FEDE

Carlo Molari

 

1. Il problema

2. Forme generali di fede

2.1. Fede struttura di una comunità

2.2. Fede come struttura personale

2.3. Sviluppo della fede

3. Fede adulta

3.1. Fede nichilista

3.2. Fede atea

3.3. Fede in Dio

4. Fede teologale

5. La fede in Cristo

5.1. La fede di Gesù

5.2. Cristo rivelatore di Dio

6. Ambiguità della fede religiosa

6.1. Fede come credenza

6.2. Riduzione religiosa

6.3. Soprannaturalismo

6.4. Concezione statica

6.5. Sensibilità individualistica

7. Dire la fede

7.1. Simboli di fede

7.2. Dire la fede suppone una cultura

8. Trasmissione della fede: socializzazione ed evangelizzazione

8.1. Testimonianza

8.2. Ritualità

8.3. L’insegnamento

9. Pastorale giovanile

9.1. Insegnamento

9.2. Rituali di vita

9.3. Testimonianza ecclesiale

10. Conclusione

 

1. Il problema

Con il termine​​ fede​​ si indica un atteggiamento umano molto articolato che accompagna fin dall’inizio resistenza dell’uomo e assume diverse forme. Proprio per la sua complessità, il tema si presta a facili fraintendimenti. Ciascuno infatti interpreta i termini usati secondo le proprie esperienze e in riferimento ai contenuti della propria storia. Esistono poi alcune ambiguità terminologiche dovute alle deformazioni che le parole subiscono nell’uso continuo. È necessario perciò precisare con esattezza il senso della parola​​ fede​​ qui utilizzata.

È utile partire dall’uso più generale del termine per cui, ad es., oltre che di​​ fede religiosa​​ si parla di​​ fede politica.​​ In senso generale la fede è il complesso degli ideali che guidano un gruppo sociale o una comunità umana e per i quali ciascuna persona, fidandosi di testimoni, si impegna nella vita in una direzione piuttosto che in un’altra. Riflettere sulla fede significa perciò individuare i meccanismi fondamentali attraverso i quali una persona compie il suo processo di crescita e si identifica all’interno di una struttura sociale.

Nella declinazione religiosa la fede è l’atteggiamento con cui l’uomo ascolta la Parola di Dio che si rivela e accoglie la sua azione di salvezza. Riflettere sulla fede religiosa significa individuare i rapporti profondi che esistono tra la fede vitale e la fede in Dio, e le caratteristiche che assume la fede quando l’uomo giunge alla scoperta del principio originario e del fondamento della sua esistenza e quando orienta tutta la sua vita a Dio come orizzonte ultimo del suo cammino.

La pastorale giovanile si interessa allo sviluppo della fede vitale per farla maturare fino alle forme religiose e teologali.

 

2. Forme generali di fede

Per analizzare la fede religiosa e le sue forme teologali, partiamo perciò dall’esperienza comune dell’uomo.

 

2.1. Fede struttura di una comunità

La prima forma di fede è quella relativa agli ideali che guidano una comunità umana e che costituiscono le ragioni della sua sopravvivenza. Ogni gruppo sociale per vivere deve formulare progetti, tracciare cammini ignoti, rinnovare impegni. E per farlo ha bisogno di riferirsi a valori accolti senza riserva, a ideali non ancora pienamente verificati, a ragioni assunte come assolute. Questi riferimenti costituiscono per ogni persona le ragioni di vita e si esercitano all’interno di una tradizione storica che contiene testimonianze efficaci. Una comunità che smarrisce i suoi orizzonti ideali o non ha nella sua storia riferimenti validi, inizia un cammino di involuzione che sfocia fatalmente nell’autodistruzione. Ogni gruppo umano per sopravvivere deve indurre la propria fede nelle giovani generazioni, e per farlo deve poter richiamare una storia significativa. Ogni gruppo umano si struttura attraverso i valori che trasmette alle nuove generazioni attraverso la socializzazione che consiste appunto nella comunicazione della vita e delle sue ragioni, cioè degli ideali emergenti dalle proprie tradizioni.

 

2.2. Fede come struttura personale

Nel suo aspetto personale, quindi, la fede è, in origine, l’atteggiamento di fiducia nei confronti di coloro che, con atti di amore, offrono la vita, e di accoglienza della tradizione entro la quale è possibile percepire l’autenticità delle ragioni di vita. Crescendo la persona, la fede acquisterà riferimenti storici più ampi e caratteristiche personali specifiche fino a configurarsi come fede in Dio. Quando comincia a riflettere sulla propria esistenza, l’uomo scopre, all’origine di ogni suo movimento, cose, situazioni, persone diverse da lui. Egli si muove perché chiamato

0 sollecitato da altri, che lo coinvolgono in nuove avventure di vita, lo spingono oltre sé stesso e gli suscitano il fascino di traguardi inesplorati. Questa scoperta comporta la caduta del sogno narcisista, l’illusione cioè di essere Dio, di bastare a sé stesso, e costituisce perciò la prima grande delusione dell’esistenza. Prima o poi, però, anche quando le esperienze corrispondono ai desideri alimentati, l’uomo coglie una loro insufficienza e continuamente viene rimandato altrove. Dalle stesse realtà che offrono sostegno della sua insufficienza, l’uomo viene sempre spinto avanti.

Tale rimando si realizza in modi diversi. Una prima forma, la più facile e frequente, orienta il desiderio verso il futuro, con la​​ promessa​​ di beni moltiplicati a dismisura o di situazioni considerate definitive e perfette. Ma le illusioni della quantità esauriente o della perfezione definitiva si dissolvono ben presto. Oggi più velocemente di ieri l’uomo ha la possibilità di moltiplicare i beni e di realizzare i suoi progetti, ma proprio per questo scopre più facilmente la loro insufficienza. Allora la spinta vitale si esaurisce, l’entusiasmo si spegne, la vita si adagia in forme di rassegnazione passiva, quando non perviene, come sempre più frequentemente oggi accade, alla disperazione, alla fuga nella droga o al suicidio.

Un’altra forma di rimando oltre le cose dirige l’uomo verso rinteriorità, che consente di cogliere, al fondo delle situazioni, un dono già presente ma diverso da quello intenzionalmente perseguito. In questo caso il rinvio non conduce ad attendere altre risposte possibili, ma a scoprire un’offerta vitale insospettata e spesso non decifrabile, contenuta in ogni situazione. Si evidenzia, allora, la dimensione​​ trascendente​​ della vita. L’atto di amore non si ferma ai beni che si offrono, ma attinge il Bene che attraverso essi si dona e che resta a disposizione anche quando la passione finisce, o la risposta altrui viene a mancare. Si scopre, allora, che il dono atteso non consiste nell’attuazione dei desideri o nella realizzazione dei progetti, ma che anche il fallimento, l’ingiustizia subita, e persino la morte, possono essere vissuti come esperienze positive. Si sperimenta che la vita è più ricca dei nostri desideri, e che si offre in modo diverso da quello atteso; si comprende che il bene è sempre più grande del nostro cuore e si avverte che la fondamentale esigenza dell’uomo è percepire la dimensione trascendente della vita.

