GIOCO

Mario Pollo

 

1. Cosa è il gioco

1.1. I tre tipi di gioco

1.2. Il secondo livello di istituzionalizzazione

2. Lavoro e gioco nelle società industriali

2.1. Il gioco come compensazione e scarico

2.2. Il gioco come evasione: la felicità lontano dal quotidiano

3. Le vere funzioni del gioco

3.1. Il gioco come sistema di comunicazione

3.2. Il gioco come funzione del sistema sociale

4. Conclusione

 

1. Cosa è il gioco

La definizione classica indica nel gioco una attività strutturata mirante ad una gratificazione individuale o di gruppo, svincolata da fini immediati di produzione (lavoro) e da necessità immediate di difesa individuale o del gruppo o della specie. Come si osserva da questa definizione il gioco possiede due qualità particolari: la capacità di gratificare chi lo pratica e l’assoluta gratuità. Tuttavia nella cultura sociale attuale è invalsa l’abitudine di designare come gioco alcune attività che sono gratificanti ma tutt’altro che gratuite, essendo finalizzate a scopi «produttivi» o, addirittura, di sopravvivenza dell’individuo. Vengono, infatti, dette giochi attività didattiche, tecniche di animazione di gruppo e attività lavorative vere e proprie come lo sport professionistico.

Se una attività viene svolta per conseguire un fine particolare (l’apprendimento, la sperimentazione di dinamiche di gruppo o la produzione di una competizione-spettacolo retribuita), anche se gratificante per chi la pratica essa, a rigore, non può essere detta gioco. Manca a questa attività, infatti, il requisito della gratuità. Questo requisito è fondamentale per poter definire una attività gioco avendo il gioco come suo fine proprio null’altro che sé stesso.

Questa affermazione non vuole assolutamente negare che il gioco possa avere benefici effetti sulla persona umana. È noto ad esempio che esso è per i bambini una notevole forma di apprendimento, oppure che esso è per gli adulti una importante forma di compensazione psicologica e di creatività. Questa affermazione vuole solo sottolineare che il gioco offre questi suoi benefici effetti gratuitamente, senza, cioè, che chi gioca debba proporseli.

Il gioco è nato ed esiste sotto il segno della libertà tipica del gesto gratuito e ogniqualvolta si vogliono piegare intenzionalmente i suoi effetti ad un particolare disegno esso si trasforma in lavoro, in manipolazione o in qualcos’altro che non è più certamente gioco vero.

L’uso ambiguo che della parola gioco viene fatto nella vita sociale odierna è il segno della volontà di piegare l’inutilità del gioco, e quindi la ricchezza di cui questa inutilità è portatrice per la vita umana, a fini eminentemente utilitaristici.

Nella attuale vita sociale delle società industriali la liberazione del gioco passa, perciò, necessariamente attraverso la liberazione della sua gratuità.

 

1.1. I tre tipi di gioco

Gli studiosi hanno raggruppato le forme di gioco che compaiono nella vita umana in tre grandi classi:

—​​ Puro divertimento

In questa classe sono comprese tutte quelle attività di improvvisazione motoria, verbale o mentale, che hanno un elevato carattere di gioiosità ed un quasi inesistente fondo di strutturazione.

—​​ Trastullo

Sono solitamente collocate in questa classe quelle attività che si articolano attraverso regole informali, improvvisate e chi vi partecipa finge, imita e viene sollecitato ad una continua invenzione.

—​​ Gioco vero e proprio​​ Appartengono a questa classe i giochi strutturati secondo regole formali che consistono o nello svolgimento gratuito di un compito finalizzato o nella competizione secondo gli schemi codificati di una fittizia battaglia. La caratteristica di questa classe di giochi è quella di avere al proprio interno un insieme di attività che vivono una condizione di difficile equilibrio tra la volontarietà, la libertà e la creatività tipiche del gratuito atto di giocare e un sistema di costrizioni, regole, rischi e punizioni. Lo sport, almeno quello autentico, appartiene a questa classe. Lo sport ha alcune caratteristiche particolari: si esplica prevalentemente attraverso la destrezza, lo sforzo fisico all’interno di un elevato livello di competitività che richiede la dimostrazione di capacità personali.

