EUCARISTIA

Luigi Della Torre

 

1. La questione messa-giovani

1.1. Oggettività del mistero celebrato e soggettività della partecipazione e fruizione

1.2. La messa nel complesso della vita cristiana

1.3. La liturgia della messa: opportunità partecipativa e interpretazione simbolica

1.3.1. Valorizzare le possibilità partecipative della messa

1.3.2. Iniziare al linguaggio simbolico della celebrazione cristiana

2. Motivi e simboli della messa per la formazione dei giovani

2.1. L’identità personale e la messa

2.2. La vita come compito e la messa

2.3. La collaborazione con gli altri e la messa

2.4. L’amore (di coppia) e la messa

2.5. La festa e la messa

 

L’eucaristia può essere studiata da diversi punti di vista. In sintonia con l’orientamento del dizionario qui la si accosta a partire della sponda dei giovani e dal loro modo di porsi nei confronti della messa, che comprende la liturgia della Parola e l’assemblea che celebra appunto l’eucaristia.

In breve, la prospettiva può essere indicata dalla formula​​ messa-giovani.​​ La lineetta posta tra i due termini «messa» e «giovani» sta a indicare una delle preposizioni articolate che si preferisce scegliere; dei, per, con. Con «messa​​ dei​​ giovani» si è inteso denominare, negli anni successivi al Vaticano II, quell’uso della messa che corrispondeva a certe attese giovanili, specialmente d’ordine espressivo-musicale, e che ha goduto breve stagione anche se ha rotto con abitudini secolari e aperto a più utili manifestazioni. Con «messa​​ per​​ i giovani» si intende un uso pedagogico della messa che tende a valorizzare ciò che nella messa può contribuire alla formazione cristiana giovanile, sia nelle forme rituali-espressive sia nei contenuti misterico-teologali. L’espressione «messa​​ con​​ i giovani», infine, indica una valorizzazione della presenza giovanile alla messa per rilevarne ed esaltarne gli aspetti più congeniali alla gioventù ma fruibili anche dalle comunità adulte.

In questa trattazione non si tende a privilegiare una di queste denominazioni, in quanto ciascuna esprime un aspetto parziale, suppure valido, di accostare la più importante celebrazione cristiana a quella componente della comunità ecclesiale che è in via di formazione ma è capace di autonome iniziative ed è portatrice di esigenze e valori che la comunità stessa non può disattendere.

 

1. La questione messa-giovani

Fin dal 1957 Karl Rahner (Rahner K.,​​ Santa Messa e ascetica giovanile,​​ in​​ Missione e grazia,​​ Ed. Paoline, Roma 1964, 221-270) poneva il problema della messa nei confronti dei giovani usando, criticamente, le esperienze del movimento liturgico, senza che fosse possibile fruire dei risultati della riforma del Vaticano II e della successiva riflessione. La validità della sua impostazione esige di riprenderla, integrandola con le successive opportunità.

 

1.1. Oggettività del mistero celebrato e soggettività della partecipazione e fruizione

Ammesso che la messa «è una realtà complessa e pluridimensionale» (p. 221), se c’è da attendersi da essa una varietà e molteplicità di risposte ai problemi formativi che pone l’educazione cristiana dei giovani, non è però da ritenere che questi siano derivabili apoditticamente, in modo aprioristico e valido una volta per tutte, dalla stessa realtà dommatica della eucaristia. In proposito è «indispensabile avere una idea chiara dei rapporti intercorrenti tra il sacramento considerato come culto oggettivo della comunità e la pietà soggettiva accompagnata da una determinazione personale» (p. 231), per cui «i sacramenti, e tutti gli altri elementi oggettivi racchiusi nel culto della Chiesa, sono stati voluti e costituiti in dignità da Dio unicamente affinché l’uomo offra la sua soggettività e il suo cuore a lui...

Perciò quando il sacramento, e quindi anche la messa, non possono effettivamente venir accostati e seguiti con una forte ed elevata partecipazione soggettiva (con maggior fede, speranza e carità), queste azioni di culto cessano parallelamente di essere significative e gradite a Dio» (p. 233).

L’accostamento, quindi, di una realtà sacramentale a una determinata età deve tener conto delle fasi della vita spirituale, dato che «certi fenomeni e certi atteggiamenti religiosi hanno il loro giusto e appropriato posto in una determinata fase della vita, mentre non lo hanno in un’altra» (p. 242).

Sarà pertanto doveroso per l’educatore comprendere quali valori e aspetti della messa corrispondano maggiormente alle attese giovanili e quali vengano percepiti, assimilati e realizzati con più attenta e pronta disponibilità. Ciò non significa trascurare la presentazione di altri valori e aspetti che in età successive avranno una loro fioritura, «ma un conto è seminare delle verità potenziali che in via generale permangono tuttora latenti, e un altro conto è pretendere subito la ben sviluppata attuazione, corrispondente all’età in corso, d’una data verità cristiana» (p. 248).

«Quale tipo di messa sia più immediatamente assimilabile dalla gioventù, bisogna dedurlo dall’indole della gioventù stessa... Allora la messa potrà essere veramente la concretizzazione sacramentale di ciò che realmente pulsa in quella vita» (p. 249).

Tenuto conto della psicologia giovanile e della interpretazione più congeniale ad essa della fede cristiana, K. Rahner giunge ad affermare che «per i giovani la messa rappresenterà piuttosto la festa pasquale della cristianità, il solenne banchetto della nuova ed eterna alleanza, il grande sacramento dell’azione di grazie, che convoglia tutta la creazione in un inno di lode a Dio.

Sarà per loro la festa fraterna della comunità, l’agape dell’amicizia e dell’unità col Signore vittorioso, il patto di eterna alleanza che attesterà la fedeltà di Dio nei nostri riguardi e la nostra fedeltà verso di lui» (p. 255). Tutti aspetti, rileviamo, meglio evidenziati dalla riforma liturgica e reperibili nei segni della celebrazione.

 

1.2. La messa nel complesso della vita cristiana

I successi e le speranze del movimento liturgico nei paesi di lingua tedesca, negli anni ’50, avevano portato teologi ed educatori a sostenere non solo la centralità della messa nella formazione cristiana ma addirittura la sua sufficienza esclusiva. Far entrare nella messa, educare a prendervi parte, sembrava sufficiente ad assicurare l’educazione alla fede e all’agire cristiano. K. Rahner reagisce a questo esclusivismo angusto, spiegando che «la cosa designata in uno qualsiasi e in tutti i sacramenti, la “res” prodotta e resa presente dalla parola “esibitiva” sacramentale, è presente e attiva anche sotto altre forme nella vita cristiana» (p. 225), al punto che «non si può nemmeno dare per certo che, a priori, per tutti e per ciascuno, Dio debba far scoccare l’ora più decisiva e polarizzatrice della vita proprio nel corso di questa azione sacramentale. La più intima e più profonda comunione con Dio in Cristo non è tassativamente e sempre la comunione sacramentale» (p. 226).

La formazione cristiana quindi deve avere più punti di riferimento, «centri gravitazionali a cui far capo» (p. 227), che possono variare di epoca in epoca e che possono essere diversi per le differenti persone. Nella strutturazione della vita spirituale, alla quale educare i giovani, debbono essere presenti, in forma esperienziale, vari riferimenti ecclesiali e personali, in modo da assicurare una scelta congeniale ai singoli. Comunque «la messa può e deve rivestire una funzione centralissima... e il cristiano tipico deve senz’altro collocare la messa in una posizione di centro, facendone un caposaldo essenziale per la sua vita religiosa» (p. 230). Ma nella formazione cristiana «non possiamo essere unilaterali, non possiamo impostare l’educazione del giovane cristiano come se nella sua vita egli non avesse altra risorsa che quella di attingere tutto dalla messa, sotto pena di non avere nulla... Dal punto di vista soggettivo ed essenziale, tale fissazione monomaniaca è errata e pericolosa» (p. 231).

Del resto la messa stessa non diventa feconda se non è accompagnata da altre pratiche spirituali — «l’educazione alla preghiera personale, l’esercizio della meditazione, l’abitudine al silenzio e simili pie pratiche sono necessari o utili preparativi a una più intensa partecipazione alla messa» (p. 237) — e se non «entrano attivamente in gioco la fede, la speranza, la carità, la gratitudine del cuore, l’adorazione di Dio zampillante dall’intimo nucleo della persona, la ricettività nei confronti della indulgente grazia di Dio» (p. 239). Solo in una educazione tesa alla formazione dell’impegno interiore, con l’uso dei mezzi che la prassi cristiana ha collaudato per tale compito, la messa acquista tutto il suo rilievo e la sua centralità.