 

2.3. Sviluppo della fede

Queste successive scoperte alimentano il processo della fede, la quale, quindi, assume forme diverse secondo le varie stagioni dell’esistenza umana. Gli ideali e i valori assoluti, cui ci si abbandona, acquistano caratteristiche diverse secondo le esigenze e le situazioni varie della storia.

Le forme infantili della fede si poggiano esclusivamente sulla testimonianza di coloro che, amando, comunicano loro ragioni di vita. Ma per tutti deve giungere il momento in cui le scelte cominciano a coinvolgere la persona secondo dinamiche libere e ne orientano 1’esistenza in modo consapevole. Finché ciò non avviene, la vita si svolgerà tra entusiasmi e paure, tra risposte e rifiuti, tra speranze e delusioni. Senza ideali personalmente accolti la vita è frammentaria e inquieta, resta in balia degli eventi e dell’ambiente.

 

3. Fede adulta

La forma tipica della fede di una comunità è quella esercitata dagli adulti, o meglio dalle persone mature. La forma adulta della fede si ha solo quando la persona prende pieno dominio della sua interiorità. Quando cioè riesce a penetrare nel suo profondo, ad attraversare tutto il groviglio di pulsioni, di immagini e di tendenze interiori intrecciato dagli altri attraverso i rapporti. Allora la persona giunge fino alla soglia liminare della sua realtà interiore, là dove il silenzio risuona di parole originarie, e dove il vuoto è denso di una Presenza rassicurante. Prendere il dominio della propria interiorità significa non essere più in balia del passato, né condizionati da meccanismi introdotti dagli altri, ma capaci di atti autonomi. La fede allora diventa abbandono in valori assoluti scoperti come ragione delle tensioni di vita, diventa fiducia in ideali supremi capaci di motivare tutta la nostra esistenza. Ciò avviene quando si è scoperto che nessuna persona, nessun oggetto e nessuna situazione della storia può rispondere in modo definitivo alla tensione che l’uomo porta dentro. È allora abitualmente che comincia in modo autonomo la ricerca di Dio, e la fede, qualsiasi sbocco questa ricerca abbia, acquista dinamiche religiose.

Si possono individuare tre tipi di fede adulta: quella nichilista, quella atea positiva e quella teista. Tutte tre possono assumere dinamiche assolute e rivestire forme religiose. Ma abitualmente è la fede teista a essere chiamata religiosa. Quando arriva nella esistenza il momento in cui è necessaria una decisione, tutte le forme di fede possono presentarsi con ragioni plausibili ma non sufficienti. Solo le testimonianze a disposizione e le verifiche vitali consentono una scelta di fede autonoma.

 

3.1. Fede nichilista

Quando l’uomo scopre in sé tensioni più grandi delle reali possibilità di risposte offerte dalla creazione o dagli altri, nasce la disperazione e 1’esistenza appare assurda. La posizione nichilista difficilmente può essere qualificata come fede, perché si caratterizza per la mancanza di fiducia. In senso generico può essere considerata il livello minimo della scelta di fede. Finché si continua a vivere e non si decide per il suicidio vi sono ancora alcune ragioni di speranza. Esiste almeno la speranza che le prospettive possano cambiare e che la fede trovi alcuni spazi per esercitarsi. Oggi la posizione nichilista diventa sempre più frequente, mentre quella atea positiva si fa più precaria. L’accelerazione infatti della storia e le possibilità immense di beni offerte dalla tecnica e dalla scienza consentono verifiche che in altri tempi richiedevano secoli per essere compiute. Accadeva così che facilmente una generazione intera poteva vivere nella illusione di progetti umani definitivi e di risposte storiche esaurienti senza possibilità di verifiche adeguate. L’alternativa perciò che oggi si fa sempre più chiara è tra la fede in Dio e la concezione nichilista o assurda della vita.

 

3.2. Fede atea

La fede atea positiva si esercita verso valori creduti al futuro. Si pensa a una società perfetta da realizzare, a programmi che porteranno ricchezze o felicità eterna, a un avvenire storico o ultraterreno nel quale saranno eliminati i mali oggi sofferti. Questa fede può rendere sopportabile ogni penoso presente solo quando offre ragioni per credere alla possibilità di futuro diverso. In tale caso il fondamento della fiducia è un’azione di creature che, sviluppandosi nella storia, rende possibile la realizzazione dell’ideale intravisto.

 

3.3. Fede in Dio

La feda teista si caratterizza per il fatto che il complesso dei valori perseguiti sono creduti già attuati in una Realtà, designata genericamente con il nome di Dio. Il fondamento della fiducia, che costituisce il nucleo centrale della fede, è considerata l’azione stessa di Dio che vuole partecipare la sua perfezione agli uomini.

La differenza tra fede teista e fede atea è molto rilevante ma, praticamente, non ha spesso incidenza perché solo poche persone esercitano veramente la fede in Dio. Molti sono convinti che Dio esista, ma solo pochi decidono nella propria vita perché si fidano di lui. La fede in Dio implica tre convinzioni profonde: 1. la tensione vitale che l’uomo avverte è fondata, la vita cioè ha un senso; 2. il senso non è dato da alcuna realtà creata, da alcuna persona che ci ama, da alcuna situazione della storia; 3. lo stimolo di vita ci perviene sempre nella storia attraverso persone e oggetti, che sono quindi eco di Parola eterna, riflesso di un Bene assoluto.

Per passare dalle convinzioni alla fede è necessario cogliere il significato dei valori creduti attraverso gesti concreti di fiducia. Molti, infatti, sono convinti che Dio esista, ma solo pochi giungono a compiere scelte nella propria vita perché si fidano di lui. Pochi riescono ad amare per la fiducia in un Bene già a disposizione dell’uomo e pronto a entrare nella storia umana a condizione di trovarvi ambiti di accoglienza e di apertura. Pochi ricercano la Verità o si impegnano per la Giustizia o si fidano della Vita al punto da sapere agire anche quando vengono meno tutte le altre ragioni per farlo, mossi dalla certezza di una Presenza fondante ogni tensione umana, capace perciò di darvi risposta in ogni circostanza. Solo allora la forma adulta della fede diventa fede in Dio. Quando manca l’esercizio della fiducia in Dio si innalzano idoli lungo i sentieri della storia e si passa da un altare a un altro a deporre i propri sacrifici vitali.

Non ogni credenza teista, quindi, si svolge in orizzonte religioso, diventa esperienza di Dio e giunge a essere fede teologale. Può fermarsi, infatti, alla superficie delle cose e rivestire di sacralità le realtà che ne sono lo stimolo. Esiste uno spazio intermedio tra la vita dispersa nelle cose e quella maturata nella fede teologale ed è lo spazio in cui la scoperta della condizione umana e delle sue dinamiche fa avvertire l’esigenza di rivolgere altrove lo sguardo, ma non consente ancora di cogliere la fonte originaria delle esigenze vitali e di caratterizzare così la vita secondo modalità trascendenti.