Nel caso dello sport vi è un ulteriore fattore, oltre quello della gratuità, che segna positivamente o negativamente la sua apparenza alle attività umane dette gioco. Questo fattore è legato alla presenza istituzionale del pubblico nel suo schema di svolgimento.

 

1.2. Il secondo livello di istituzionalizzazione del gioco

Il gioco vero e proprio, di cui lo sport è un esempio, si distingue dalle altre forme di gioco per il possesso di un insieme di regole formalizzate. Questo livello di istituzionalizzazione è l’unico che il gioco sopporta. Ora nella realtà sociale attuale molte attività sportive sono fatte prevedendo organicamente la presenza del pubblico al suo interno e tendono a definirsi, correttamente, come forme di sport-spettacolo. La presenza del pubblico, formalizzata, rappresenta un secondo livello di istituzionalizzazione che ha come effetto quello di far perdere alle persone che praticano lo sport, o qualsiasi altro gioco, il loro atteggiamento volontario e libero e di trasformare lo sport stesso in una attività ripetitiva ed ossessiva simile a quella lavorativa.

 

2. Lavoro e gioco nelle società industriali

Dopo aver definito cosa è il gioco autentico e la sua tipologia principale è necessario affrontare il discorso sulla funzione che ad esso viene assegnata nella cultura delle società industriali e post-industriali.

Dalle riflessioni sviluppate intorno alla definizione di gioco è emersa, anche se un po’ indirettamente, la tendenza delle moderne società industriali a trasformare in molti casi il gioco in una forma di lavoro. Questa tendenza può essere considerata l’effetto della manifestazione di quella volontà di potenza che accompagna lo sviluppo delle società industriali. Una volontà di potenza che vuole governare ogni aspetto della vita umana e renderlo funzionale alle esigenze dell’organizzazione sociale e dei modelli di realizzazione umana culturalmente dominanti. Questa volontà fa si che il gioco, di cui si sono individuati gli indubbi positivi effetti sulla vita sociale ed individuale, sia forzatamente condotto all’interno di funzioni sociali particolari. La programmazione sociale del gioco ha fatto in modo che esso assumesse un ruolo parallelo a quello della produzione industriale all’interno dell’area economica del cosiddetto «terziario avanzato». Il gioco, snaturato della sua gratuità e della sua libertà, è diventato in alcuni casi una sorta di funzione sociale di servizio utile a sostenere l’attività della produzione di beni.

Il gioco vero è rimasto una attività riconosciuta utile solo all’età infantile. Occorre però dire che anche nell’età infantile il gioco è minacciato sia dalla produzione industriale di giochi e di giocattoli, sia dalla produzione di metodi e strumenti didattici centrati sul gioco. Tuttavia, nonostante tutto, il gioco vero continua, magari tra mille difficoltà, ad abitare i tempi ed i luoghi dell’infanzia e della fanciullezza. Con più difficoltà il gioco abita i tempi della giovinezza e, soprattutto, dell’età adulta.

2.1. Il gioco come compensazione e scarico

Nelle società industriali o post-industriali la funzione di gran lunga dominante è quella legata allo sviluppo economico e, quindi, alla produzione. Questa funzione subordina tutte le altre, anche quelle legate alla realizzazione della persona umana. L’avere, per usare una formula che ha avuto un grande successo, prevale sull’essere. In questo schema di fondo il gioco, che ha subito la doppia istituzionalizzazione, assolve la funzione di scarico e di compensazione. Scarico delle tensioni e dello stress che gli individui accumulano nella loro attività lavorativa e sociale in genere. Compensazione delle varie forme di spossessamento e di alienazione che sono connesse al lavoro e a una vita sociale in cui la persona non si sente protagonista ma oggetto di un processo che sfugge alla sua possibilità di controllo. In altre parole questo significa che il gioco serve alle persone per recuperare il loro equilibrio psico-fisico ed il controllo delle finalità dei propri gesti che, troppo spesso, il lavoro e la vita sociale non offrono loro. Da questo punto di vista la funzione del gioco consiste nel liberare gli individui dalle tossine che il lavoro e la vita sociale producono, per consentire loro di riprendere con rinnovato vigore il ciclo della produzione e del consumo a cui la società li chiama.

