile.

Se integriamo le tre conclusioni, si apre un modo nuovo di pensare alla funzione ecclesiale del G. Il G., quando assicura almeno germinalmente le dimensioni normative di ecclesialità, è “mediazione” (realizzazione privilegiata) dell’evento salvifico ecclesiale. È quindi Chiesa, allo stesso titolo analogico delle altre realizzazioni di Chiesa.

Ogni mediazione è Chiesa, anche quella povera e lacerata rispetto all’evento. Alle mediazioni si richiede però di diventare trasparenti per risultare veramente appello in situazione. Il G. rappresenta una esperienza capace, più di altre realizzazioni, di creare senso di appartenenza. Per questo lo definiamo mediazione privilegiata. Proprio in quanto mediazione, non esaurisce “la” Chiesa. Questa coscienza spinge il G. a crescere in ecclesialità: fa progressivamente spazio a quelle dimensioni di cui è carente quasi strutturalmente (proprio perché è “gruppo”) e resta in dialogo e confronto con le altre realizzazioni di Chiesa e soprattutto con quelle che raccolgono in sé più completamente le dimensioni dell’essere Chiesa.

b)​​ Perché “luogo privilegiato”?​​ L’affermazione che il G. è “luogo privilegiato” deve essere ripresa e motivata, perché sulla sua pertinenza sta o cade la conclusione ecclesiologica appena suggerita.

Il G. è “luogo privilegiato”, in un tempo di crisi delle istituzioni formative e di scarsa incidenza pratica del modello di identificazione razionale, perché rappresenta uno spazio interessante di comunicazione della esperienza cristiana, incidente dal punto di vista del processo linguistico utilizzato e innovativo dal punto di vista teologico. Il modello comunicativo vissuto nei G. ecclesiali rappresenta un approccio interessante e attuale di → “linguaggio religioso”: riesce a parlare di Dio e della esperienza religiosa adeguando il referente e producendo sistemi simbolici espressivi.

Come si sa, il problema investe oggi drammaticamente le comunità ecclesiali, impegnate a rispettare l’ineffabilità dell’evento evangelizzato e l’esigenza irriducibile di dire questo ineffabile con parola d’uomo, per essere parola di salvezza per l’uomo.

Nel G. lo strumento linguistico utilizzato è l’esperienza di produzione di vita e di senso che si fa messaggio. Il G. rappresenta infatti per i suoi membri una urgente esperienza di rassicurazione, di nuova qualità di vita, di ricostruzione della personale identità, di proposta di senso. Questa stessa esperienza viene interpretata e ricompresa nelle sue ragioni più intime e sollecitanti. Diventa così un messaggio religioso: una parola di Dio. Si deve aggiungere una constatazione: questo strumento risuona di una particolarissima forza comunicativa perché è costituito dalla esperienza viva di testimoni che espandono, nel G. e attraverso il G., le esperienze che essi hanno avuto per offrire le ragioni della loro presenza e del loro operare.

Questo modello risulta particolarmente interessante dal punto di vista comunicativo e dal punto di vista teologico. In questo schema linguistico, 1’ → evangelizzazione ritrova una sua dimensione costitutiva: non è messaggio, trasmesso verbalmente, ma l’esperienza vivente di testimoni, che si fa messaggio. La forte risonanza comunitaria si pone come struttura di attendibilità a livello di linguaggio, di pratiche, di leadership.

Inoltre, nel gruppo i membri vengono rassicurati e sostenuti attorno alla domanda etica che nasce spontanea. L’interrogativo “come far parte di questo G. (e quindi della Chiesa)” trova nella esperienza di appartenenza una concreta e convincente risposta. Attraverso i modelli di vita incarnati nelle norme e nei leaders, attraverso il controllo sul dissenso e l’eventuale punizione sociale per il dissenziente, i G. si propongono per molti credenti di oggi come il luogo di una nuova qualità di vita.

Certo, non mancano i “rischi”. L’operazione ricordata può essere condotta a scapito dell’oggettività e dell’universalità dell’espressione della fede. Nei G. si dice la fede in modo comprensibile e interpellante. Possono diventare capaci di dirla anche in modo da coniugare l’oggettività e l’universalità con la soggettività e la significatività, all’interno di un preciso e impegnativo riferimento istituzionale?