Occorre perciò indicare le condizioni delle esperienze di fede teista.

La prima condizione è che ogni situazione venga avvertita e vissuta con il riferimento esplicito a un Presente diverso dalle cose che si​​ presentano​​ e vengano ascoltati i richiami a un bene, a una luce, a una forza, che si offrono nella storia, ma che rimandano sempre oltre le risposte della storia.

La seconda condizione per una esperienza di fede teista, è un particolare atteggiamento di accoglienza che induca completa fiducia alle promesse della vita, come solide e definitive, fondate cioè in un Presente che non sollecita altri rimandi.

La terza condizione è che la situazione venga assunta completamente e non scavalcata in nome della trascendenza intravista o di un futuro atteso.

L’esperienza di fede in Dio, quindi, si ha quando, nella sua tensione di vita, l’uomo coglie un Amore che si offre dentro una situazione storica, e ne accoglie il dono, mai, in sé, pienamente esauriente, ma sufficiente per intravedere la sua fonte e per rinnovare la speranza in una risposta definitiva.

 

4. Fede teologale

Non ogni forma di fede in Dio ha caratteristiche teologali, perché può ancora essere centrata sulla iniziativa dell’uomo che cerca Dio. La fede in Dio comincia ad assumere dinamiche teologali quando si esercita come risposta ad una sua parola, ascoltata nella creazione o nella storia. Giunto al rapporto vitale con Dio, l’uomo avverte che la sua fede è come una risposta alla rivelazione divina.

L’uomo si sente avvolto dall’azione di Dio, e scopre che la sua ricerca è stimolata da una Parola che lo sollecita. La storia appare allora come una serie di eventi attraverso i quali la realtà si svela e la perfezione divina diventa​​ gloria.​​ La fede teologale è la fede in Dio giunta alla piena maturità perché ha acquisito la consapevolezza del suo principio ed è stabilita nel suo orizzonte. Gesù esprimeva questa consapevolezza quando diceva: «Le parole che io vi dico non sono mie. Il Padre compie in me le sue opere» (Gv 14,17) e quando nella preghiera al Padre diceva dei discepoli: «Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro» (Gv 17,8).

Quando l’uomo è cosciente di questa sua condizione e assume Patteggiamento corrispondente per consentire al Bene di diventare in lui gesto di amore, al Vero di esprimersi nelle sue parole, al Giusto di formulare in lui progetti di fraternità e di solidarietà, alla Vita di offrirsi come dono agli altri, allora egli comincia a vivere teologalmente. Non è sufficiente pensare a Dio quando si opera, né proporsi di compiere il suo volere, o di osservare la legge per vivere teologalmente. In prospettiva cristiana l’uomo di fede non è l’uomo perfetto dal punto di vista morale, ma è l’uomo che diventa trasparente all’azione di Dio, espressione del suo amore, sacramento della sua presenza. La fede teologale è l’atteggiamento che consente, appunto, di vivere questi meccanismi di trasparenza e di fedeltà all’azione divina. Questo è il modello di umanità religiosa come Gesù l’ha vissuta e proposta. Credere in lui significa assumere questi criteri, «fissare stabilmente la testimonianza di Cristo» (cf 1 Cor 1,6) in modo da poter dire con san Paolo: «Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16).

 

5. La fede in Cristo

La fede cristiana si differenzia dalle altre fedi religiose per il riferimento a Gesù di Nazaret, come testimone storico di Dio. La chiesa è la comunità che continua la tradizione sorta dall’esperienza religiosa di Gesù. Essa vorrebbe vivere la fede in Dio che Gesù ha vissuto in modo radicale ed esemplare come un testimone storico di Dio, «iniziatore e consumatore della nostra fede», come dice la lettera agli Ebrei (12,2).

 

5.1. La fede di Gesù

Si discute fra i teologi se si possa parlare della fede di Gesù. Coloro che utilizzano i modelli della neoscolastica lo negano. Il loro punto di partenza è il concetto di incarnazione come si è venuto configurando all’interno della scolastica. Il Verbo divino è considerato il soggetto operante in Cristo e quindi tutta la realtà umana è considerata trasformata dall’unione con Dio. Si pensa che la natura umana sia arricchita di perfezioni straordinarie come la visione di Dio, la scienza infusa, ecc., che impediscono l’esercizio di una fede. Anche la formula del concilio di Calcedonia (451: l’unità ipostatica e la distinzione delle nature) e i dati biblici vengono inquadrati in questo schema che oggi alcuni qualificano come​​ criptomonofisita.

Oggi si sta delineando una nuova cristologia più fedele al vangelo, che presenta la crescita reale della umanità di Gesù in tutte le sue dimensioni, e al concilio di Calcedonia, secondo cui l’unione avviene senza confusione di proprietà e senza mutazione di nature. Nella nuova prospettiva, alcuni episodi della vita di Gesù, prima insignificanti, hanno acquistato maggiore importanza e altri aspetti sono stati compresi in una luce nuova. Nell’orientamento​​ criptomonofisita​​ della neoscolastica l’espressione della tradizione che dichiara Gesù «in tutto simile a noi» (cf Eb 4,15; GS 22) veniva stemperata al punto che era difficile trovare nell’esistenza di Gesù ricostruita dai teologi una reale umanità, simile alla nostra. La teologia attuale, coerente con la sensibilità storica, dà invece largo spazio al cammino di fede compiuto da Gesù nella sua esistenza terrena. In questa luce appare il significato della preghiera di Gesù, che la scolastica non riusciva a capire compiutamente. San Tommaso, ad es., sosteneva che Gesù pregava per dare un esempio agli uomini, e per offrire una prova della sua realtà umana (III STh. q.21 «per nostra istruzione», a. 11, ad lum).

In realtà, come appare dai vangeli, la preghiera era per Gesù esperienza di incontro con Dio, era una ricerca reale della volontà del Padre, era un chiarimento interiore per decidere seriamente della propria esistenza. In altre parole, era espressione della sua fede e non solo stimolo per la nostra fede. Gesù ha vissuto una fede intensa e ha indicato così modalità autentiche della fede in Dio. Considerare Gesù come un testimone di Dio è accogliere la sua forma di fede nel Padre e farla propria, è assumere gli ideali di vita per cui egli è vissuto fino a morirne. Di fronte alla violenza degli uomini non si è ritirato indietro, ha continuato a proclamare il regno e ad esprimere nella propria carne l’amore misericordioso del Padre.

 

5.2. Cristo rivelatore di Dio

Credere perciò in Cristo significa ritenere che in lui Dio compie la sua rivelazione e rende perciò possibile una nuova modalità di fede in lui.

Giovanni esprime questa funzione attraverso le formule:​​ comunicare il Nome​​ e​​ rivelare la gloria.​​ Egli pone, ad esempio, queste espressioni sulle labbra di Gesù in preghiera: «Io ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo... Io ho dato a loro la tua parola... E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro... E io ho fatto conoscere loro il tuo nome, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,6.14.22.26).