Il gioco, che per alcuni è divenuto un lavoro altamente retribuito, è in quanto compensazione e scarico un’attività collaterale al lavoro e al consumo che svolge la funzione di regolatore dell’accumulo di stress e di alienazione delle persone che producono e consumano nelle società industriali. Da questo punto di vista il gioco appare anche come una sorta di funzione di controllo che il sistema sociale si è dato e che dovrebbe consentirgli una certa stabilità.

Questa concezione dominante, dualistica, che affida al gioco la funzione di compensare gli effetti negativi del lavoro e della vita sociale, di fatto, introduce anche la concezione della felicità umana come evasione dalla realtà del quotidiano.

 

2.2. Il gioco come evasione: la felicità lontano dal quotidiano

Se giocare è trovare quella felicità che il quotidiano non offre, se il quotidiano viene vissuto come immutabile, se il lavoro è solo una fonte di reddito che consente di acquistare i beni ed i servizi — tra cui il gioco — che possono dare la felicità, allora il gioco è vissuto dalle persone come qualcosa che non ha relazione con la realtà che intesse di sé l’esperienza del quotidiano, come una realtà separata in cui sarebbe bello stare per sempre ma da cui la necessità della sopravvivenza costringono dopo un po’ a tornare. Il tempo del gioco è un tempo festivo, fuori dal mondo, in cui è possibile vivere una esperienza di felicità.

Questo tempo, però, non è in grado di dire

nulla al tempo del quotidiano se non attraverso le sfumature della nostalgia e del rimpianto. Giocare significa perciò, dentro questa concezione culturale, evadere dalla prigione delle ferree leggi della sopravvivenza che il quotidiano impone.

Questa concezione oscura e snatura la vera funzione che il gioco ha nella vita umana, sociale ed individuale. Non consente soprattutto di cogliere la carica di trasformazione della realtà di cui esso è portatore.

 

3. La vera funzione del gioco

Dopo avere rapidamente evocato alcune suggestioni su come il gioco è concepito e vissuto nell’attuale realtà sociale è perciò utile cercare di esplorare, al di là del suo uso attuale, la vera funzione del gioco nella vita umana individuale e sociale.

 

3.1. Il gioco come sistema di comunicazione

Il gioco può essere definito un sistema di comunicazione in quanto possiede le caratteristiche tipiche di questo tipo di sistemi. Esso, infatti, è un sistema di relazioni che la persona stabilisce con sé stessa, con gli altri e con la realtà naturale e simbolica in cui vive. Questo sistema di relazioni ha una propria struttura logica e veicola attraverso i segni ed i simboli dei particolari significati. Ogni gioco è costituito da un insieme di segni che spesso hanno anche una dimensione simbolica, in quanto oltre al significato letterale manifesto possiedono un senso latente o, addirittura, più sensi latenti. Da questo punto di vista il gioco appare come uno dei fattori responsabili della organizzazione da parte dell’individuo della realtà nella sua coscienza e nel suo inconscio.

Questa dimensione del gioco, anche se maggiormente verificabile nell’età infantile, dove il suo contributo alla formazione della coscienza di sè e del mondo è molto evidente, è presente anche, in misura minore, nell’età adulta.

 