 

1.3. La liturgia della messa: opportunità partecipativa e interpretazione simbolica

Quando scriveva, K. Rahner non disponeva della liturgia riformata ed era abbastanza critico nei confronti di una valorizzazione delle formule liturgiche per una partecipazione interiore e personale da parte dei giovani. Nonostante la riforma, alcune di quelle riserve sussistono, soprattutto riguardo al linguaggio con il quale si esprime l’eucaristia celebrata con i vari formulari della preghiera eucaristica. Ma è proprio affrontando tale problema che si potrà intravedere una possibilità di soluzioni, senza cercare scorciatoie apparentemente più suggestive ma, a lungo andare, illusorie. La formulazione di linguaggi pedagogicamente più validi, e che pongono il mistero eucaristico alla portata più immediata delle esigenze giovanili, può essere tentata e dovrà essere fatta in una corretta didattica: ma poi rimane il fatto celebrativo con il quale i giovani debbono misurarsi, e con il quale avranno a che fare con il resto della vita.

 

1.3.1. Valorizzare le possibilità partecipative della messa

La prima opportunità che la messa offre all’educazione dei giovani è la sua disponibilità, ed esigenza, a una partecipazione esterna che corre lungo tutta la celebrazione e che assume diverse modalità. La più immediata e semplice è quella dialogica, per cui l’assemblea reagisce a quanto le viene rivolto dal presidente o dagli altri ministri. Perché le risposte diventino segnali di una presenza consapevole e impegnata, è necessario che le proposte ministeriali siano ugualmente manifestazioni di un agire celebrativo responsabile e attento a promuovere la partecipazione assembleare. La messa non si regge da sé, comunque venga posta, ma è un «copione» che solo i celebranti, ministri e assemblea, rendono interessante e vivo.

La seconda opportunità pertecipativa è data dalla gestualità, poiché la liturgia è azione che ha come soggetto l’assemblea stessa. In realtà l’azione esterna della messa sembra concentrata nello spazio ministeriale — il presbiterio — per cui l’assemblea appare come il luogo dal quale si osserva l’agire dei ministri. Si dovrà far scoprire ai giovani che l’azione propria della liturgia è soprattutto interiore, e che anche lo sguardo credente su ciò che avviene suscita un movimento di interna adesione che configura un vero profondo agire. Ma con gruppi giovanili può essere opportuno estendere la gestualità al di là di ciò che è prescritto, associandoli più dinamicamente all’azione che si svolge prevalentemente in presbeterio.

La terza opportunità partecipativa è offerta dal canto che coinvolge tutta l’assemblea in alcune acclamazioni (alleluia, santo, ...), o in esecuzioni che accompagnano azioni rituali (ingresso, comunione...). Il gusto di cantare, di fare esecuzioni di fronte ad altri, di esprimersi in modalità musicali congeniali, dovrà cedere alle esigenze di un cantare utile, adeguato al momento celebrativo, come servizio a tutta l’assemblea, tenendo conto della cultura musicale delle varie età. Se il canto costituisce uno degli apporti più creativi alla messa, nel quale i giovani possono esprimersi con maggior intensità, bisogna vigilare perché non diventi espressione autonoma, che interessa e gratifica i giovani per sé stesso e non come elemento partecipativo ad un’azione della comunità nella quale essi sono presenti.

La quarta opportunità partecipativa è quella ministeriale, di servizi resi durante la celebrazione sia al presidente sia all’assemblea. La disponibilità generosa al servizio come l’ambizione di svolgere un ruolo riconosciuto debbono essere valorizzati in modo che a turno, in diverse celebrazioni, a tutti i giovani sia offerta la possibilità di svolgere un ministero, possibilmente a essi congeniale.

 

1.3.2.​​ Iniziare al linguaggio simbolico della celebrazione cristiana

Cresciuti in un ambiente scolastico che privilegia la presentazione intellettuale della realtà, formati cristianamente nei gruppi dove la catechesi viene offerta soprattutto in termini dottrinali, anche se poi si trovano in contesti comunicativi fortemente simbolici, i giovani sono sprovveduti di fronte al linguaggio proprio della celebrazione cristiana. Tale carenza forse si spiega anche con il fatto che l’età infantile, nella quale si pretendeva di limitare l’iniziazione sacramentale cristiana, non è adatta a sviluppare la percezione simbolica, e che l’età preadolescenziale è troppo presa da problemi personali per essere disponibile a un approccio simbolico a realtà oggettive. La giovinezza quindi rimane spesso l’unica possibilità offerta ai cristiani per una introduzione consapevole al modo proprio di comunicare della liturgia cristiana, attraverso una iniziazione al simbolismo sacramentale. Per molti nella vita non si danno, poi, altre occasioni.

Nonostante la diffusa formazione tecnico-scientifica, i giovani non sembrano avere attualmente preclusioni al linguaggio poetico e allusivo con il quale vengono accennate e richiamate realtà che non sono alla nostra immediata portata. Il largo consumo di forme musicali, la presa di manifestazioni teatrali e cinematografiche, l’accettazione senza problemi dell’arte moderna, la percezione immediata di proposte pubblicitarie rendono i giovani sensibili e recettivi ai messaggi formulati nei modi indiretti e non didascalici. Questa disponibilità, comunque, non è ancora capacità interpretativa di fronte al linguaggio simbolico della liturgia, per il quale si deve avere una specifica formazione. Anche perché i messaggi sacramentali sono decodificabili all’interno di una visione di fede e sono percepibili da chi è pronto alla conversione della vita.

La messa, come qualsiasi altra forma celebrativa cristiana, è «leggibile» all’interno della alleanza storica che Dio ha stabilito con il suo popolo, ed è carica di segni che rievocano l’azione salvifica compiuta da Dio con il popolo d’Israele e definitivamente in Gesù Cristo. Segni come l’assemblea, la lettura della Bibbia, il pasto d’alleanza, la memoria e il rendimento di grazie, il sacrificio e la comunione sono presentabili e decodificabili solo attraverso la narrazione biblica, continuamente attualizzata nella storia sociale della Chiesa e in quella personale di ciascun credente. Tutte le vicende di tale storia, che giunge sino a noi, coinvolgono profondamente coloro che, attraverso l’ascolto e la fede, accettano di diventarne protagonisti. La difficoltà del linguaggio sacramentale perciò non è solo d’ordine intellettivo, bensì di ordine esistenziale, perché la vita stessa è interpellata e impegnata.

Se questo aspetto impegnativo nella comprensione del simbolismo cristiano è un ostacolo, per la naturale ripugnanza a mettersi in discussione e a cambiare veramente, nel caso dei giovani può essere una opportunità perché essi si dedicano con maggior rigore a ciò che li impegna fortemente. Capire la messa per viverne i messaggi salvifici che ne scaturiscono può essere un incentivo a dedicarsi a ciò che vale veramente nella vita.

 

2. Motivi e simboli della messa per la formazione dei giovani

La messa cattolica è un organismo complesso in cui confluiscono molti simboli della rivelazione-redenzione e si intrecciano numerosi motivi di esistenza ecclesiale e di proposta cristiana. Cercarvi itinerari per la formazione giovanile è possibile, ma ciò richiede una corretta e completa visione della messa, nella sua strutturazione liturgica e nella sua interpretazione teologica, e una caratterizzazione dell’età giovanile, per la quale cogliere alcune esigenze e valori. Per questo secondo aspetto tutto il «dizionario» contiene descrizioni e valutazioni, per cui non mi cimento augurandomi che gli «angoli visuali» scelti corrispondano all’insieme o almeno risultino utili per gli educatori.

Sul primo aspetto, organicità e complessità della messa, ricordo qui solo che la messa come azione comprende: una assemblea presieduta e servita da ministri, la liturgia della parola di Dio strutturata in modo da favorire il dialogo della fede, la liturgia conviviale eucaristica impostata in modo tale da supporre una partecipazione al convito e a tutto ciò che in esso avviene. In una teologia prevalente sino al Vaticano II, e recepita nella catechesi consueta, tutto questo organismo celebrativo era considerato sotto l’aspetto tematico di alcuni concetti — presenza reale, sacrificio, comunione — che erano spiegati dottrinalmente, senza che si prendesse una posizione teologale proprio nei confronti di tutta la celebrazione, analizzata nelle sue parti e nelle sue componenti.

Qui presumo di esporre un metodo di acco-

stamento dei giovani alla messa che tende a rispettare la celebrazione nella sua globalità, tracciando cammini che tengono conto di alcune attese giovanili o che sviluppano valori particolarmente validi per i giovani. Nati dalla riflessione a tavolino, questi schemi formativi hanno bisogno della verifica nella realtà educativa.