I primi cristiani hanno scoperto in Gesù la possibilità di esercitare in modo diverso e nuovo la fede in Dio come Padre, principio e termine della esistenza umana. Il luogo di questa scoperta è stato l’evento centrale della sua storia: la Pasqua della sua morte e risurrezione. La potenza di Dio per la salvezza dell’uomo vi si è espressa, infatti, in tutta la sua ricchezza ed estensione da fare del Cristo, esaltato nella gloria, la rivelazione piena e il dono definitivo del suo Spirito di vita.

Sarà appunto lo Spirito di Dio a fissare i discepoli di Cristo nella fede e a renderli suoi testimoni (cf At 1,8).

Credere in Cristo è perciò un modo storico di esercitare la fede in Dio.

 

6. Ambiguità della fede religiosa

La fede religiosa e teologale si è prestata a frequenti ambiguità. Per limitarci all’esame della tradizione cristiana, i principali equivoci riguardano la riduzione della fede a semplice credenza o a pratica religiosa, la prospettiva soprannaturalista, la concezione statica e la pratica di tipo individualista.

 

6.1. Fede come credenza

Abitualmente quando si parla di fede nel nostro ambito culturale si intende quella che in termine tecnico viene detta​​ credenza.​​ Ci si riferisce cioè alle verità accolte per la fiducia posta in qualche persona autorevole. Anche il catechismo di Pio X presentava la fede come «la virtù soprannaturale per la quale crediamo alle verità rivelate da Dio non per la loro evidenza intrinseca, ma per l’autorità di Dio rivelante». In realtà, questo è solo un aspetto e per di più secondario e derivato della fede. Si possono avere, infatti, rette convinzioni e non esercitare la fede. D’altra parte molte verità, anche se non evidenti, possono avere una loro congruenza che le fa accettare senza esigere esercizio di fede. È sufficiente, spesso, che non esistano alternative plausibili alle proposte fatte perché esse vengano accolte senza difficoltà. Inoltre, tutte le dottrine complesse, in un primo momento, vengono fatte proprie per la fiducia in qualche persona autorevole.

L’esercizio della fede richiesta all’uomo per vivere ha ambiti molto più ampi della semplice accettazione di dottrine vere. La fede teista, di cui parliamo, perciò, non è semplice accettazione di verità rivelate, ma è l’esercizio di una fiducia in Dio che conduce poi ad accogliere come dono di Dio la verità emergente dalla storia e a volere il Bene che vi appare come sua volontà. In questa prospettiva sì comprende la definizione che il Vaticano II ha dato di fede teista: «Abbandonarsi a Dio totalmente prestandogli l’ossequio dell’intelletto e della volontà» (DV 5). Questa concezione giustifica la possibilità asserita dal Concilio che anche un ateo, che non accetta verità rivelate da Dio, possa avere una certa fede salvifica e quindi possa pervenire al regno di Dio (LG 16). Allo stesso modo si comprende l’affermazione di san Giacomo che anche i demoni conoscono la verità, ma non hanno fede salvifica: «Tu credi che esista un solo Dio? È giusto. Ma anche i demoni ci credono, eppure tremano di paura» (Gc 2,19).

 

6.2. Riduzione religiosa

È inoltre frequente che la vita di fede venga identificata con la pratica religiosa. La lotta di Gesù contro i farisei, la stessa polemica di Paolo contro i giudaizzanti, la sua dottrina sulla giustificazione per mezzo della fede e non delle opere della legge si collegano appunto a questa facile riduzione.

In realtà, è vero che la fede si esprime necessariamente in scelte concrete, «infatti, come il corpo senza lo spirito è morto, la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26), e la fede «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Tuttavia non sono queste a costituire la fede e tanto meno le pratiche rituali ad offrire la salvezza perché «noi, per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo» (Gal 5,5). Si possono infatti compiere pratiche religiose per interesse, per tradizione, per diversi altri motivi più o meno nobili, ma senza esercizio di fede.

 

6.3. Soprannaturalismo

Secondo categorie scolastiche, riprese dalle formule di molti catechismi, si dice che la fede sia un​​ abito soprannaturale​​ aggiunto alla realtà umana, un dono fatto da Dio in vista di una finalità superiore, una chiamata riservata ad alcuni. Oggi questa categoria non sembra necessaria e neppure utile per descrivere le dinamiche della fede. La GS parla di un’unica vocazione per tutti gli uomini, quella divina (GS 22). Non esistono, in questa prospettiva, due tipi di vita, uno naturale e uno soprannaturale, ma diversi momenti o diverse espressioni di un’unica vita che cresce ed è sempre radicalmente grazia. Corrispondentemente non vi sono due tipi di accoglienza umana dell’azione divina (della fede che salva), ma diversi momenti in un’unica fede che si sviluppa ed è sempre dono. In questa prospettiva la fede è l’atteggiamento di fiducia e di accoglienza indotto da coloro che ci comunicano vita in modo tale da farci crescere fino a scoprire Dio come principio e compimento della nostra vita. La fede non è un dono riservato solo ad alcuni, ma offerto da Dio a tutti, anche se gli strumenti del dono non sono sempre adeguati. In prospettiva dinamica, il modello soprannaturale non appare più necessario per interpretare la fede come grazia.

 

6.4. Concezione statica

La concezione della virtù infusa era sviluppata in un orizzonte statico. La fede veniva considerata come principio di dinamismo soprannaturale, ma come tale era già completo e perfetto. La fede invece è un processo. Essa assume forme diverse secondo le varie stagioni dell’esistenza umana ed esige l’allargamento costante dei suoi orizzonti. Anche la fede in Dio non ha sempre i medesimi contenuti. I valori assoluti cui ci si abbandona acquistano caratteristiche diverse secondo le dinamiche e le situazioni della storia umana.

 

6.5. Sensibilità individualista

Altro limite notevole nella riflessione sulla fede è la prospettiva individualista. Si considera la fede come una qualità delle singole persone, espressione della loro libertà. Di fatto la fede ha una essenziale dimensione pubblica: viene indotta da un ambiente familiare e sociale, si struttura attraverso i simboli delle comunità vitali nelle quali le persone crescono ed esige di esprimersi di fronte agli altri. La fede, in altri termini, viene accolta ogni giorno attraverso la testimonianza degli altri, diventa progressivamente struttura di una vita personale attraverso formulazioni pubbliche, verifiche comunitarie e continue conferme sociali, fino ad essere in grado di offrire testimonianze efficaci per la continuità del cammino storico della fede.

 

7. Dire la fede

Ogni fede per essere compiutamente vissuta deve essere detta. Una fede che non trova le vie della​​ confessione​​ si esaurisce ben presto. San Paolo, applicando questa legge alla fede cristiana, diceva: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore, infatti, si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (Rm 10,9-10). Dire la fede non è semplicemente esprimere una convinzione, ma è anche indicare un atteggiamento vitale, è manifestare la ragione di quella fiducia che consente ad ogni uomo di iniziare e di continuare a vivere.