3.2. Il gioco come funzione del sistema sociale

Il gioco svolge nel sistema sociale alcune funzioni rilevanti che non sempre però si sviluppano concretamente. Ciò a causa o del forte controllo sociale, specialmente nelle società autoritarie, o della presenza del mito della produzione. In questi casi queste funzioni sono sostituite, come si è già visto, da quelle della distensione e della compensazione e trasformate in funzioni di scarico della fatica e delle tensioni della vita sociale ed individuale. Una funzione rilevante del gioco è indubbiamente quella di consentire alle persone ed ai gruppi sociali di esplorare, sperimentandole in modo simulato, modalità di comportamento individuale e sociale nuove che tendono ad ampliare le possibilità di relazione e di azione dell’uomo nella vita quotidiana. Questo avviene anche perché il gioco consente una esplorazione non traumatica dei limiti dei comportamenti umani e delle loro combinazioni. La persona, che giocando sperimenta nuove realtà mentali o relazionali, non va incontro ad alcuna sanzione sociale per aver deviato dagli schemi culturali abituali del suo gruppo sociale. Nello stesso tempo sperimenta la possibilità di nuovi modi di pensare la realtà e di vivere i rapporti con gli altri. Questa sperimentazione apre indubbiamente la persona umana verso l’innovazione. Tuttavia il gioco non apre solo al nuovo perché esso consente al bambino, ad esempio di apprendere i comportamenti sociali ammessi dal suo gruppo sociale e di inibire quelli vietati. Questa funzione di comunicazione del gioco, che mette in relazione l’individuo con la realtà delle norme e della cultura sociale in cui vive, è perciò assai complessa in quanto consente sia la conservazione che l’innovazione.

Un’altra funzione del gioco è quella della liberazione della fantasia attraverso l’offerta alle persone ed ai gruppi sociali della possibilità di trascendere il limite dell’utilità e della finalità biologica. Questa funzione è vicina, ma non identica, a quella che consente alle stesse persone di recuperare il valore gratuito della vita e dei rapporti umani. Valore che sovente è offuscato dalla subordinazione delle azioni umane a ideologie o a fini particolari.

La funzione centrale del gioco però è quella della ricerca della felicità. Il gioco è il luogo in cui ogni persona può sperimentare la possibilità reale della felicità nello spazio-tempo della vita umana. Il gioco può infatti dare felicità all’uomo anche quando vive l’esperienza dell’esilio, inteso come impossibilità per l’uomo di una vita piena a causa delle condizioni naturali, sociali e personali che affliggono la sua vita. Il gioco è un dono di felicità e di speranza.

Un’ultima funzione del gioco è quella di dare stabilità ai sistemi di relazione tra le persone. Stabilità che il gioco ottiene sostituendo gli abituali schemi di relazione sociale con i propri. Questa sostituzione interrompe l’accumulazione delle tensioni presenti nelle forme simmetriche di interazione sociale. In altre parole questo significa che il gioco consente di allentare le tensioni derivanti dalla competitività, dal bisogno di affermazione e di dominio che, purtroppo, compaiono nei rapporti quotidiani tra le persone che sono prossime. È questa la funzione che, isolata dalle altre, è alla base della ideologizzazione del gioco come forma di scarico e di compensazione delle tensioni e delle alienazioni della vita sociale a cui si accennava prima.

 

4. Conclusione

Queste brevi note sul gioco hanno voluto sottolineare come esso sia importante all’interno di ogni progetto di costruzione della persona umana e, quindi, di ogni progetto pastorale. Tuttavia esse vogliono anche essere un monito a coloro che cercano di piegare il gioco ai loro fini, trasformandolo in una sorta di espediente didattico. Infatti il gioco dona le sue potenzialità educative solo se non le si ricercano in esso, solo se esso viene accettato per ciò che è: un gioco.

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GIOCO

Tutti gli studiosi sono concordi nell’attribuire al g. un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’uomo, in quanto porta a far emergere le sue peculiari qualità potenziali: correre, saltare, lanciare, mettere alla prova il proprio corpo di fronte ad ostacoli di varia natura sono caratteristiche spontanee e naturali che appartengono all’«homo ludens». È questo il motivo per cui l’attività ludica è stata da sempre considerata una componente fondamentale del processo evolutivo che va dall’infanzia all’età adulta, quale veicolo di particolari valori portanti come la gratuità, la libertà di espressione, la creatività, la gioia, la festa, la vitalità, l’apprendimento polivalente, la cooperazione. Dal canto suo Huizinga definisce il g. un’attività libera, volontaria e del tutto gratuita, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, seguendo regole liberamente accettate, provvista di un fine in sé e accompagnata da un sentimento di tensione e di gioia. Al g. spesso si accompagna e / o ne è una indispensabile componente il giocattolo, fin dall’antichità considerato nelle sue multiformi versioni creative, tutte comunque accomunate da un unico principio, funzionale allo sviluppo delle facoltà creative, immaginative ed intellettuali del soggetto ludico; semmai la messa in discussione di tale principio afferisce alla sua perfettibilità (per​​ ​​ Montessori deve avere una struttura perfezionata) o meno (per​​ ​​ Dewey deve rimanere allo stato grezzo).