 

2.1. L’identità personale e la messa

Al giovane in cerca di una sua identità personale, di riconoscimento da parte degli altri della sua personalità, di una affermazione di sé nel contesto comunitario, la messa non sembra offrire possibilità positive, perché la legge della sua espressione è quella della collettività, dalla quale sono escluse le iniziative singole e le emergenze singolari. Il celebrare è già stabilito nelle parole che si debbono pronunciare e nei gesti che si debbono eseguire, per cui la ripetitività sembra essere una condizione dalla quale non si sfugge e che rende insopportabile questa attività religiosa ai giovani in cerca di loro spazi di espressione e affermazione. D’altra parte, il giovane cerca di realizzare le manifestazioni di sé all’interno di un suo gruppo nel quale essere riconosciuto e accettato, per cui volentieri assume un gergo e un comportamento che lo rendono solidale, sino al gregarismo. L’essere cristiano richiede da una parte il comprendersi come chiamato da Dio, nella propria irripetibile identità personale, e dall’altra l’accettare una comunità nella quale realizzare la propria vocazione personale. L’identità cristiana ha un fondamento battesimale che, mentre costituisce la persona nella relazione con il Dio trinitario, rendendola responsabile di una storia salvifica, la inserisce in un corpo storico-sociale ben concreto, la Chiesa, rendendola corresponsabile di storie comuni. Nell’assemblea liturgica il giovane deve essere reso capace di realizzare questa duplice esperienza: convocazione da parte di Dio e davanti a lui, l’assemblea è luogo di singole personalità che hanno accettato di realizzare in sé stesse il progetto divino; riunione rituale della comunità, l’assemblea è luogo di rapporti interpersonali che si modellano secondo forme stereotipe — si compiono dei riti! — ricche però di significati da realizzare con originalità nella vita.

Nella liturgia della Parola, Dio si rivolge direttamente a ciascun fedele nell’assemblea cercando di stabilire un dialogo con lui. «Nei libri sacri — dice la​​ Dei Verbum​​ al n. 21 — il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi»: nella struttura simbolica della liturgia della Parola i fedeli hanno l’esperienza di conversare con il Dio dell’alleanza e il Gesù del vangelo, ma la percezione tematica di questo dialogo esige che i fedeli siano capaci di ascolto credente, interpretativo e attualizzante. 11 testo biblico diventa parola che Dio dice a me se io lo so interpretare come parola attuale di Dio nella mia situazione. Vi è in proposito una inesperienza secolare (millenaria?) del popolo cristiano, e i giovani debbono essere formati a tale interpretazione attualizzante credente. Per questo è opportuno che nella messa di gruppo ci si soffermi con attività dialogiche per rendere significative le letture bibliche. Certamente vi è, di norma, una omelia che dovrebbe aiutare a tale interpretazione, facendo cogliere all’assemblea ciò che Dio dice alla comunità riunita. Ma decisivo è il lavoro del singolo che riferisce a sé tale interpretazione.

La risposta alla parola detta da Dio trova, la domenica, una espressione formale nella recita del Credo, e una più spontanea nella preghiera dei fedeli.

Personalizzare la fede e la preghiera, anche ascoltando intenzioni proposte da altri, è un altro obiettivo della formazione liturgica, che in particolari circostanze stimolerà i giovani a dare espressione alla corrispondenza personale alla parola divina percepita. Il giovane deve scoprirsi come credente che riceve messaggi e vi risponde, all’interno di quello che è il dialogo rituale di Dio con il suo popolo. La personalizzazione attuata in questa parte della messa, porta il giovane a scoprire la sua identità personale cristiana come soggetto in dialogo con il Signore, in crescita verso la realizzazione di una promessa che è pienezza di vita.

Il rapporto interpersonale con il Signore si fa più intimo alla mensa eucaristica. Qui si fa l’esperienza, nella fede, di essere commensali a un banchetto celebrativo degli interventi divini. L’aspetto di «memoriale» della eucaristia dovrà essere fatto scoprire al giovane, passando attraverso i riti memoriali della storia biblica, sino a comprendere il significato di attualizzazione sacramentale, per noi, del pasto eucaristico. Le varie fasi della storia della salvezza e il loro momento culminante in Cristo si ripropongono, in maniera reale anche se in forma simbolica, al credente perché in esse si senta coinvolto e formato. Il giovane può vivere, in ogni partecipazione sacramentale al banchetto, l’aspetto della storia salvifica che in quel momento maggiormente corrisponde alla sua situazione, e trovare così l’identità di salvato per inserirsi con responsabilità nel progetto divino. Ciò che è stato ascoltato e ricevuto attraverso la Parola, ora viene accolto e fatto proprio nel contesto più amicale e profondo: un incontro conviviale che giunge all’assunzione dell’ospite invitante come cibo.

Il rapporto personale e personalizzante con Gesù Signore, indispensabile per costituire l’identità personale del cristiano, trova nella comunione eucaristica la forma più intima e comunicativa. Diventa quindi importante educare il giovane a trovare in questo momento l’occasione delle sue decisioni personali, delle sue scelte qualificanti, ma anche dei suoi sfoghi per delusioni patite e delle sue riprese per una coraggiosa fedeltà. Certamente, come ha detto K. Rahner, i momenti di questa interiore consapevolezza del rapporto con Cristo non sono necessariamente dati dal sacramento, ma ad esso bisogna saperli condurre, per riformulare propositi e impegni.

 

2.2. La vita come compito e la messa

La comprensione e l’accettazione di sé, come persona di fronte ad altri, va di pari passo con l’assunzione responsabile della vita come un compito da svolgere, come un’occasione per dispiegare le proprie capacità e di realizzare una esistenza che abbia un senso. Dal punto di vista cristiano è il problema della vocazione, cioè di quelle parole che Dio dice a ogni persona perché conduca la sua storia in modo fecondo per gli altri.

Dal punto di vista socio-culturale, e anche economico, è il problema della professione, cioè di un lavoro che sia possibile nel proprio contesto socioeconomico, ponendo in atto le proprie attitudini e inserendosi nella complessa organizzazione del mondo odierno. Il giovane si affaccia alla vita sociale con ricchezza di idealità, ma spesso privo di concretezza esperienziale per cui delusioni e insuccessi sono normali. La vita associata, imprenditoriale e politica, poi, è tale da spegnere ben presto ogni idealità etica e da assorbire il giovane in una prassi egoistica, arrivistica e consumistica.

La partecipazione consapevole e regolare alla messa dovrebbe accompagnare il giovane nel suo non facile cammino di trovare il suo posto nella società, anche in situazioni professionali non gratificanti e in circostanze che feriscono la sua sensibilità etica e il suo senso di giustizia. Egli dovrà essere educato a vedere in Gesù il Messia di Dio, venuto per realizzare le promesse di Dio e offrircene un assaggio anticipatore, e a considerare la Chiesa come il popolo messianico che, con la fede e nel battesimo, si è assunto il compito di mantenere viva nella storia la prassi messianica di Gesù. Dato che in questi anni sono venute meno le ideologie totalizzanti e trasfiguranti, che si proponevano come nuovi messianismi terrestri e pretendevano di interpretare la storia e di guidarla, si fa più urgente riempire il vuoto di idealità politicoutopistiche con proposte concrete di un messianismo cristiano che, se abbisogna di una continua elaborazione culturale e di attente mediazioni socioeconomiche, richiede anche un continuo sostegno etico e spirituale. Nella formazione cristiana in questo senso si dovrà andare contro corrente, cioè in direzione diversa da una consueta e diffusa mentalità non ancora rovesciata da pur ripetute affermazioni magisteriali. Nella assemblea domenicale si deve condurre il giovane a vedere la riunione del popolo messianico che risiede in un luogo e che si presenta all’appuntamento con il suo Signore nel giorno in cui Dio Padre, con la risurrezione dai morti, «ha costituito Signore e Messia» il Gesù crocifisso (At 2,36). Le varie assemblee del popolo di Dio, nella trafila che ha portato alla Chiesa, sono incontri con il Dio dell’alleanza che proclama le sue consegne al popolo perché sia «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6) di fronte alle genti. Se Dio elegge, libera, santifica, ciò è sempre in vista di un compito. Non vi è solo la questione della salvezza personale o di gruppo. Nel dialogo dell’assemblea con il suo Signore, la parola divina non è solo di misericordia e di giudizio per la vita morale e religiosa personale; essa è chiaramente in funzione di un comportamento da assumere nei confronti del proprio ambiente e di un compito da svolgere. Le parole profetiche, sapienziali ed evangeliche, sono dure per chi vive neghittosamente, senza concludere, e stimolano a una esistenza che sia feconda di bene per gli altri.