 

7.1. Simboli di fede

Le realtà cui la fede si riferisce non possono essere dette compiutamente né direttamente. Sono sempre più grandi delle situazioni in cui l’uomo si trova e quindi più ricche della portata delle sue forme espressive. Per questo ogni fede ricorre ai simboli per esprimersi, anzi, esige momenti simbolici per mantenersi viva e svilupparsi. 1 simboli richiamano la memoria degli eventi attraverso i quali gli ideali sono emersi, ne anticipano nella speranza la piena attuazione e rinsaldano i rapporti fra i diversi soggetti che, insieme, debbono attuarne le esigenze. Ogni gruppo umano che abbia ideali da realizzare e traguardi da raggiungere, ha necessariamente anche simboli e rituali per dire la fede comune, per evocarne le ragioni, per rinsaldare i rapporti in ordine alla loro realizzazione e per riordinare così le interpretazioni delle quotidiane esperienze della vita. Ogni comunità umana attraverso i suoi simboli vitali si caratterizza, si struttura, e si rinsalda nell’unità. Anche per la fede religiosa i rituali sono i momenti più espressivi ed efficaci. La religione è appunto il complesso dei simboli che richiamano gli ideali assoluti e che ne verificano il significato nelle diverse fasi della crescita personale, ed è l’organizzazione operativa di quelle comunità che nascono e si sviluppano attorno all’esercizio della fede in Dio.

Vi sono tre tipi fondamentali di simboli per dire una fede: iconici, gestuali, verbali. Il credo appartiene all’ambito dei simboli verbali, i sacramenti e i riti all’ambito gestuale, le immagini e le raffigurazioni sacre all’ambito iconico.

 

7.2. Dire la fede suppone una cultura

Ogni formula simbolica ha due riferimenti essenziali: all’esperienza vitale, di cui parla, e all’orizzonte culturale, in cui è inserito come segno. I simboli, così, significano per il rapporto che hanno con le altre componenti del sistema espressivo (linguistico, rituale e iconico) e con le altre formule del complesso dottrinale cui appartengono. D’altra parte, l’orizzonte culturale, da cui trae significato ogni simbolo umano, è in continuo movimento. Dire la propria fede, perciò, non è mai riproporre semplicemente simboli antichi, ma è far scaturire da una esperienza di vita parole, gesti e immagini che richiamano tradizioni sorte da fedeltà di testimoni e che rivelano il senso di ciò che si vive. Dire la fede, perciò, implica, allo stesso tempo indicare gli eventi da cui trae valore ogni propria scelta di vita e tracciare gli orizzonti culturali da cui desumono significato i simboli utilizzati. Quando in un sistema culturale vengono introdotti nuovi elementi, in seguito a scoper-

te scientifiche, a esperienze storiche inedite e a modelli di pensiero prima impensabili, tutte le componenti di un sistema espressivo vengono mutate nei loro significati. Non si può supporre, perciò di fissare i simboli di una fede una volta per tutte. Ogni generazione deve imparare a ridire la fede secondo modalità armoniche con i modelli culturali del proprio tempo. Questo processo di adeguamento culturale, che oggi, in analogia al termine​​ incarnazione,​​ viene abitualmente chiamato​​ inculturazione,​​ resta una costante della vita di fede, una esigenza della sua continuità.

 

8. Trasmissione della fede: socializzazione ed evangelizzazione

Il dire la fede non è solo una dinamica interna alla sua struttura, è anche una esigenza della sua comunicazione. La fede come complesso di ideali per i quali ciascuna persona, fidandosi di testimoni, orienta la propria esistenza aU’interno di una comunità vitale, esige per natura sua di farsi dono ad altri, di comunicarsi. Non vi è società che non cerchi di trasmettere i propri ideali alle nuove generazioni, come non esiste popolo che, nel processo di unificazione dell’umanità, non sia chiamato a partecipare agli altri la ricchezza della sua tradizione.

Riflettere sulla pastorale della fede significa perciò anche individuare i meccanismi fondamentali attraverso i quali una comunità, esprimendo i valori in cui crede, giunge a trasmettere la fede alle nuove generazioni e agli altri popoli. Interrogarsi sulla pastorale della fede significa, quindi, interpretare e applicare alla fede alcuni meccanismi della socializzazione vissuti quotidianamente da ogni comunità umana nel suo interno e dai popoli nei loro rapporti.

La socializzazione nella fede si realizza quando i simboli utilizzati e i rituali compiuti sono sufficienti a indurre fiducia. L’efficacia dei simboli dipende dalla loro sintonia culturale e dalla autenticità delle esperienze che essi esprimono. La trasmissione della fede avviene quindi per induzione attraverso simbologie vitali armonicamente inserite nell’orizzonte culturale. Anche per la evangelizzazione la​​ inculturazione​​ è una legge fondamentale. Essa ha caratteristiche diverse a seconda che si realizzi in ambiti segnati da antiche tradizioni religiose o invece in ambiti di secolarizzazione. Il processo di inculturazione è molto complesso e non è un semplice adattamento esteriore.

Vi sono tre modalità principali nella trasmissione della fede: la testimonianza, la ritualità e l’insegnamento.

 

8.1. Testimonianza

La testimonianza è l’ostensione del valore di un ideale nelle situazioni quotidiane dell’esistenza umana. È l’espressione immediata della vita e dei suoi valori in simbologie concrete. La testimonianza non è il semplice buon esempio dato con comportamenti perfetti. Essa implica anche l’interiorità, l’adesione cioè a ideali autentici e la fedeltà nel loro proseguimento. Si possono avere, infatti, comportamenti perfetti senza esercitare la fede e senza aderire agli ideali corrispondenti. I comportamenti possono essere assunti per interesse, per conformismo, per compiacenza o per altri motivi, anche buoni, ma non sufficienti. In termini cristiani si può dire che non bastano le buone opere per la giustificazione. Gesù si riferisce a questa insufficienza quando, parlando del giudizio finale, dice: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,21-23).

 

8.2. Ritualità

Mentre la testimonianza si esprime attraverso simbologie immediate, il rito costituisce un ambito simbolico di secondo grado. Gli ideali accolti, infatti, non possono sempre essere tradotti in scelte storiche coerenti e adeguate. Vi sono dimensioni degli ideali abbracciati che riguardano il passato (testimonianze e realizzazioni storiche) o che richiamano il futuro (incompiutezze da superare, traguardi da raggiungere). Per la comunicazione di una fede, perciò, oltre alla testimonianza sono necessarie anche la memoria e la profezia. Esse non possono svolgersi che attraverso simboli, i quali presentano i contenuti possibili, gli sviluppi futuri degli ideali e ne richiamano il fondamento storico.