Bibliografia

L. Boff,​​ Ecclesiogenesi: le comunità di base reinventano la Chiesa,​​ Roma, Boria, 1978; R. De Vita,​​ Piccoli gruppi e società in trasformazione,​​ Milano, Angeli, 1978; A. Fallico,​​ Gruppi ecclesiali e impegno politico,​​ Torino, Marietti, 1976; A. Godin,​​ La vita di gruppo nella Chiesa,​​ Trento, Pubblicazioni Religiose, 1971; D. Krech et al.,​​ Individuo e società.​​ Manuale di psicologia sociale, Firenze, Giunti, 1970; A. Liégé,​​ Lo stare insieme dei cristiani tra comunità e istituzioni,​​ Brescia, Queriniana, 1979; J. Moltmann,​​ Nuovo stile di vita. Piccoli passi verso la comunità,​​ Brescia, Queriniana, 1979; M. Olmsted,​​ I gruppi sociali elementari,​​ Bologna, Il Mulino, 1970; F. Santoko,​​ La comunità condizione della fede,​​ Milano, Jaca Book, 1977; R.

Tonelli,​​ Gruppi giovanili e esperienza di Chiesa,​​ Roma. LAS, 1983.

Riccardo Tonelli

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GRUPPO

Riccardo Tonelli

 

1. Cosa è «gruppo»

2. Gruppo primario e gruppo secondario

3. La funzione educativa del gruppo

4. Gruppo e comunità

5. Associazione e movimento

 

Si parla di gruppo in tanti contesti e in molti modi.

Assunto come spontaneamente risuona, il termine può risultare almeno equivoco.

Una chiarificazione terminologica è condizione irrinunciabile per quella capacità di discernimento critico, necessaria ad una corretta utilizzazione.

Tra i molti possibili problemi seleziono solo quelli che in qualche modo coinvolgono la prospettiva in cui colloco questo contributo: l’uso dei processi di gruppo nell’ambito educativo e pastorale.

1. Cosa è «gruppo»

Il gruppo è una collettività identificabile, strutturata, continua di persone che svolgono ruoli conformemente a norme sociali, a interessi e valori condivisi, nel perseguimento di fini comuni.

Nella definizione ricorrono alcuni elementi caratterizzanti che meritano di essere sottolineati.

Il gruppo propone dei confini, ben precisi, attraverso cui si determina l’appartenenza. Per questo risulta relativamente chiaro chi fa parte del gruppo e chi invece non ne fa parte. In questo senso, il gruppo è una aggregazione identificabile.

Elemento centrale di coesione e di identificazione sono le norme, quelle regole di condotta, semplici e precise, che determinano il consenso o il dissenso all’interno del gruppo stesso.

Attorno alle norme, sorge la comunanza di interessi, valori, fini sociali. La circolazione di valori all’interno del gruppo, realizzata prevalentemente in forma diretta e simbolica, assicura l’unità e rafforza la funzionalità. Altro elemento qualificante è la strutturazione interna di ruoli. Attraverso questa distribuzione sono consolidati i canali di comunicazione, l’azione individuale è armonizzata con quella degli altri membri, viene assicurata la struttura di potere e di efficienza e, in ultima analisi, il gruppo conserva una sua durata almeno relativa.

2. Gruppo primario e gruppo secondario

Gruppi primari sono quei gruppi composti da un numero relativamente ristretto di membri e in cui sono molto frequenti le relazioni a faccia a faccia. La solidarietà è profonda e intensa l’adesione ai valori comuni che costituiscono la cultura di gruppo.

Sono invece secondari quei gruppi in cui gli individui sono associati per contratto. Le relazioni intersoggettive sono meno intense e vengono spesso regolate in modo estrinseco (attraverso leggi, usi, convenzioni).

La distinzione tra gruppo primario e secondario è importante, perché molti dei vantaggi educativi riconosciuti genericamente al gruppo, sono di fatto legati solo al gruppo primario.

Non va però esagerata, quasi che i due tipi di gruppo rappresentino realtà opposte e incomunicanti.

Spesso, al contrario, il gruppo secondario è un momento di passaggio tra l’anonimato e il gruppo primario.