La comprensione di questa Parola è per il giovane uno stimolo continuo a prepararsi e ad assumere compiti, con generosità e coraggio, avendo un modello in Gesù, il Messia, che nella Sinagoga di Nazaret vede tracciato il suo cammino nel testo di Isaia (Lc 4,16-21). La vita di Gesù si dispiega concretamente, nelle situazioni storiche in cui vive, come missione liberatrice, sanatrice, rinnovatrice... tesa ad anticipare in terra il Regno di Dio, cioè un modo di essere insieme nel quale si riflette ciò che Dio pensa, desidere e fa. Questo compito di restaurare i rapporti umani, di dare speranza alle persone, di porsi a servizio dei più bisognosi, di camminare verso una convivenza fraterna e gioiosa è il progetto che Gesù consegna ai suoi discepoli.

Nella messa ciò non è solamente proclamato e interpretato nella celebrazione della Parola. Esso è simboleggiato nel suo esito conclusivo ed è ricordato, sacramentalmente, nella vicenda che la realizzazione di tale progetto ha comportato per Gesù. Il segno messianico per eccellenza è il banchetto imbandito, nel deserto, per una folla affamata, per un intervento prodigioso di Gesù ma con la precisa e richiesta collaborazione dei discepoli (Mc 6,33-44). In questo senso il banchetto eucaristico, preparato dalla comunità con la presentazione dei doni — pane e vino — ma ridonato con infinita generosità da Dio — Corpo e Sangue di Gesù — è il segno storico del Regno realizzato seppure parzialmente: resistenza conviviale, nella condivisione dei doni preparati e ricevuti, con un impegno reciproco di pace e di servizio. A livello simbolico-sacramentale l’esito del Regno messianico è celebrato come impegno a realizzarlo nella vita.

Ma la storia di questo Regno messianico ha comportato il rifiuto da parte umana, manifestatosi nella condanna di Gesù, come bestemmiatore e sovvertitore, e nella sua esecuzione capitale. La croce manifesta che il mondo non accetta il riordino messianico dei rapporti umani, che preferisce mantenere le relazioni di oppressione e sfruttamento, che infierisce violentemente su chi si rende fautore di tale progetto. Il popolo messianico è avvertito: potranno avvenire rivoluzioni e avvicendamenti di potere, ma la restaurazione messianica è una illusione che porta all’insuccesso. Eppure il progetto di Gesù ha camminato nella storia, per la potenza dello Spirito di Dio che l’ha risuscitato dai morti e che continua a vivificare la Chiesa. Dall’eucaristia, come celebrazione del mistero pasquale, il giovane deve trarre la convinzione che assumersi il compito di collaborare con Dio per instaurare il suo Regno è vincente, nonostante le delusioni e gli insuccessi. Questo non solo come messaggio che infonde fiducia, ma come azione simbolica, conviviale e comunionale, che dona la forza dello Spirito di Cristo.

Nelle preghiere eucaristiche cattoliche dopo la espressione del memoriale vi è un verbo che esprime questa volontà decisa di impegnarsi nella direzione messianica, seguita da Gesù: «Noi ti offriamo». L’azione offertoriale-sacrificale che sul piano simbolico è presentazione-dono a Dio dei segni sacramentali significanti il Cristo, vuol esprimere i sentimenti biblici più autentici dei credenti: ciò che Dio gradisce maggiormente è una vita impostata secondo la sua parola, obbediente alla sua volontà. Ciò appare lungo tutta la Bibbia, da un testo arcaico (1 Sam 15,22-23) sino alla interpretazione della morte di Cristo di Eb 10,1-10, giungendo a vedere la vita cristiana che discerne ed esegue la volontà di Dio come «culto spirituale» (Rm 12,1-2). Il giovane deve essere formato a comprendere il vivo senso cristiano del linguaggio sacrificale, che spesso anche nelle preghiere eucaristiche rischia di essere inteso in senso proprio e non metaforico, per capire che ciò che Dio chiede è una esistenza conformata alla prassi messianica di Gesù.

Nell’opera educativa si dovrà aiutare il giovane a trovare e scegliere vari modi di impegno volontario nei quali egli si pone a servizio degli altri per collaborare alle anticipazioni del Regno. Nel contesto attuale, fra di esse devono annoverarsi, oltre alle iniziative assistenziali e promozionali, anche quelle tese alla «salvaguardia della natura», o le iniziative ecologiche per un miglior rapporto con la natura e per consentire alle future generazioni un sereno godimento della creazione. Ma l’impegno più difficile è quello di aiutare i giovani a trovare una comprensione e un esercizio messianici della loro attività lavorativa. Come si coniuga la loro attività professionale, che svolgono o alla quale si preparano, con l’impegno di promuovere il Regno? In proposito non si potranno avere impostazioni puramente ideali, essendo la storia ricca di compromessi, anche se la capacità di giudizio e il discernimento dovranno essere tenuti all’altezza della parola evangelica. La messa contribuisce, col suo linguaggio simbolico e con la sua ripetizione, a mantenere viva la tensione verso la vita come compito a rispondere alle concrete attese di Dio nella storia.

 

2.3. La collaborazione con gli altri​​ e la messa

L’individualismo giovanile nella realizzazione di sé e nell’assolvimento dei compiti è ben noto, anche nella sua forma di gruppo. Non si tiene conto dell’esperienza altrui, si pensa di risolvere i problemi da solo o da soli, ci si butta in imprese ardite senza adeguata riflessione o assicurata collaborazione. Un difetto che può, a volte, essere un pregio, perché diversamente tante opere non si comincerebbero e tanti compiti non troverebbero fautori. Persino le messe con i giovani registrano queste qualità della collaborazione giovanile: essi fanno quello che si sentono, lo fanno come pare a loro, e spesso senza tener conto degli altri, che magari costituiscono la maggioranza dell’assemblea. La comunità cristiana, che ha bisogno delle iniziative giovanili che la destano e la rinnovano, non trae però tutto il giovamento da questo spontaneismo individualistico e i giovani stessi non traggono il vantaggio che deriverebbe da una maggiore attenzione agli altri.

È importante, agli effetti di una formazione cristiana equilibrata, che i giovani siano posti in condizione di rendersi conto proprio come il celebrare cristiano esiga attenzione agli altri, rispetto di ruoli, spirito di servizio, intesa operativa, spirito di collaborazione. Tutto ciò si sintetizza nella comprensione e nell’accettazione dell’agire rituale come forma di consenso alla tradizione della comunità e al riconoscimento dei suoi valori. Facilmente negli ambienti giovanili si diffonde un senso di disprezzo per l’agire rituale, che poi viene compiuto con atteggiamenti superficiali e di sufficienza. Quando a ciò non sono condotti anche dalla valutazione e dal comportamento dei loro educatori.

Certamente il rito è una convenzione sociale, scelta come adeguata a esprimere certi contenuti spirituali che caratterizzano e strutturano, interiormente, la comunità. Può scadere in ritualismo quando è compiuto per abitudine o prescrizione, senza esprimere alcun valore significativo per tutti. Ma una comunità priva di riti si condanna a una sorta di afasia comunicativa, dato che solo pochi sanno creare le parole e i gesti adatti in certe situazioni. Come ogni dato culturale, anche il rito è sottoposto a decadimento, evoluzione, mutamento sino alla creazione di nuove espressioni rituali. Fino a che non vi sono nuove proposte rituali, ritenute adeguate dalla comunità per esprimere i valori in cui crede, è necessario esaminare, assumere, interpretare le usanze rituali vigenti, rendendole significative con la carica umana e lo slancio di spontaneità di cui i giovani sono capaci. Non sarà tempo perso soffermarsi con i giovani ad esaminare i gesti e le parole rituali della messa per acquisire una capacità interpretativa, alla luce della tradizione biblica e nel contesto ecclesiale.

Questa ricerca fa capire che ogni generazione giovanile, per quanto portatrice di speranze e di attese, deve anzitutto confrontarsi con la comunità adulta, con le sue usanze e i suoi valori. In ciò che riguarda la liturgia, la stessa comunità adulta ha ricevuto le forme usate da una tradizione vivente all’origine della quale vi sono il Signore Gesù, le comunità apostoliche e altri cristiani che di volta in volta hanno ricevuto e tramandato, anche cambiato e creato... ma sempre con l’intenzione di trasmettere valori cristiani ed ecclesiali. Data la facile perdita di memoria storica, conviene informare i giovani che questa nostra età ha conosciuto una riforma liturgica che ha portato l’agire rituale cristiano a maggior essenzialità. Assumere il rito nella fede non significa solo eseguirlo, ma conferirgli tutto il senso che esso ha nella comunicazione liturgica con gli altri. Il rito è una forma di collaborazione prestabilita, che rende ciascuno libero e responsabile di riempire i gesti di significati personali e di corrispondere con gli altri su lunghezze d’onda spirituali. Si pensi al saluto fra presidente e fedeli o al gesto di pace.