 

8.3. L’insegnamento

Ogni esperienza per essere vissuta compiutamente deve essere inquadrata in un sistema interpretativo. Nessun uomo, infatti, riesce a vivere se non interpreta ciò che sperimenta. Anche le situazioni più difficili possono essere vissute con profitto e serenità quando se ne scoprono le ragioni e si inquadrano in un ordine di razionalità.

La dottrina della fede appartiene appunto a questo ambito essenziale di ogni esperienza vitale. Non vi è quindi sufficiente trasmissione di fede se non si offrono spiegazioni dottrinali corrispondenti al livello culturale delle persone e con linguaggi armonici all’orizzonte del tempo.

 

9. Pastorale giovanile

Le ambiguità nella concezione della fede e le insufficienze nella sua pratica hanno notevoli conseguenze non solo nella valutazione delle sue dinamiche, ma anche nella pastorale e nella catechesi. Spesso ci si accontenta di diffondere le dottrine della fede illudendosi che ciò sia sufficiente a indurre atteggiamenti di fede religiosa. A volte ci si limita a organizzare pratiche sacramentali, senza preoccuparsi di fare dei gesti simbolici autentiche espressioni di fede. Semplificando le cose, si potrebbe dire che la pastorale giovanile deve sviluppare ambiti di testimonianza vitale, alimentare forme sempre vive di ritualità sacramentale e aprire molti spazi di riflessione per nuove proposte dottrinali.

 

9.1. Insegnamento

L’aspetto forse più organizzato e vivace in ambito cattolico è quello dottrinale. Vi è una fioritura straordinaria di scuole teologiche, vi sono forme capillari di catechesi per ragazzi e giovani e numerose iniziative culturali. Vi è una solida ed efficiente struttura scolastica per l’insegnamento religioso. Molte volte, tuttavia, i risultati non sono proporzionati a tanto dispendio di energie. Una delle ragioni sta nell’impianto generale della teologia e della catechesi seguite. Esse non hanno ancora assunto integralmente i modelli culturali correnti. Data la velocità dei processi culturali in corso, l’adeguamento ai modelli culturali (o inculturazione) deve essere costante. È facile invece che ci si adagi sulle acquisizioni del passato. Così che la catechesi ai ragazzi e agli adolescenti fa ricorso spesso a modelli propri degli adulti e non specifici della cultura giovanile. Ma più grave ancora è la generale arretratezza culturale delle proposte di fede. Anche la catechesi degli adulti soffre di queste carenze, per cui Paolo VI ha potuto lamentare come il dramma più grave del nostro tempo la distanza tra fede e cultura.

 

9.2. Rituali di vita

La vita sacramentale in questi anni dopo la creatività dell’immediato post-concilio è ricaduta in forme stereotipe e stanche. Sono sempre più numerose le lamentele circa l’insignificanza di molti riti liturgici e la insipienza di molte riflessioni ivi proposte. Credo che sia necessaria una revisione dei presupposti teologici che stanno alla base della pratica sacramentale. Molti utilizzano ancora modelli sacrali, se non magici, almeno miracolistici. Pensano ai sacramenti come a interventi straordinari di Dio. Invece sono i gesti attraverso i quali nella comunità ognuno svolge la funzione di comunicare vita ai fratelli e di stimolare la loro crescita. Per questo i riti sacramentali devono essere simboli della vita e dei suoi problemi. Non vi sarà induzione di fede intensa senza rituali di vita ricchi e fecondi.

 

9.3. Testimonianza ecclesiale

Ciò che spesso i giovani avvertono con maggiore frequenza è la insufficienza delle testimonianze ecclesiali, la carenza di scelte profetiche. I luoghi più significativi della testimonianza ecclesiale sono spesso marginali. Sono costituiti da comunità di accoglienza, da forme di volontariato di base, da strutture di solidarietà caritativa o da gruppi di preghiera. E sono quelli cui i giovani si rivolgono con maggiore frequenza e attenzione, ma che non hanno quella considerazione pubblica e non godono di quella rilevanza ecclesiale che darebbe alla loro testimonianza una maggiore efficacia e ufficialità.

Occasioni di scelte significative possono oggi essere l’impegno per la giustizia tra i popoli, la lotta contro la fabbricazione e il commercio delle armi, le iniziative concrete per la ristrutturazione delle industrie belliche, le opere di solidarietà ai disoccupati, ai carcerati, ai drogati, la vicinanza amorosa agli ammalati, agli anziani e a tutti gli emarginati. Non è sufficiente qualche gesto isolato per caratterizzare un ambito di testimonianza efficace. La comunità ecclesiale nella sua globalità deve esprimere scelte creatrici. Vi sono mali strutturali nel mondo che risultano dall’intreccio di scelte negative compiute da generazioni intere. Essi non possono essere sconfitti che da conversioni comunitarie, da decisioni che coinvolgano gruppi e comunità intere.

 

10. Conclusione

La fede è l’atteggiamento con cui ogni uomo esercita fiducia senza riserve verso coloro che gli comunicano vita. Quando questo atteggiamento raggiunge un fondamento assoluto e supera le contingenze della storia umana, diventa fede religiosa. Quando ha come termine un presente e non solo un futuro atteso, la fede religiosa è fede teista. Quando, infine, raggiunge la consapevolezza della condizione di creatura e scopre l’azione permanente di Dio soggiacente ad ogni azione umana e si esprime con atteggiamenti di accoglienza radicale per rendere efficace l’amore di Dio e visibile la sua presenza, la fede diventa teologale. L’uomo allora è nella condizione di poter testimoniare Dio. La pastorale giovanile dovrebbe creare quei climi vitali che favoriscono il processo di maturazione dei credenti: dalla fede vitale a quella religiosa, a quella teista e a quella teologale.

 

Bibliografia

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FEDE

1.​​ Nel linguaggio quotidiano il verbo “credere” e il sostantivo “fede” sono usati con diversi significati che si distendono fra i due estremi di un senso debole e di un senso forte. In senso​​ debole​​ esprimiamo col verbo “credere” di possedere un’opzione nient’affatto certa e sicura, pur essendovi talora molto affezionati. Il senso debole di “credere” e di “fede” non ci soccorre nell’illustrazione del significato della fede cristiana perché essa verrebbe degradata al rango di una opinione più o meno gratuita.

Esiste però anche un senso​​ forte​​ di fede (F.). In senso generalissimo essa costituisce una esperienza fondamentale di ogni uomo il quale, almeno per un determinato periodo della sua esistenza, è mosso da una fede originaria profonda che sottostà a tutte le sue scelte, specialmente a quelle nelle quali è in gioco il senso ultimo della vita. Su questa F. originaria indagano, fra altri, i filosofi della religione. Per B. Welte, ad esempio, esiste “una forma fondamentale ed elementare del credere che precede tutti i movimenti espliciti della nostra esistenza e li rende anzitutto possibili. Essa rende possibili anche tutte le forme concrete della fede”. Ma proprio questa F. elementare “è difficilissima da vedere perché ci è vicinissima” (B. Welte 1983, 29). Il sopraggiungere dell’angoscia e dello scetticismo attesta, a suo modo, che prima di essi c’era la F. “All’inizio — scrive Welte — non è né l’azione né il sapere. All’inizio è la fede” (ibid.,​​ 37). E questo perché rechiamo in noi un’apertura costitutiva verso una pienezza illimitata che non siamo in grado né di raggiungere né di conoscere appieno: essa può esserci soltanto manifestata e donata. Quest’apertura originaria che è all’origine di una F. originaria, e che si impone all’uomo come la condizione di possibilità di ogni sua decisione e azione, può essere descritta e configurata come “fede in un mistero nascosto, infinito e incondizionato che ci sorregge» (ibid.,​​ 57).