Esistono condizioni minimali, al di fuori delle quali è impossibile ogni comunicazione intersoggettiva. Non basta però assicurare questo minimo vitale di scambi: si corre il rischio di terminare solo al gruppo secondario. Un lungo cammino resta ancora da percorrere, per giungere ad un vero gruppo primario.

Il processo da gruppo secondario a gruppo primario è legato a tre fattori interdipendenti. Intervenendo su essi è possibile sostenere e sollecitare la maturazione del gruppo.

Il primo fattore è la consapevolezza che l’essere fisicamente assieme ha un senso ed è utile per raggiungere determinati scopi che le persone sentono importanti e significativi. Questo primo livello è caratterizzato dalla presenza fisica di più persone in una situazione sociale e dalla coscienza del suo significato, almeno funzionale.

Il secondo fattore è determinato dal senso di appartenenza; e cioè dalla capacità di accogliere le «regole di gruppo» (rinunciando a schemi autonomi e individualistici) come condizione indispensabile per raggiungere l’obiettivo per cui ci si è posti assieme. Non tutti gli obiettivi possiedono le qualità necessarie per scatenare e sostenere il senso di appartenenza. Si richiede un obiettivo a dimensione collaborativa, raggiungibile cioè attraverso la collaborazione di tutti. Questo obiettivo deve inoltre essere dotato di un certo prestigio, per risultare capace di creare identificazione. Il terzo fattore è dato dalle interazioni. Le interazioni sono gli scambi, verbali e nonverbali, che intercorrono tra i membri del gruppo. Attraverso questi scambi si producono influssi reciproci e quindi cambiamenti nei pensieri, nei sentimenti, nelle reazioni. La gratificazione, assicurata dalle interazioni, diventa presto l’obiettivo centrale dello stare assieme, capace di controllare ogni spinta verso l’esterno.

Sulle interazioni il gruppo si costituisce pienamente come gruppo primario.

Non va dimenticato che i tre fattori ricordati esprimono un preciso itinerario educativo verso il gruppo: dalla presenza di più persone in uno spazio comune alla consapevolezza del significato di questo fatto, dalla convergenza verso obiettivi alla coscienza della funzione gratificante delle interazioni reciproche. La progressione è però di ordine logico e non cronologico: si può partire da una tappa qualsiasi e questa favorisce il consolidamento delle altre.

 

3. La funzione educativa del gruppo

11 bisogno di approvazione e il bisogno di certezza, come espressione concreta del più radicale bisogno di sicurezza, rappresentano un’aspirazione fondamentale di ogni persona.

Possono essere vissuti a livello individuale; e possono anche esprimersi in termini collettivi, secondo le logiche tipiche di quell’organismo nuovo che è il gruppo, come esito dei rapporti che intercorrono tra i suoi membri. Per saturare questi bisogni collettivi, nel gruppo si consolidano le «norme», quelle regole di condotta, semplificatrici e assai schematiche, su cui vengono giudicate le opinioni e i comportamenti che si sviluppano nel gruppo stesso.

Le norme sollecitano i membri del gruppo verso l’uniformità di comportamenti, di opinioni, di sentimenti. Qualche volta l’influsso è legato al tempo in cui si appartiene al gruppo e ne viene condivisa l’attività. Altre volte, l’adeguamento scatta per una convinzione più intima e profonda; e così l’adeguamento è più duraturo e meno legato alla situazione sociale.

Per ottenere il rispetto alle norme i gruppi utilizzano diversi strumenti.

Uno dei più comuni è l’uso di sanzioni positive. Tra queste la più rilevante è l’approvazione sociale.

Un altro mezzo di influsso è dato dall’uso delle coercizioni.

Spesso l’adeguamento è ottenuto attraverso i messaggi che i membri «normali» lanciano sui membri ancora devianti, per convincerli dell’opportunità di adeguarsi alle norme. In questo caso la pressione è determinata dalla trama dei rapporti in cui il deviante viene avvolto.

L’uniformità dei comportamenti viene perseguita anche attraverso il controllo delle informazioni. Le norme funzionano così come un filtro attraverso cui far passare tutte le informazioni che giungono al gruppo, per orientarle, renderle omogenee, ristrutturarle. La pressione di conformità crea così quel clima che rende il gruppo motivo di sostegno e di forza educativa, per facilitare la circolazione e l’interiorizzazione dei valori.