Entrare nell’assemblea e compiere i riti vuol dire farsi accogliere da altri e accogliere gli altri in modo cordiale e fraterno, ed esige un comportamento che mostri di riconoscere in quella gente riunita il corpo di Cristo. Proprio questo non riconoscimento, e il fatto che ciascun gruppo pretenda di partecipare alla Cena del Signore rimanendo associato nei propri interessi e nei propri gusti, motiva il rimprovero di Paolo ai cristiani di Corinto: «Le nostre assemblee vi fanno più male che bene» (1 Cor 11,17-29). Per il quarto evangelista, che nella cena pasquale sostituisce il racconto dell’eucaristia con la lavanda dei piedi, proprio la celebrazione eucaristica deve realizzare il significato del gesto di Gesù: accogliere gli altri, come sono, ospitandoli nella propria interiorità, dandosi loro in gesto di umile servizio (Gv 13,1-17). Su questi brani biblici i giovani dovranno essere condotti a riflettere e meditare, in relazione al loro stare nella assemblea liturgica e al loro modo di porsi nella comunità ecclesiale. Collaborazione o esibizione? si potrà domandare loro a proposito di ciò che fanno nelle messe nelle quali hanno assunto il servizio del canto. La cultura musicale dell’assemblea è quanto mai molteplice e varia, spesso scadente e banale. Valutare i canti anche tenendo conto di tale cultura; offrire musiche ed esecuzioni che non feriscano e scostino; accettare di dialogare musicalmente con l’assemblea; proporsi un programma che educhi ed elevi tutti... sono obiettivi da proporsi, consapevolmente, con i gruppi giovanili, udito anche il parere delle altre età. Come diventa educativo anche il cercare canti che siano adeguati ai vari momenti della celebrazione, per evitare forme esibizionistiche gratuite, e imparare a coordinare le proprie prestazioni all’insieme celebrativo e comunitario.

Anche attraverso queste modalità rituali, di contorno ma non secondarie, la messa è formativa a una vita di comunione che, proprio nel sacramento eucaristico, mentre è di unione mistica con Cristo e di relazioni intime con la Trinità divina, è insieme concreta accettazione della comunità e attiva collaborazione in essa e con tutte le sue componenti. Anche quella «presidenziale» e «ministeriale», che si esprime nella vita della Chiesa attraverso l’attività dei vescovi, dei preti, dei loro collaboratori. La tendenza giovanile attuale di non dare importanza alle strutture autoritarie che reggono e governano le istituzioni dovrà trovare correzione nell’ambito della Chiesa per la considerazione del ruolo di servizio che i ministri hanno in essa. L'educatore troverà modo per mostrare come nella celebrazione i rapporti di dipendenza e soggezione, che normalmente si stabiliscono nella vita delle istituzioni, sono rovesciati per un servizio che «i più grandi» compiono verso i fratelli (cf Lc 22,24-27).

La messa contribuisce a comprendere la Chiesa nella sua realtà di corpo di Cristo animato dallo Spirito. La grande invocazione (epiclesi) nell’eucaristia è che i presenti, che partecipano alla mensa sacramentale, «lo Spirito Santo li riunisca in un solo corpo». Si invoca lo Spirito della Pentecoste e si chiede che da quell’aggregato di fedeli e ministri emerga la Chiesa come «corpo», nel duplice significato biblico di visibilità e organicità. La comunità sia il segno concreto, nella storia, della continua presenza salvifica di Gesù, Messia e Salvatore; essa operi unitariamente nella carità, suscitando la collaborazione di ognuno, valorizzando ogni carisma e ogni ministero. Il giovane viene introdotto nella comprensione teologica della Chiesa, aiutato ad accettare la realtà storico-sociale della Chiesa come è nella realtà concreta, condotto a trovare il suo carisma da valorizzare per il bene della comunità, rendersi disponibile allo Spirito che vuol trovare cooperatori alla sua azione sempre rinnovatrice.

 

2.4. L’amore (di coppia) e la messa

La generosità giovanile non sempre è amore cristiano vero, cioè quella carità che si dona e serve al di là di tornaconti personali. Le relazioni con gli altri sono ancora determinate e dominate da quell’amore che la Bibbia denomina «eros», cioè da uno slancio di donazione, anche sublime, ma che è dominato da interesse personale. L’affermazione di sé e la soddisfazione del fare sono le molle dell’azione dei giovani e spesso rimangono anche nelle età successive. Una formazione cristiana autentica può richiedere che si passi da questo amore «erotico» (in senso teologico) a quell’amore «agapico» che è proprio di Dio, che è alla base dell’opera messianica di Gesù e che lo Spirito Santo diffonde nei cuori dei fedeli. L’agàpe è il modo divino di amare, non attratto da prospettive gratificanti ma mosso solo dalla volontà di donarsi e servire gli altri, amati per sé stessi.

In questa educazione all’amore cristiano si inserisce anche la vicenda, che per lo più si svolge nel periodo giovanile, della scelta unica e del legame profondo che unisce a una persona di altro sesso nella coppia coniugale. Anche qui gli inizi non possono che essere «erotici», cioè mossi dall’attrazione sessuale, dall’arridente prospettiva della vita comune, dal desiderio di affermarsi nella paternità-maternità, dalla soddisfazione di riflettersi nei figli... Ma il pericolo del narcisismo è sempre in agguato, e ciò spiega la miserabile fine di grandi innamoramenti e di matrimoni apparentemente felici: in realtà i fidanzati e sposi amavano intensamente sé stessi, senza fare il passo decisivo di aprirsi all’altro, di accoglierlo e di farsi accogliere.

Nel cammino verso l’amore vero, condizione di una crescita positiva e tragurdo della maturazione, la partecipazione alla messa ha una sua funzione importante per i credenti. Già quanto detto nel punto precedente è in questa direzione, perché il rendersi attenti alla comunità, lo scegliere secondo i suoi bisogni e il servirla nelle sue esigenze richiedono già l’uscire da sé stessi, non cercare solo le proprie gratificazioni, dedicarsi agli altri come sono. Ma la messa conduce a ulteriori esperienze in questo senso, sino al decentramento da sé per trovare nell’ «altro» il punto di riferimento della propria vita. È la tipica esperienza sponsale, dalla Bibbia scelta come adeguata a esprimere le ralazioni di alleanza di Dio con il suo popolo e di Cristo con la Chiesa. L’eucaristia è «la nuova alleanza nel sangue» che perpetua la donazione suprema di Cristo per l’umanità e associa ad essa la Chiesa in una corrispondenza sponsale. La celebrazione della messa è strutturata in modo da far entrare i fedeli in tale prospettiva e condurli ad amare con questo amore «agapico».

Già nell’ascolto della Parola si fa l’esperienza del decentramento da sé per assumere il punto di vista dell’ «altro» come criterio di scelte operative e, più fondamentalmente, come senso determinante per la propria vita. È sulla parola che Dio ci dice che i fedeli decidono il valore della propria vita e scelgono ciò che debbono fare. Questa espropriazione di sé, per cui ci si lascia determinare da Dio e ci si uniforma alla sua volontà, si risolve in una liberante costruzione di sé nella verità e nella luce, poiché la persona umana è radicalmente relativa alle altre persone e, ultimamente, a Dio. Questa esperienza di autoedificarsi proprio nell’ascolto, assumendo seriamente i punti di vista dell’altro, è fondamentale in un rapporto di amore che è dialogico e comprensivo.

Nell’alleanza eucaristica, celebrata convivialmente, ci è assicurato che Dio, al quale ci siamo affidati e nel quale ci veniamo costruendo, è fedele perennemente e nel gesto di donazione redentrice di Gesù è sempre a nostra disposizione. Senza che noi ne possiamo minimamente dubitare. Egli è sempre in attitudine di accoglienza, perché noi ci rivolgiamo a lui e siamo da lui ospitati. Inoltre egli è sempre disponibile a darsi e a farsi nostro ospite interiore. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,56). Questa inabitazione reciproca è, nel NT, la formula tipica dell’alleanza sponsale che nell’Antico era espressa dalla formula dell’appartenenza reciproca, più giuridica: «Io sono il loro Dio ed essi sono il mio popolo». L’amore vero, quello matrimoniale, giunge sino alla reciproca inabitazione: l’altro è sempre presente, e nei suoi confronti vi è una piena disponibilità all’accoglienza ospitale.

 

2.5. La festa e la messa

I giovani sono sempre pronti a far festa, a stare insieme allegramente, a sottolineare ogni incontro e ogni successo con manifestazioni festive. Vi è una disponibilità giovanile alla festa che può essere valorizzata per comprendere la messa come la festa dell’umanità redenta, anticipazione della vita celeste, pausa festosa fra i compiti della vita.