Essa ci permette di comprendere la F. cristiana come la sua determinazione storica. La F. cristiana è descritta appunto come “obbedienza” con la quale “l’uomo si abbandona tutt’intero liberamente, prestandogli il pieno assenso dell’intelletto e della volontà”, a Dio che si è rivelato e comunicato agli uomini in Gesù Cristo (DV 5). Per il cristianesimo, il “mistero assoluto” col quale ogni uomo deve in qualche modo confrontarsi e del quale si interessano le religioni, è una realtà personale, un TU, che si è rivelato storicamente nella vita, nel messaggio, nell’azione, nella morte e risurrezione, e nella singolare esperienza di Dio di Gesù di Nazaret.

2.​​ Possiamo fare un passo ulteriore servendoci della parola “credo” nel senso forte del linguaggio comune. Ci sono delle circostanze nelle quali diciamo ad un’altra persona, esplicitamente o implicitamente: io credo in te, io credo a te! Ammettiamo con sicura certezza determinate cose, pur non avendone una conoscenza diretta, fondandoci sulla testimonianza di colui in cui crediamo. In questo caso la nostra F. è anzitutto un rapporto di piena fiducia con un TU del quale accogliamo la testimonianza perché ci fidiamo e ci affidiamo a lui. In senso cristiano, credere è fidarsi e affidarsi a Dio che si è manifestato e comunicato agli uomini per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo, è fidarsi e affidarsi a Gesù Cristo, per mezzo del quale Dio si è manifestato e comunicato a noi. Gesù ha parlato e agito a nome di Dio, con la sua autorità. Credendo a Gesù (“io credo in te”) che parla e agisce a nome di Dio, noi ci fidiamo e affidiamo a lui in atteggiamento di ascolto e di totale disponibilità. Ma nello stesso tempo accogliamo anche il suo messaggio, cioè quanto ci rivela e propone a nome di Dio. Emerge così la struttura formale dell’atto di fede che la teologia ha sintetizzato in questa frase:​​ ad fidem pertinet alicui et aliquid credere​​ (spetta alla F. credere a qualcuno e qualcosa).

3.​​ La F. è anzitutto fede in un TU, è credere a Dio, a Cristo. Ce lo dicono, per l’AT, i verbi usati per esprimere il credere, verbi che comportano una relazione di fiducia e confidenza, di rifugio e di abbandono da parte dell’uomo nei confronti di Iahvè, il Dio della promessa e del patto. Credere è fidarsi di Dio, come hanno fatto Abramo, i profeti, gli autori dei Salmi, ecc., trovando in Iahvè la roccia sicura sulla quale è possibile costruire una solida esistenza. Credere è un rapporto con Dio “che include tutto l’uomo, nell’interezza del suo comportamento esteriore e della sua vita interiore” (A. Weiser 1975, 377).

Nel NT la F. resta il concetto più pregnante e l’espressione principale per caratterizzare il rapporto dell’uomo con Dio fatto di fiducia, speranza, obbedienza. Tale relazione avviene sulla base di ciò che Dio ha operato in Gesù Cristo, specialmente risuscitandolo dai morti. Per san Paolo il credere comporta fiducia e speranza, illustrate dall’esempio di Abramo (Rm​​ 4,1-25;​​ Gal​​ 3,6-18). Mediante la F. (e il battesimo) si stabilisce, grazie allo Spirito Santo, una solidarietà di vita e di destino col Cristo Risorto, nel presente e nel futuro (Rm​​ 6,3-11; 8,1-17;​​ Gal​​ 2,20-3,14.22-29). La F., secondo Paolo, esclude ogni gloria e vanto da parte dell’uomo: la giustificazione non è in nessun modo conquista dell’uomo, ma pura grazia ricevuta nella F. (Rm​​ 4,16). Con la F. l’uomo si affida fiduciosamente alla grazia di Dio in Cristo (Rm​​ 4,3. 16-22;​​ Gal​​ 2,6). Per Giovanni il credere è un’adesione fiduciosa a Cristo come Figlio di Dio (Gv​​ 4,21; 5,46; 6,30; 8,30.31.45.46; ecc.). La formula di Giovanni “credere a Cristo” riveste particolare interesse “in quanto trasforma il​​ credere a Dio ...​​ della F. veterotestamentaria nel​​ credere a Cristo” (J. Aliato 1981, 223).

4.​​ Come abbiamo detto, la struttura della F. comporta due momenti essenziali inseparabili, condensabili in questa espressione:​​ credo a qualcuno​​ (credo a, credo in, F. come fiducia, fides qua)​​ che mi attesta qualcosa​​ (credo che, F. come ritener-per-vero, fides quae). Il rapporto interpersonale di fiducia ed affidamento porta ad accogliere il messaggio proposto: dal “credo in te” sorge il “credo il messaggio che tu mi proponi” (cf B. Welte 1983, 96s). La F. ha così un contenuto che viene professato nel​​ Credo.​​ Israele confessava ed esprimeva i contenuti della sua F. (cf​​ Dt​​ 6,20-24; 26,5-9;​​ Gs​​ 24,2-13). Se nell’AT l’accento cade soprattutto sulla F. come fiducia, nel NT si sottolinea invece la F. come assenso e accoglimento del messaggio: credere significa accettare l’opera salvifica di Dio compiutasi in Cristo e annunciata dal kerygma cristiano. Nella lettera ai Romani, ad es., troviamo questa chiara formulazione: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm​​ 10,9).

A sua volta, il Vangelo di Giovanni, nel quale spesso i verbi “credere” e “conoscere” sono interscambiabili, evidenzia l’aspetto contenutistico della F. cristiana: si tratta infatti di credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, l’inviato e il rivelatore del Padre, ecc. (Gv​​ 8,24-28; 11,27.42;​​ 1 Gv​​ 5,1.5; ecc.). Riscontriamo sin dall’inizio del cristianesimo delle professioni di F. molto sintetiche come queste: Gesù è morto per i nostri peccati, Gesù è il Signore, Dio ha risuscitato Cristo dai morti. Si veda l’antichissima professione di F. richiamata da Paolo ai Corinzi con le significative parole introduttorie: “Vi ho trasmesso ciò che a mia volta ho ricevuto...” (1 Cor​​ 15,3ss). Il fatto che la F. abbia un contenuto articolabile e professabile sta ad indicare che essa non è un’esperienza soggettivistica, né un puro sentimento e tantomeno una vaga esperienza del sacro. La nostra F. si dirige ad una realtà oggettiva, al di fuori di noi, che noi accogliamo da chi ce la testimonia come buona novella.