Ma proprio per questo può diventare un ostacolo serio alla maturazione delle persone. La pressione di conformità rappresenta così uno dei fenomeni più interessanti e problematici della vita dei gruppi.

 

4. Gruppo e comunità

Soprattutto nell’ambito pastorale vengono spesso utilizzati i termini «gruppo» e «comunità» per indicare la stessa realtà. Qualche volta invece si pensa alla comunità come ad un livello ulteriore rispetto alla vita di gruppo, quasi all’esito della sua maturazione.

Per non ingenerare equivoci, quest’uso linguistico va precisato.

Il termine «comunità» nella dinamica di gruppo viene utilizzato con accezioni spesso diversificate. Con qualche semplificazione possono essere raccolte attorno a tre polarizzazioni.

In primo luogo, comunità esprime la solidarietà esistente tra individui, quella qualità di rapporti che fa prevalere la volontà collettiva sull’interesse dei singoli, l’armonia sulla competizione, la cooperazione sul conflitto. In un secondo modello, comunità è semplicemente un insieme di individui in un luogo determinato e concreto.

Una terza definizione sottolinea che la comunità è il gruppo entro cui l’individuo può soddisfare tutti i suoi bisogni e svolgere tutte le sue funzioni (almeno in termini relativi).

Se organizziamo, in qualche modo almeno, le tre definizioni, alla ricerca di elementi di convergenza, possiamo chiamare «comunità» quel gruppo di persone, segnato da intensi rapporti di solidarietà, collocato in un territorio e dotato di capacità totalizzanti rispetto al suo obiettivo. In questo modo risulta evidente che gruppo e comunità non sono davvero sinonimi in senso stretto. È possibile immaginare un processo di maturazione da un livello all’altro, in relazione alla funzione totalizzante degli obiettivi e all’inserimento sul territorio.

 

5. Associazione e movimento

Un’altra importante distinzione va introdotta, soprattutto se si riflette sul tema del gruppo nell’ambito della pastorale giovanile attuale.

La distinzione è tra gruppo, movimento, associazione.

L’associazione si presenta ordinariamente con le seguenti caratteristiche: possiede una sua struttura organica e istituzionale, definita da uno «statuto» interno; l’adesione dei membri avviene per condivisione degli scopi e degli impegni statutari; è assicurata la stabilità e l’autonomia in quanto istituzione, anche se variano i suoi membri; le responsabilità giuridiche e le figure di potere sono attribuite in base a criteri formali, prestabiliti dallo statuto.

Il movimento è invece caratterizzato dal fatto che le persone si aggregano sulla condivisione di alcune «idee di fondo» e di uno spirito comune.

Spesso, alla base, c’è un leader, affascinante e propositivo.

L’adesione è vitale e non formale. Più che in statuti, ci si riconosce in precisi valori, organizzati in una dottrina e in una prassi. Come si nota, gruppo, associazione, movimento non sono proprio la stessa realtà. Le diversità sono notevoli.

Quelle tra associazione e movimento saltano agli occhi, dalla sottolineatura degli elementi caratterizzanti.

Quelle tra gruppo e associazione-movimento vanno ulteriormente precisate, per il peso educativo che ne scaturisce.

Nei movimenti e nelle associazioni la forza di coesione e il relativo peso educativo è molto legato a quello che essi propongono nei loro documenti, nelle espressioni dei loro leaders, nelle prassi di vita. Quando sono studiati dal punto di vista della pastorale giovanile, l’attenzione corre spontanea alla verifica dei «contenuti»; sulla loro ortodossia, sulla loro modernità, sulla loro incidenza politica, sul livello di reattività culturale. Molte ricerche sulla attuale condizione giovanile mettono in evidenza un dato interessante. Il confronto tra giovani aggregati a gruppi e giovani non aggregati fa risaltare come questa appartenenza sia la variabile più influente nella formazione degli atteggiamenti e nella ricostruzione dell’identità. Questa variabile è influenzata a sua volta dal tipo di gruppo a cui si appartiene.