Il tema della festa percorre la Bibbia e non è difficile trovare testi che ne parlano e la motivano. La messa è stutturata come incontro festoso del popolo con il suo Signore, e ha molti elementi rituali che possono essere sviluppati in modo da amplificarne la portata festiva.

Già il riunirsi in assemblea per compiere gesti completamente gratuiti, senza alcun immediato tornaconto economico, pone la messa fra le attività di gioco, alle quali ci si dedica solo per il piacere di compierle. La messa non si trova a proprio agio nella categoria del dovere, ed è necessario mutare il linguaggio consueto per parlare ai giovani della necessità per il cristiano di partecipare alla messa domenicale. È la necessità della festa, come possibilità di espressione piena di ciò che si è e di incontro libero con gli altri nella gioia di comuni idealità e valori. Lo stesso incontrarsi nell’assemblea dovrebbe consentire lo scambio di saluti e di notizie, come di chi si ritrova volentieri insieme. I riti di ingresso caratterizzano questo essere insieme come tipicamente ecclesiale: una riunione di peccatori pentiti, accolti nel perdono misericordioso di Dio, che lodano il loro Signore e a lui si rivolgono con confidente fiducia.

La liturgia della Parola è acclamazione entusiastica al Signore che di nuovo parla al suo popolo. Gli elementi lirici debbono assumere la loro espressività: il salmo responsoriale e l’Alleluia. La parola che Dio dice, non solo viene ascoltata e interpretata: è acclamata, lodata, glorificata. Questa liturgia non ha nulla del clima scolastico, intellettuale e austero, ed è più avvicinabile a quello di un «recital». Se vi è silenzio, per accogliere nella propria interiorità ciò che Dio ci dice, esso è condizione perché poi prorompa la gratitudine gioiosa. La risposta di fede e di preghiera se ha una solennità, non è quella contenuta delle cerimonie ufficiali ma quella spontanea delle riunioni amicali.

La liturgia eucaristica è strutturata come un banchetto fra amici durante il quale viene declamato il discorso di circostanza. Non vi è convito festoso se uno dei commensali, il più idoneo a rappresentare il gruppo, non prende la parola per ricordare di nuovo l’avvenimento che motiva rincontro e per formulare gli auguri per il futuro e, magari, per assumersi impegni che rendono fedeli ai valori del gruppo. Tutto ciò, nella messa, è assolto dalla grande preghiera eucaristica, di anamnesi ed epiclesi, che inizia con il rendimento di grazie e conclude con la dossologia (formula di glorificazione) trinitaria. L’esultanza suscitata dai motivi di rendimento di grazie porta al canto corale del «Santo», con l’acclamazione a Dio che convoca il suo popolo; l’ammirazione per quanto viene raccontato nella Cena del Signore è espressa nel canto memoriale; la conclusione dossologica scatena l’Amen finale.

Si mangia e si beve cantando, come si fa solo nei gruppi di amici che festeggiano insieme un evento; ci si augura e scambia un gesto fraterno di pace, rompendo la composta disposizione dell’assemblea per raggiungersi l’un l’altro. La Pasqua di Cristo, la sua vittoria sulla morte partecipata ai fedeli, e il dono dello Spirito elargito con abbondanza, conferiscono all’assemblea, consapevole e coinvolta, qualcosa dell’ebbrezza vitale che caratterizza il finale delle feste. Forse riferendosi a ciò l’apostolo Paolo esorta: «Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate colmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 5,18-20).

Il consueto modo di celebrare è riuscito a rendere spesso noiosa una celebrazione sorta come festosa e che nel suo «copione» conserva l’esigenza e la potenzialità dell’espressione gioiosa ed esultante. Non sempre le messe però potranno essere celebrate e partecipate con tale carica entusiastica; l’importante è che si faccia scoprire la sua insita festosità preparandone accuratamente alcune e celebrandole con tutte le possibilità epressive. Ai giovani che amano la festa, bisogna insegnare come e perché far sì che la messa assuma l’aspetto festoso per la comunità cristiana. Nell’esortazione di Paolo si è colta l’estensione del rendimento di grazie a tutta 1’esistenza dei credenti. La festa è una parentesi nella vita, ma la messa deve improntarla tutta di una caratteristica «eucaristica»: risposta grata e riconoscente a Dio che sempre è e si fa nostro Salvatore.

Si potrebbero tracciare altri itinerari che, partendo da situazioni ed esigenze giovanili, attraversano la messa e ne fanno cogliere i molteplici messaggi e valori. Ma gli esempi portati possono bastare come esemplificazioni. Nei suoi motivi e simboli la celebrazione eucaristica è radicata e ramificata nella Bibbia, e attraverso un processo ermeneutico può essere resa significativa ed eloquente nelle situazioni attuali e particolari. L’importante è che l’educatore, oltre a conoscere bene dove sono e cosa esigono i giovani, abbia familiarità con rimpianto liturgico e i suoi radicamenti biblici.

 

Bibliografia

Aldazabal J.,​​ La liturgia deve preoccuparsi dei giovani,​​ in​​ Concilium​​ 1982-2, pp. 161-174; Della Torre L. - G. Stefani,​​ La messa per le comunità giovanili,​​ Queriniana, Brescia 1969; Falsini R.,​​ Piccoli gruppi e liturgia,​​ in​​ Rivista di Pastorale Liturgica,​​ 1971-5, pp. 441-446; Ruspi W.,​​ Giovani,​​ in​​ Nuovo Dizionario di liturgia,​​ Ed. Paoline, Roma 1984, pp. 642-651; Sartore D.,​​ Catechesi e liturgia,​​ in​​ Nuovo Dizionario di liturgia,​​ Ed. Paoline, Roma 1984, pp. 219-231; Id.,​​ Giovani e liturgia: vent’anni di riflessioni ed esperienze,​​ in​​ Rivista Liturgica​​ 1988-2, pp. 221-245.

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EUCARISTIA

Il termine E. (dal greco del NT = rendimento di grazie) indica la “Cena del Signore”, il pasto che Gesù ha celebrato con i suoi discepoli più intimi alla vigilia della sua passione-morte-risurrezione, e che ha affidato a loro perché lo ripetessero “in memoria di me» (1 Cor​​ 11,23-25;​​ Mc​​ 14,22-25;​​ Mt​​ 26,26-29;​​ Lc​​ 22,14-20). Fin dalle origini apostoliche essa è il rito che caratterizza la comunità dei cristiani che si riuniscono nel “giorno del Signore”, domenica ed E. si richiamano reciprocamente, divenendo pratiche religioso-sociali tipiche della Chiesa e dei battezzati credenti e praticanti.

1.​​ La​​ C.​​ sulla Cena del Signore nel NT.​​ La questione del senso che la pratica dell’E. ha per la comunità cristiana si pone ben presto, e l’apostolo Paolo deve ricordarlo ai cristiani di Corinto che, radunandosi in assemblea per mangiare la cena del Signore, hanno comportamenti (divisioni in gruppuscoli contrapposti, consumazione di alimenti in forma individuale o in raggruppamenti per affinità sociali, non attenzione a chi è nel bisogno) in contrasto con il suo significato. Questo viene esposto narrando ciò che il Signore Gesù ha fatto “nella notte in cui veniva tradito”, per concludere che con il mangiare il pane e bere il calice di quella cena i cristiani “annunciano la morte del Signore, finché egli venga”.

Segue l’invito a partecipare in modo degno a questo pasto, riconoscendo, con atto di discernimento, cbe l’assemblea così riunita e celebrante è il corpo del Signore. Questa C. collega il memoriale-annuncio della Pasqua di Gesù (morte e risurrezione nell’attesa del ritorno) a uno stile fraterno di comunicazione e di condivisione che contraddistingue la comunità cristiana. In​​ At​​ 2,42 la “frazione del pane” è presentata come momento costitutivo della comunità insieme all’insegnamento degli apostoli, all’unione fraterna e alla preghiera. Nei Vangeli sinottici il racconto della Cena eucaristica è condotto con preoccupazione liturgica, ma è evidente anche una premura cat., poiché include la denuncia del traditore e, nel caso di​​ Lc​​ 22,24-27, la parola di servizio.