1.​​ Le teorie sul g.​​ Fin dall’antichità filosofia e pedagogia e, più recentemente, psicologia, sociologia e antropologia si sono interessate di volta in volta al g. cercando di rispondere, ognuna dal proprio punto di vista, a due principali quesiti: che cosa è il g., perché l’«homo ludens» gioca.​​ ​​ Platone ed​​ ​​ Aristotele avevano attribuito al g. la funzione di «esercizio» che prepara alla vita, ma è soprattutto all’inizio di questo sec. che sono nate varie teorie sul g. Per K. Gross il g. è un pre-esercizio di attività future, serve cioè ad esercitare le più importanti abilità e funzioni necessarie per un buon adattamento dell’individuo all’ambiente. D. W.​​ ​​ Winnicott ha contribuito con varie opere allo studio del g. sui bambini ricostruendone lo scenario motivazionale sotteso: egli sostiene che il g. più che un’attività distinta dalle altre è una dimensione propria di qualsiasi attività umana in quanto creativa. L. E. Peller ha individuato 4 fasi nel g. del bambino: narcisistica, pre-edipica, edipica, post-edipica. R. Callois dal canto suo ha proposto una classificazione dei g., suddividendoli in 4 categorie: di competizione, d’azzardo, d’imitazione (o rappresentazione di un ruolo), di stimolo di stati emotivi. E. H.​​ ​​ Erikson distingue tre tipi di g.: quelli che si svolgono nell’autosfera (esplorazione del proprio corpo), quelli nella microsfera (riguardano l’ambiente circostante / vicino) e quelli nella macrosfera (coinvolgono l’ambiente sociale più allargato). E. A. Plaut suddivide il g. in 8 stadi, ciascuno rispondente ad una diversa fase della vita: scoperta del g. (prima infanzia), differenziazione del g. (seconda infanzia), g. simbolico (età pre-scolare), g. con ruoli (età scolare), giocosità con confini (adolescenza), g. integrato (giovinezza), g. generativo (età adulta), g. creativo (età matura).​​ ​​ Piaget e​​ ​​ Klein sono tra coloro che hanno studiato più a fondo l’attività ludica in rapporto alle varie tappe evolutive della vita del bambino. Il primo, pur non avendo formulato una vera e propria teoria sul g., ne ha approfondito tuttavia lo studio nel trattare lo sviluppo dell’attività intellettuale e della maturazione del bambino. Ne è scaturita così una classificazione secondo la quale il g. può essere suddiviso in tre categorie: di immaginazione o simbolico, di esercizio o funzionale, di regole. In sostanza l’A. distingue il simbolo ludico, in cui la rappresentazione è adattata a qualcosa di eterogeneo (g. simbolico), dall’intelligenza, in cui l’immagine è adeguata all’oggetto o all’esperienza reale e produce un’azione che opera sul concreto (g. di regole). A livello di ricerca sperimentale quest’ultimo si è dimostrato un prezioso strumento per stimolare l’evoluzione del bambino sul piano della partecipazione, della creatività, dell’accettazione e del rispetto delle regole, della costruzione di rapporti stabili e collaborativi nel gruppo, di democratizzazione della vita di gruppo. L’interpretazione dell’inconscio attraverso la tecnica del g. è l’obiettivo primario che si propone M. Klein, la quale parte dall’inconscio per arrivare gradualmente all’«Io» del bambino utilizzando il g. come fattore catartico. Secondo tale A. il linguaggio del g. è lo stesso di quello dei sogni e va trattato non solo analizzandolo simbolicamente ma studiando anche le associazioni fra i vari significati simbolici presenti in esso. Si tratterà perciò di fare attenzione al soggetto dei g., al tipo di g., al motivo del passaggio da un g. all’altro. Tra l’interpretazione del g. di Piaget e quella freudiana di Klein si riscontrano analogie e differenze. Per entrambi il g. mobilita tutte le potenze della psiche, dall’intelligenza all’emotività, e si radica nel profondo della stessa. La principale differenza tra i due consiste nel fatto che Piaget auspica che si realizzi un equilibrio tra «assimilazione» ed «accomodamento»; in tal senso le funzioni della creatività ludica sono integrate in quelle delle condotte intelligenti. Viceversa, per la teoria kleiniana l’ispirazione del g. è di ordine emotivo e non intellettuale; pur appoggiandosi al reale, lo trascende in virtù del potere trasfigurativo del simbolismo presente in esso, inteso quale generatore di rappresentazioni. Dall’insieme delle analisi riportate, i molteplici studi sulla natura e funzione dell’attività ludica possono essere ricondotti a tre principali filoni interpretativi: quello​​ funzionalista,​​ che cerca di stabilire quale sia la funzione del g. per perseguire un dato scopo; quello​​ cognitivista,​​ che vede il g. come metodo di apprendimento sia ai fini dello sviluppo dell’intelligenza, sia a scopo riabilitativo; quello della​​ psicologia dinamica,​​ che arricchisce l’attività ludica di significati e funzioni fino a farla divenire il mezzo attraverso cui il bambino arriva a conoscere e ad accettare i desideri più inconsci.