Questo significa la centralità del gruppo di base anche nei confronti dei movimenti e delle associazioni. Nel gruppo, infatti, si scatena quel processo che in termini tecnici si definisce «pressione di conformità». Esso sta alla base della costatazione precedente: la pressione di conformità genera la stabilizzazione delle regole di normalità di gruppo e il consolidamento dei canali di comunicazione e di identificazione.

La distinzione tra gruppo e movimento-associazione sollecita quindi a porre in primo piano la funzione del gruppo come realtà di base, prendendo le distanze da quei modelli, purtroppo diffusi, che accentuano l’appartenenza al movimento.

In questo senso, anche il fenomeno complessivo dell’associazionismo ecclesiale andrebbe letto dalla prospettiva unificante della realtà di base: il gruppo come insieme di individui, legati da una rete intensa di interazioni, e coinvolti per un fine comune e condiviso. È innegabile che questi gruppi sono favoriti dalla qualità dei movimenti e delle associazioni di cui sono espressione. L’incidenza sulle singole persone è assicurata però dalle interazioni che scorrono nel tessuto sociale del gruppo: senza interazioni (e cioè senza una reale esperienza di gruppo) i migliori contenuti porterebbero a scarsi effetti.

 

Bibliografia

Badin P.,​​ Psicologia dei gruppi, Armando, Roma 1972; De Grada E.,​​ Elementi di psicologia dei gruppi, Bulzoni, Roma 1969; De Vita R.,​​ Piccoli gruppi e società in trasformazione, Angeli, Milano 1978; Luft J.,​​ Introduzione alla dinamica di gruppo, La Nuova Italia, Firenze 1973; Maisonneuve J.,​​ La dinamica di gruppo, Celuc, Milano 1973; Mucchielli R.,​​ La dinamica di gruppo, LDC, Leumann 1980; Olmsted M.,​​ I gruppi sociali elementari, Il Mulino, Bologna 1976; Pollo M.,​​ Il gruppo come luogo di comunicazione educativa, LDC, Leumann 1988.

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GRUPPO

Definizioni troppo generiche di g., inteso per es. come sinonimo di collettività, si dimostrano inutilizzabili proprio per la loro indeterminatezza. Occorre perciò distinguere tipi diversi di g. e differenziarli rispetto ad altre forme aggregative. Riprendendo e integrando una tipologia ormai «classica» (Cooley, 1909), un’importante distinzione passa fra​​ g. primario​​ e​​ g. secondario.

1.​​ Il​​ «g. primario».​​ È un insieme ristretto di persone (​​ famiglia, g. di amici, g. di adolescenti, talvolta «fermenti» collettivi in ambito religioso o politico, ecc.) che interagiscono in misura intensa, secondo moduli solidaristici di origine emotiva più che razionale. Le piccole dimensioni rafforzano l’interdipendenza fra i membri; consentono la possibilità di incontri faccia a faccia (Homans, 1950), la conoscenza e la comunicazione diretta; favoriscono inoltre rapporti relativamente intensi e durevoli, limitando così la dispersione (cioè l’interazione fra membri persiste oltre i momenti di incontro formali). La rilevanza dei rapporti interpersonali, la condivisione di atteggiamenti e di stili di vita, la percezione di se stessi come persone piuttosto che per i ruoli svolti, insomma l’identificazione con la totalità del g. spesso prevalgono su altri scopi e finalità. Uguale rilevanza riveste la percezione di appartenere al g., di condividere con gli altri membri alcune importanti qualità (età, affiliazione religiosa...), di contribuire alla solidarietà interna.