Partecipare all’E. è segno di fedeltà al Signore e impegno a realizzarne l’esempio. La C. già insita nei gesti e nelle parole del Signore (il dare il pane come suo corpo e il calice come suo sangue; il corpo designato come “dato per voi” e il sangue come “sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”; l’accenno alla “nuova ed eterna alleanza”; l’uso della preghiera di benedizione e di rendimento di grazie e del termine anamnesi-memoriale nel comando) viene sviluppata da​​ Gv​​ 6 nel discorso sul pane di vita, partendo dalla moltiplicazione dei pani e innestandola su temi veterotestamentari, specialmente quello della Sapienza divina che si fa alimento dei fedeli (Prv​​ 9,2-6;​​ Sir​​ 24,19-21). Il pane di Dio, che dà la vita al mondo, è Gesù, come Parola che si accoglie con fede, e come carne e sangue da mangiare e bere per entrare in comunione con lui, avere la vita eterna, risuscitare nell’ultimo giorno. Alla fine del​​ cap.​​ 6 l’accettazione di Gesù come nutrimento essenziale, e quindi indispensabile per essere in comunione con Dio, diventa discriminante per essere discepolo.

Espressa in vari modi, la C. neotestamentaria sulla E. cena del Signore è connessa con il fatto celebrativo, a cui i credenti prendono parte con il mangiare e il bere, e con la esistenza personale e comunitaria che trovano in essa la loro forma e il loro orientamento.

2.​​ La C. sulla Messa nell’epoca patristica.​​ Nelle comunità cristiane la celebrazione dell’E. assume ben presto una forma che attinge alla tradizione liturgica giudaica, tanto della Sinagoga (per la liturgia della Parola) quanto della famiglia (per il banchetto di pane e vino con la preghiera eucar.). La più antica testimonianza (metà II sec.: Giustino,​​ I Apologia,​​ 65) ci presenta già la celebrazione strutturata nelle sue linee essenziali, che si sviluppano nei secoli successivi sino a giungere a quella forma celebrativa che in Occidente prende il nome di Messa: letture bibliche, omelia, preghiere, presentazione di pane e vino, preghiera eucar. presidenziale con l’amen dei fedeli, comunione dei presenti e invio agli assenti, colletta per i poveri. Col termine E. Giustino denomina anche il pane e il vino sui quali è stata proclamata la preghiera eucar., e tenta una C. per distinguerli dal pane ordinario e dalla bevanda comune: “Come per la parola di Dio, Gesù Cristo, il nostro Salvatore, incarnato ebbe e la carne e il sangue per la nostra salvezza, così abbiamo imparato che anche il nutrimento eucaristizzato da una parola di preghiera proveniente da lui è la carne e il sangue proprio di Gesù fatto carne, del quale per trasformazione il nostro sangue e la nostra carne sono nutriti” (ivi,​​ 66).

Agli inizi del sec. III la →​​ Tradizione Apostolica,​​ di Ippolito di Roma, contiene una preghiera eucar. che è insieme testo di preghiera e di C.: per capire che cosa fa la Chiesa celebrando l’E. si deve ascoltare come essa prega. Questo rapporto inscindibile fra celebrazione, C. ed esistenza cristiana accomuna tutti i grandi catecheti dei secoli III-V, e continua a influire su quelli dei secoli successivi. La struttura di pensiero che è alla base delle loro riflessioni ed esposizioni si può esprimere nei diversi significati che essi danno alla parola “mistero”, termine entrato nei formulari liturgici e con il quale anche la C. odierna deve misurarsi, perché ritorna spesso nelle orazioni della messa. Con “mistero” i Padri latini e greci intendono ciò che Dio ha fatto e fa nella storia della salvezza per rivelare e donare se stesso, pur rimanendo inaccessibile nella sua infinita santità e inconoscibilità. Mentre nel successivo linguaggio teologico-cat., e anche in quello comune, questo vocabolo indica una verità che non si può conoscere se non per fede, nell’antico linguaggio cristiano e in quello liturgico, ma ormai anche in quello teologico e cat., esso designa un evento che manifesta l’azione divina in vista della nostra salvezza. Basti pensare all’uso che si fa dell’espressione “mistero pasquale”, o dei “misteri” della vita di Cristo.

Ma con la parola “mistero” i Padri, e ora la liturgia, indicano anche il fatto celebrativo, i riti che si compiono, in quanto sono manifestazioni liturgiche, commemorative e attualizzanti, dei misteri della salvezza. In questo senso → Ambrogio, vescovo di Milano, intitola le sue C. sulla messa​​ De mysteriis,​​ seguite da un’altra opera​​ De sacramenti.​​ Nella lingua latina i misteri rituali saranno chiamati sacramenti, ma i due termini coesistono. Le C. patristiche sull’E. hanno una impostazione mistagogica: dai misteri della celebrazione (i segni rituali) si conduce a comprendere il mistero che attraverso di essi si attua e si esprime. In realtà essi usano tutta una gamma di termini (signum, figura, similitudo, species)​​ per aiutare a capire che nelle realtà visibili della celebrazione (l’assemblea, la Parola, il pane e il vino, il mangiare e il bere...) viene significata la realtà di Cristo che è presente, si dona e si offre, si fa nutrimento. Nelle sue C. sull’E. Ambrogio cita ampi pezzi della preghiera eucar. e ne spiega la portata per la fede e la vita cristiana. Lo stesso metodo è seguito da Giovanni → Crisostomo, → Cirillo di Gerusalemme, → Agostino...

In questa epoca non si distingue la C. dalla teologia, la riflessione-esposizione intorno all’E. è fatta nell’assemblea celebrante, è in riferimento all’esperienza celebrativa, attinge alle figure bibliche, coinvolge l’esistenza, conduce a contemplare la Chiesa come il Corpo di Cristo, nutrito dal corpo sacramentale del Signore.

3.​​ C. della presenza reale e del sacrificio eucar. nell’epoca medievale e moderna.​​ Con il passaggio dal primo al secondo millennio avviene un notevole cambiamento d’impostazione nella riflessione teologica e conseguentemente nella C. Vi influiscono alcune eresie circa la presenza sacramentale di Cristo e l’aspetto sacrificale, e la prassi dei fedeli ormai spettatori di un rito che non capiscono e a cui non partecipano. Inoltre la comunione diventa un fatto raro (è prescritta almeno a Pasqua) e staccata dal contesto celebrativo. Da mistagogica la C. si fa dottrinale, anzi apologetica, e troverà i suoi argomenti salienti, se non esclusivi, nella presenza reale di Cristo sotto le specie eucar., nell’aspetto sacrificale della messa, negli effetti spirituali della comunione.

Il​​ Catechismo per i parroci,​​ edito per volontà espressa del Concilio di Trento, sarà il testo a cui si ispireranno quasi tutti i catechismi successivi. I rapporti dell’E. con la Chiesa e la comunità sono del tutto trascurati, come è del tutto assente la prospettiva di una partecipazione diretta e attiva dei fedeli. Questi, assistendo devotamente, usufruiscono dei frutti del sacrificio. Nella spiegazione di questo non si cercano nel NT le caratteristiche specifiche dell’atto redentivo e sacrificale di Gesù per ritrovarle nell’atto eucar. che ne è memoriale; dal concetto di sacrificio dedotto dai riti del tempio di Gerusalemme e dalle altre religioni si derivano categorie che si applicano al sacrificio della croce e che si vogliono vedere realizzate nella messa. La preoccupazione controversistica con i protestanti, che condiziona anche i catechismi, elimina le categorie teologiche da loro usate — memoria, rendimento di grazie — che fanno parte della tradizione cristiana e sono presenti nei testi liturgici, ormai non più compresi.

La linea della interpretazione simbolico-sacramentale, propria del primo millennio, viene continuata ad uso cat.-devozionale, ma nella degenerazione allegorico-rituale. Per l’esperienza dei fedeli la messa è un rito con segnali sonori e gestuali, che vengono intesi come supporti per rievocare episodi della passione di Gesù e meditare su di essi. Attraverso molte​​ Esposizioni della messa,​​ che dal medioevo giungono alla vigilia del Vaticano II, è questo il modo con cui il popolo cristiano più devoto viene formato a intendere e sentire l’E. come il rinnovarsi del sacrificio di Gesù. La C. ufficiale non lo legittima, ma di fatto è questa la C. che ha più presa sul vissuto di fede dei praticanti devoti.

Le ricerche bibliche sulla Cena del Signore e sul concetto di sacrificio nell’AT e nel NT, la comprensione della tradizione liturgica specialmente delle preghiere eucar., l’uscita della teologia dalle secche controversiste per una cordiale accoglienza ecumenica, le proposte del movimento liturgico per una partecipazione piena dei fedeli alla messa, pongono le basi a un progressivo rinnovamento della C. dell’E., favorito e promosso dai documenti del Vaticano II, dalla riforma liturgica, dai nuovi catechismi e dai documenti episcopali. Per l’Italia è doveroso segnalare il documento​​ Eucaristia, comunione e comunità,​​ edito dalla CEI (1983).