San Paolo scriveva che la F. proviene “dall’ascolto” della predicazione (Rm​​ 10,17), e ammoniva a tenere strettamente unite fra loro l’adesione interna di F. e la sua professione esterna: “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm​​ 10,10). La F., proprio perché non è un’esperienza soggettivistica, dà origine alla Chiesa, la comunità “convocata” (questo indica la parola greca​​ ecclesìa)​​ dall’annuncio che risuona nel mondo a partire dalla predicazione degli apostoli. È significativo che negli​​ Atti degli apostoli​​ il credere, che fa seguito all’annuncio della parola degli apostoli, comporti l’aggregazione alla comunità dei credenti, la Chiesa (Ai​​ 4,4.32; 6,7; ecc.).

5.​​ La F. non è una prestazione che l’uomo possa far valere di fronte a Dio, bensì la rinuncia ad ogni prestazione con la quale si accoglie il Dio di Gesù Cristo come grazia assoluta. Per questo la F. è l’inizio e il fondamento sul quale riposa la nostra salvezza. La liberazione dal peccato, il nostro rapporto filiale con Dio e fraterno col prossimo, la futura risurrezione in un mondo liberato dalla sofferenza e dall’ingiustizia, ecc., sono realtà che possiamo solo ricevere da Dio. Nella F.​​ riconosciamo​​ infatti che la salvezza, già iniziatasi quaggiù e attesa in pienezza per la fine dei tempi, è dono gratuito d’amore, e​​ professiamo​​ che tale dono giunge a noi da parte di Dio per mezzo di Cristo risorto e del suo Spirito. Per poter essere accolta e svilupparsi, la F. richiede dunque un atteggiamento di gratitudine, di preghiera, di speranza e di amore. Fede, speranza e carità si implicano pertanto vicendevolmente (cf J. Alfaro 1981, 224s; B. Welte 1983, 97 e 119).

6.​​ Il tema della F. interessa direttamente la C. la quale mira a “nutrire e guidare la mentalità di fede” (RdC 38). Vera mentalità di F. si ha “quando c’è capacità di comprendere e di interpretare tutte le cose secondo la pienezza del pensiero di Cristo” (RdC 39). La C., si legge ancora nello stesso documento, “intende portare alla maturità della F. attraverso la presentazione sempre più completa di ciò che Cristo ha detto, ha fatto e ha comandato di fare” (RdC 30). La C. ha sempre riservato un posto privilegiato alla F., evidenziando, specie nei catechismi, l’aspetto contenutistico della F., quello delle verità da credere (cf ad es. il Catechismo di P. → Canisio del 1558, e il → Catechismo del Concilio di Trento del 1566), soprattutto quelle contestate.

Tale spirito durerà sino ai tempi recenti allorché il rinnovamento della C. riaffermerà che la C. mira a provocare la risposta integrale della F. e non solo a trasmettere delle conoscenze (cf J. Colomb,​​ Al servizio della fede,​​ 2 vol., Leumann-Torino, LDC, 1969-1970). Il Vaticano II, rinnovando il concetto di rivelazione (tramite le parole e le azioni di Cristo, Dio manifesta e comunica se stesso agli uomini in vista della loro salvezza), ha anche rinnovato il concetto di F. come risposta integrale dell’uomo a Dio fatta di fiduciosa donazione di sé, di accettazione del messaggio, di obbedienza (DV 5.8.10).

7.​​ Nella C. è necessario dare particolare rilievo ai seguenti aspetti della F.:

— La F. è incontro personale e comunione con Cristo (CT 5; RdC 58).

— La F. è incontro con Cristo il quale con la sua persona, messaggio, passione, morte e risurrezione, illumina, potenzia e risponde, talora in maniera paradossale, alla ricerca umana di senso, di liberazione, di vita e di comunione (cf il contributo soprattutto metodologico della GS del Vaticano II). Dice bene E. Alberich: “In Gesù Cristo, Dio dice all’uomo in forma intelligibile e credibile come si vive e perché si vive, qual è lo scopo della storia, verso quale realizzazione camminano i popoli” (Catechesi e prassi ecclesiale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 60). — La F. va sempre presentata nei suoi due aspetti principali di fiducia e di conoscenza. Priva di contenuti, la F. si svuota e perde la sua identità. Priva di configurazione personale, diventa un sapere senza vita, una pura ortodossia formale. Pur essendo entrambi essenziali, i due aspetti non hanno la stessa importanza: il credere a Dio, a Cristo è primario. Ha scritto san Tommaso d’Aquino: “Ciò che appare principale, e in qualche modo con valore di fine in ogni atto di fede, è la persona alla parola della quale si dà la propria adesione» (S. Th.,​​ II-II, q. 11, a. 1). — La F. va presentata e vissuta in modo non alienante rispetto ai compiti della vita e della storia. Per questo la C. deve promuovere l’integrazione tra la F. e la vita (cf RdC 52-55).

— L’annuncio della F. dev’essere differenziato: “L’integrità non dispensa dall’equilibrio né dal carattere organico e gerarchizzato” (CT 31). C’è una​​ gerarchia teologica​​ delle verità (cf UR 11), e una​​ gerarchia esistentiva,​​ relativa alle persone di un determinato ambiente e formazione (cf G. Bitter,​​ Quale fede trasmettere? Possibilità di una elementarizzazione kerygmatica,​​ in “Concilium” [1984] n. 4, 77). In questo contesto si colloca la proposta di K. Rahner di una formula breve della F.

— L’approfondimento della F. non è mai terminato. In particolare è necessario impedire oggi che la F. venga a trovarsi in un vuoto culturale, senza contatti autentici con la coscienza dominante. Occorre stabilire su solidi fondamenti la ragionevolezza dell’opzione di F., facendo leva sull’apertura costituzionale dell’uomo ad un senso assoluto (cf sopra, n. 1), e sulla figura di Cristo quale attestazione (soprattutto in virtù della risurrezione) di una sovrabbondanza di senso. Si trovano ottime pagine al riguardo nel Catechismo italiano dei giovani​​ Non di solo pane​​ (Roma, CEI, 1978).

— Negli ambienti cat. si parla di → “educazione alla fede”. Tale espressione, da intendere in modo strumentale, e non quale intervento diretto sulla F. che è dono di Dio, richiama l’attenzione sulla necessità di formare nel credente degli → “atteggiamenti”, cioè un sistema duraturo di valutazioni, di sentimenti e tendenze all’azione. Si tratta cioè di educare le dimensioni conoscitive, affettive e comportamentali che scaturiscono dalla F., come pure dalla → speranza e → carità. Conoscenza, affettività e azione sono parti integranti della “obbedienza della fede” con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente (cf DV 5; E. Alberich,​​ op. cit.,​​ 90-131).

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Franco Ardusso

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