2.​​ Il​​ «g. secondario».​​ Il g. secondario (associazioni, società sportive, partiti, «g. di interesse», istituzioni, ecc.) invece è maggiormente esteso, organizzato in maniera più formale e più differenziata, basato su un’interazione meno «calda» e meno profonda. Inoltre esso si prefigge compiti specifici e «istituzionalizzati», proiettati soprattutto verso l’esterno, da conseguire secondo criteri di efficacia / efficienza, anche a costo di abbassare il livello di gratificazione interna. Poiché il significato di «g. secondario» comprende anche quello di «associazione» (​​ associazionismo), ad essa rinviamo, limitando qui la definizione di g. alle aggregazioni di natura «primaria». Naturalmente la distinzione primario / secondario non è netta, poiché vi è sempre una valenza primaria nel g. secondario e viceversa. Ad es., il g. primario condivide con altre aggregazioni (folla, pubblico...) i caratteri di fluidità, flessibilità, transitorietà, ma ha anche un certo grado di sistematicità, regolazione, coordinamento funzionale che lo avvicina invece alle aggregazioni secondarie. In seno a una aggregazione secondaria possono costituirsi articolazioni più vicine al tipo primario, come nel caso di piccoli g. che siano emanazione, più o meno diretta, di istituzioni religiose, culturali, sportive, ecc. (Amerio et al., 1990,42). Altre aggregazioni sono di difficile classificazione, come per esempio le «cerchie sociali» che intrecciano rapporti primari (relazioni amicali / parentali) e obiettivi proiettati all’esterno (v. per es.​​ network​​ politici, forme di​​ selfhelp,​​ ecc.). Per queste forme particolarmente ibride si potrebbe forse parlare di​​ g. quasi-primari.

3.​​ I​​ piccoli g.​​ Sono stati molto studiati, spesso nella convinzione che ciò fosse il modo migliore per comprendere le «forme elementari del comportamento sociale» e per estendere da lì la comprensione della società in generale. Sembra però illusorio pretendere di individuare un punto di vista privilegiato nell’analisi della società. Volta a volta il g. è stato analizzato per studiare le aggregazioni di diseredati (Scuola di Chicago), l’organizzazione del lavoro (Roethlisberger-Dikson, 1939), la conversazione quotidiana e i processi comunicativi (Bales, 1950), le reti di rapporti (Moreno, 1943), le dinamiche interne (Lewin, 1951), ecc. Anche i g. giovanili sono stati studiati molto: inizialmente, negli Stati Uniti degli anni ’30-’40, l’attenzione si è rivolta quasi esclusivamente alle bande o ai g. di amici, considerati espressione, rispettivamente, delle fasce marginali e delle classi medie. In un momento successivo l’interesse di sociologi, antropologi, psicologi, pedagogisti ha travalicato i confini americani e, nel contempo, si è esteso anche a molte altre forme di g. o di associazioni.

4.​​ La diffusione dei g.​​ Probabilmente questa estensione dell’analisi ha accompagnato la diffusione di g., propagatisi per il concorso di varie condizioni. Una di queste può essere la contiguità spaziale, le distanze territoriali oggi ridotte anche grazie all’incremento della comunicazione e della mobilità. Spesso i g. si basano su questa contiguità o definiscono un loro territorio di appartenenza che delimiti anche spazialmente i confini con l’outgroup.​​ Fra le cause della diffusione dei g. vanno ricordati anche il diffondersi di un senso di solitudine, il disagio rispetto all’inadeguatezza di altre agenzie (per es. la famiglia), la «freddezza» di altre aggregazioni, il senso di impotenza rispetto alla complessità sociale o riguardo alle decisioni dei grandi apparati, delle istituzioni collocate nei livelli più alti dell’organizzazione sociale. Tutto ciò può spingere il singolo a entrare in un g. per immergersi nelle correnti «calde» dei rapporti interpersonali; per trovare risposte adeguate ai propri bisogni giudicati importanti; per realizzare azioni concrete e immediate, controllabili direttamente. Le motivazioni che presiedono all’ingresso in un g. sono quindi abbastanza distanti da ragioni esplicitamente utilitariste. «Quando gli individui che scoprono di avere degli interessi in comune si riuniscono, non lo fanno solo per difendere i loro interessi, ma per essere uniti, cioè per non sentirsi spersi fra avversari, per sentire il parere della comunità, per sentirsi divenuti, di molti, uno solo» (Durkheim, 1971, 21).