2.​​ «A che g. giochiamo?».​​ Anche lo​​ ​​ sport è g. e, viceversa, il g. può diventare sport. Cos’è quindi ciò che distingue il g. dallo sport e che cosa invece li accomuna? Come lo sport, il g. è un mezzo ideale per lo sviluppo della socialità, in quanto coinvolge le persone in un processo di azione e reazione dove la presenza delle «regole» fa da «collante» per la realizzazione di tale attività. La differenza, sostanziale, consiste nel fatto che lo scopo del g. non è necessariamente quello di consentire all’individuo di affermare la propria superiorità sugli altri, pur facendo salva quell’attività agonistica di base secondo la quale «senza avversario non c’è g.». Nel g., di rimando, vengono attesi e salvaguardati alcuni valori che nello sport non sono prioritari (quando non vengono del tutto disattesi), quali l’amicizia con l’altro, la scoperta dello spirito comunitario, il manifestarsi del senso di fiducia e di sicurezza che proviene dal giocare assieme, il senso di «gruppo». In sostanza, il g. dà importanza alla solidarietà più che all’ostilità, alla cooperazione più che all’opposizione, alla​​ ​​ socializzazione più che alla competizione (senza peraltro escludere la componente agonistica); favorisce le attività motorie di ogni tipo e luogo senza restrizioni di spazio, di tempo e di età; valorizza le situazioni in cui l’impatto affettivo ha una profonda risonanza sulla personalità di chi lo esercita; moltiplica le esperienze relazionali con persone e gruppi sociali diversi. Dal versante funzionale l’accento si sposta quindi sulla dimensione socio-comportamentale. I g., in particolare i g. con regole, rappresentano di conseguenza degli ottimi strumenti di maturazione della personalità in quanto permettono di passare da una socializzazione di tipo affettivo a una di carattere cooperativistico, da una visione egocentrica dei rapporti a quella che tiene conto anche del punto di vista dell’altro, da un approccio istintivo ad un maturo ed equilibrato confronto su base competitivo-agonistica. In sintesi, il g. svolge una funzione che è in grado di coinvolgere l’intera personalità dell’«homo ludens».

Bibliografia

Huizinga H.,​​ Homo ludens,Torino, Einaudi, 1968; Piaget J.,​​ La costruzione del reale nel bambino,​​ Firenze, La Nuova Italia,1973; Winnicott D.W.,​​ G. e realtà,​​ Roma, Armando, 1974; Callois R.,​​ I g. e gli uomini,​​ Milano, Bompiani, 1981; Polisportive Giovanili Salesiane,​​ A che g. giochiamo?,​​ Roma, Juvenilia, 1991; D’Andretta P.,​​ Il g. nella didattica interculturale, Bologna, EMI, 1999; Kaiser A.,​​ Genius ludi: il g. nella formazione umana, Roma, Armando, 2001; Lucchini E.,​​ Giocattoli e bambini dall’antichità al 2000, Lanciano, Ed. Carabba, 2003.

V. Pieroni

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