5.​​ Le funzioni del g.​​ Secondo Simmel (1908), nella società si intrecciano due distinte esigenze di natura psicosociale: da una parte l’uniformità, la coesione, l’uguaglianza, lo «essere per gli altri», la fusione nel g. di appartenenza; dall’altra, la volontà di distinguersi, di segnare una differenza dagli altri appartenenti, di «essere per sé». Il rapporto fra queste due opposte esigenze è di natura dialettica, priva di conciliazione definitiva; ma proprio il conflitto fra i due opposti consente, sempre secondo questo A., la formazione dell’individuo. In particolare, aprirsi oltre la cerchia familiare, partecipare a più g. esterni ed intersecantisi, vivere quella dialettica svolgono un’importante funzione nella formazione dell’individualità. Sulle orme di Simmel troviamo altri autori, più recenti (per es. Crespi, 1985, 381 ss.) Per le sue caratteristiche, il g. può diventare spazio di spontaneità, creatività, affettività; l’intensità dei rapporti interpersonali può sollecitare una disposizione più matura e responsabile verso gli altri, con positive conseguenze su un assetto più armonico della sfera emotiva. Una dialettica interna al g. e meno vincolata da preoccupazioni formali può facilitare nel soggetto una maggiore criticità​​ ​​ Freud (1921) sottolinea inoltre l’importanza della funzione di​​ ​​ identificazione con la quale si stabilisce la solidarietà tra i membri del g., che si assimilano l’uno all’altro sia per effetto delle costrizioni normative del Super-Io, sia in conseguenza degli «istinti» e delle pulsioni dell’Es. Per agevolare ulteriormente le funzioni formative del g., può svolgere un ruolo importante il​​ leader.​​ Egli è sempre una figura strategica per l’influenza che esercita e per la distribuzione dell’autorità e delle informazioni. Lippit-White (1943) e​​ ​​ Lewin (1951), a proposito dei g. di ragazzi, sottolineano proprio la necessità di una leadership «democratica»: animato da intenti partecipativi e pedagogici, il leader sollecita la massima collaborazione, accetta critiche e suggerimenti, favorisce il dialogo. Egli può contemperare positivamente due necessità: tutelare le norme del g. (codificate o latenti che siano) per garantire la conformità e la prevedibilità dei comportamenti; ma deve anche introdurre quel tanto di innovazione che consenta al g. di adattarsi costantemente alla realtà esterna in mutamento.

6.​​ La funzione pedagogica del g.​​ Le potenzialità possibili in questo tipo di aggregazioni e nei loro leader spiegano perché spesso si auspica che l’educazione venga svolta proprio attraverso g. Essi facilitano nei loro aderenti il cambiamento di opinioni o di atteggiamenti (Asch, 1952): quando il singolo membro avverte un desiderio di riconoscimento reciproco, di sicurezza, egli è disposto a seguire i riferimenti, i modelli che prevalgono nel g. Al punto 2 è stata inoltre richiamata la capacità di coinvolgimento che il g. può sviluppare. Solo in casi estremi questo coinvolgimento finisce per annullare la personalità individuale, mentre è sicuramente più facile cadere in un​​ ​​ conformismo comunque non patologico. Una forte identificazione, il timore nel singolo di lacerare la coesione interna o di perdere con il g. anche la propria identità individuale, spostano le ragioni dell’adesione al g. dalla simpatia fra aderenti alla difesa dell’unità fine a se stessa. In alcuni casi, per le stesse ragioni difensive, le norme del g. diventano oggetto di attaccamento affettivo, tanto da suscitare reazioni sproporzionate contro coloro che le violano o tentano di modificarle. Se queste dinamiche si diffondono fra i vari aderenti, il g. si irrigidisce e ciò va a scapito della sua proiezione verso l’esterno, della sua funzionalità e della sua capacità di incidenza sulla realtà (Amerio et al., 1990, 38). Soprattutto in situazioni di crisi, di forte disorientamento, di mutamenti inquietanti, alcuni g. (primari e quasi-primari) offrono al singolo l’occasione di​​ ri-socializzarsi,​​ cioè di abbandonare completamente i vecchi riferimenti e di riscrivere daccapo le proprie mappe cognitive fino ad una trasformazione apparentemente totale della propria soggettività: in questi casi il g. viene organizzato in maniera molto simile alle agenzie di « socializzazione primaria», quali la famiglia, per cercare di ripeterne l’efficacia. Agli occhi del singolo il g. diviene così fonte di costanti conferme, mondo-base, realtà per eccellenza, confine marcato rispetto all’esterno, luogo di interazioni concentrate soprattutto sugli agenti più significativi di questa ri-socializzazione, spazio simbolico nei cui confronti il singolo stabilisce rapporti di identificazione forte e di stretta dipendenza emotiva (Berger-Luckmann, 1969). Se alcune condizioni della nostra società favoriscono questi esiti, altre producono tendenze opposte. Infatti oggi si diffonde anche il fenomeno delle «multiappartenenze» del singolo, il quale aderisce a più aggregazioni evitando, spesso intenzionalmente, di investire gran parte di se stesso in un’unica appartenenza. Inoltre egli può sempre mantenere una distanza dal suo ruolo nel g. e avere la capacità di negoziare le interpretazioni, i ruoli, le aspettative; solo così sarà in grado di dominare se stesso, di offrire un apporto efficace agli altri aderenti, di padroneggiare situazioni impreviste. Infine, tranne che in momenti «forti» durante i quali il g. si ricompatta in maniera decisa, l’identificazione è un fenomeno discontinuo e distribuito irregolarmente fra i membri.

7. I g. giovanili.​​ Molti g. sono formati da giovani che vi trovano un motivo di grande interesse. Le considerazioni generali fin qui proposte valgono a maggior ragione per i g. giovanili, con qualche accentuazione ulteriore. Per effetto dei modelli di socializzazione liberale prevalsi dal secondo dopoguerra in Occidente, la personalità giovanile richiede un sostegno del g., una difesa necessaria ad un ego non abbastanza strutturato per far fronte ai rapporti sociali che coinvolgono singoli segmenti di ruolo piuttosto che l’intera persona. Specialmente nelle nuove generazioni il g. è un insieme di riferimenti significativi (eventuale presenza di adulti che «guidano» il g., disponibilità di uno spazio fisico a propria esclusiva disposizione, punto di riferimento territoriale non casuale, norme, stili, gerghi comuni). Il g. è vissuto come la prima grande occasione di autonomia dal mondo adulto; un’evoluzione rispetto ai g. precedenti formati da bambini o pre-adolescenti; un banco di prova di quelle cooperazioni e conflitti in cui il giovane entrerà con la vita di adulto; un’importante occasione per maturare competenze comunicative, valutative, gestionali, relazionali. I g. dunque assumono un valore cognitivo-costruttivo come luogo di apprendimento nei processi di sviluppo e di formazione identitaria. La funzione di socializzazione svolge un ruolo preminente (anche se non sempre esplicito) fra le finalità interne, spesso in maniera autonoma rispetto ad altre agenzie di socializzazione: tale funzione, d’altra parte, non si contrappone radicalmente alla socializzazione familiare, scolastica, ecc. ma se ne differenzia, in un gioco di costante negoziazione fra generazioni (Amerio et al., 1990). Pur con tutti i rischi richiamati, il g. può ridurre la tensione rispetto ad una pressione esagerata dei genitori e costituire un valido fattore di maturazione rispetto all’egocentrismo e all’egoismo infantile.

Bibliografia

Durkheim É.,​​ Division du travail social,​​ Parigi, Alcan, 1893;​​ Simmel G., «Die Erweiterung der Gruppe und die Ausbildung der Individualität», in O. Rammstedt,​​ Georg Simmel-Gesamtausgabe, XI, Frankfurt a. M., Suhrkamp​​ (trad. it.​​ Individuo e g., Roma, Armando, 2006); Moreno J. L.,​​ Who shall survive? Foundations of sociometry,​​ group psychotherapy and sociodramma,​​ New York, Beacon House, 1943; Bales R. F.,​​ Interaction process analysis: a method for the study of small groups,​​ Cambridge, Addison-Wesley, 1950; Homans G. C,​​ The human group,​​ New York, Harcourt Brace, 1950; Lewin K.,​​ Field theory in social science,​​ New York, Harper, 1951; Asch S. E.,​​ Social psychology,​​ New York, Prentice-Hall, 1952; Amerio P. et al.,​​ G. di adolescenti e processi di socializzazione,​​ Bologna, Il Mulino, 1990, 31-51; Crespi F.,​​ Le vie della sociologia, Ibid., 1994; Paroni P.,​​ Un porto in strada: g. giovanile e intervento sociale, Milano, Angeli, 2004.

P. Montesperelli

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