4.​​ Linee per una C. dell’E.​​ Dagli apporti delle varie discipline che studiano l’E. e dalle concrete situazioni in cui si svolge la C. su di essa appaiono tre linee principali, che però si intrecciano e si intersecano, secondo le esigenze degli uditori e le articolazioni dell’esposizione.

a)​​ Linea biblica.​​ È seguita in ogni esposizione della storia della salvezza, della vita di Gesù e delle attività delle comunità apostoliche. Si riconosce che nei racconti evangelici la Cena è posta a cerniera fra la missione di Gesù e la sua morte-risurrezione. In essa il Signore riassume e svela il senso della sua vita, dà significato agli avvenimenti che seguiranno, fonda la comunità dei suoi discepoli come fraternità conviviale dedicata a continuare la sua opera. I gesti e le parole di Gesù, tramandati da​​ 1 Cor​​ 11,23-27 e dai Sinottici, hanno riferimenti espliciti e allusivi alle Scritture, agli eventi ivi narrati e alle promesse ivi contenute, per cui una catechesi sulla Cena deve richiamare questo contesto scritturistico: il sacrificio e banchetto della Pasqua (Es​​ 12); il rito di alleanza al Sinai (Es​​ 24); il sangue dell’espiazione sacrificale (Lv​​ 4-6 e 16); il banchetto escatologico (Is​​ 25,6-10; 55,1-3); il sacrificio del Servo di Iahvè (Ir 53), la nuova alleanza promessa (Ger​​ 31,31-34). Inoltre il contesto celebrativo dell’ultima Cena deve essere evocato come significativo di ciò che Gesù ha fatto e la Chiesa continua: se non è stato un banchetto pasquale, esso è stato uno dei pasti sacri giudaici comportante la preghiera di benedizione e di rendimento di grazie, strutturata come memoria viva delle opere salvifiche di Dio e invocazione perché si attuino ancora (vedi L. Della Torre,​​ Pregare l’eucaristia.​​ Preghiere eucaristiche di ieri e di oggi per la catechesi e l’orazione, Queriniana, Brescia, 1982).

In questa linea diventano importanti anche le rare descrizioni dell’E. nelle comunità del NT, notando che di essa non si parla mai in modo teorico, ma la si presenta sempre in situazione, per mostrarne il senso che ha per la fede e la vita di quelle comunità. Il citato documento CEI descrive la comunità di Gerusalemme (nn. 21-25), dove la “frazione del pane” (At​​ 2,42) è intimamente connessa con la comunione fraterna e la condivisione dei beni; e quella di Corinto (nn. 26-31), richiamata da Paolo a scoprire il senso dell’E. nel riconoscere il “corpo del Signore” nell’assemblea, a superare le divisioni interne, a usare i carismi per il bene comune (1 Cor​​ 14), a condividere i doni ricevuti. Si può anche evidenziare la portata eucar. che i Sinottici danno alla moltiplicazione dei pani, massimo segno messianico compiuto da Gesù, e che vede i discepoli in primo piano (Afe​​ 6,3344;​​ 8,1-9) per dire alle future assemblee eucar. che esse hanno il compito di continuare la prassi messianica del Signore (J. M. Van Cangh,​​ La multiplication des pains et l’eucharistie,​​ Paris, Ceri, 1975). Anche la sostituzione che​​ Gv​​ 13,1-21 fa dell’E. con la lavanda dei piedi, e il successivo “mandato” dell’amore fraterno, è un’operazione cat. per dire alle comunità cristiane che esse realizzano il senso della Cena di Gesù facendosi accoglienti e ospitali.​​ Lc​​ 22,23-30 è una C. sul servizio inserita nel contesto eucar. Questa linea cat. può trovar giovamento nell’interpretazione di X. Léon-Dufour (Condividere il pane eucar. secondo il NT,​​ Leumann-Torino, LDC, 1983) che dalla Cena vede partire due tradizioni, entrambe vincolanti per la Chiesa, l’una liturgica e l’altra esistenziale, che trovano attuazione nella celebrazione e nella carità fraterna.

b)​​ Linea liturgica.​​ Riallacciandosi alla C. mistagogica dei Padri e nella scia della partecipazione piena oggi richiesta dalla messa, si sta sviluppando una promettente C. che fa percepire il mistero celebrato, per viverlo poi nell’esistenza, “attraverso i riti e le preghiere” (SC 48). L’istruzione​​ Eucharisticum mysterium​​ (1966, nn. 14-15) dice che questa C. “inizia dai riti e dalle preghiere che ricorrono nella celebrazione, per renderne chiaro il senso, soprattutto quello della grande preghiera eucar.” e che deve “condurre i fedeli alla profonda comprensione del mistero che tali riti e preghiere significano e compiono”. Il citato documento CEI descrive questo metodo ai nn. 34-35 e lo applica, almeno parzialmente, nei nn. 36-55. Tale C. non restringe l’attenzione agli elementi essenziali della Cena del Signore, ma la estende a tutta la celebrazione, evitando di frammentarsi sui singoli gesti e cogliendo i grandi segni: l’assemblea, i ministeri in essa esercitati, la struttura dialogica della liturgia della Parola, l’azione eucar. come convito durante il quale si proclama la preghiera eucar.

Per individuare funzione, scopo e senso di queste sequenze rituali, che sono alla base di tale C., è metodologicamente importante conoscere i capp. LUI di​​ Principi e norme per l’uso del Messale romano,​​ documento contenuto nel Messale liturgico. Per questa C. diventa fondamentale la “preghiera eucar.”, come testo nel quale la Chiesa proclama la coscienza di fede di ciò che celebra e di come essa viene trasformata. La molteplicità di formulari per tale preghiera è ricchezza anche cat., perché su di una struttura tematica comune (descritta al n. 55 della citata introduzione al Messale) mostra come la preghiera della comunità può variare secondo le differenti culture, i diversi momenti, le sensibilità spirituali. Solo una familiarità con i molti testi attuali e la conoscenza di quelli passati (si veda il cit. libro​​ Pregare l'eucaristia)​​ educa i fedeli a essere partecipi consapevoli e impegnati a questo momento decisivo dell’E. cristiana, e quindi a prendere parte al banchetto, mangiando e bevendo, coscienti delle implicazioni spirituali ed ecclesiali di tale gesto.

Gli interventi vocali dell’assemblea sono minimi, ancorché importanti, durante la preghiera eucar. di esecuzione presidenziale; per questo l’attenzione di fede attraverso l’ascolto e la visione può essere sostenuta solo dagli atteggiamenti interiori suscitati e nutriti da una opportuna C. I motivi del rendimento di grazie, dell’invocazione dello Spirito sui doni e sui comunicandi, del memoriale della Pasqua, dell’offerta sacrificale, della comunione con la Chiesa terrena e celeste, della dossologia... esigono, nella trattazione cat., continui riferimenti alla Bibbia e coinvolgimenti concreti di atteggiamenti esistenziali.

c)​​ Linea dottrinale.​​ Questa linea sostiene le esposizioni precedenti, chiarendo concetti e approfondendo aspetti, ma può essere sviluppata anche in trattazioni catechistiche proprie, pur con gli indispensabili riferimenti biblici e liturgici. Le fonti si trovano nei documenti conciliari, nei vari interventi successivi della Santa Sede, nei documenti e catechismi CEI, oltre che nelle opere teologiche più significative. Per gli aspetti ecumenici è interessante il documento di convergenza, sottoscritto anche dai teologi cattolici,​​ Battesimo, eucaristia, ministero,​​ approvato a Lima (1982).

La prima questione riguarda il soggetto agente dell’E.: esso è l’assemblea ministerialmente servita e presieduta, che opera in unione a Cristo Signore, di cui il prete presidente è segno. Tale presenza operante di Cristo è significata già dal riunirsi in assemblea (Mt​​ 18,19-20: dove Gesù garantisce la sua presenza a una riunione i cui membri si accordano, quindi dialogicamente, su ciò che conviene al regno del Padre); è nell’ascolto credente e attualizzante della parola del Signore (che esige l’esercizio in ogni fedele del​​ sensus fidei,​​ la sensibilità di fede, LG 12, unita alla “grazia della parola”, LG 35); ed è, in modo particolare, sacramentale, nell’azione eucar. che comporta la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo. Questa trasformazione profonda, che attinge l’intima essenza delle loro realtà (e chiamata “transustanziazione”, un termine da usarsi con delicatezza nella C. perché può ingenerare interpretazioni erronee), viene ora spiegata passando attraverso la categoria di memoriale e richiamando l’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi) sul pane e sul vino. Usando il termine biblico di memoriale (greco​​ anamnesi,​​ aramaico​​ zikkaron)​​ Gesù fa intendere che la Cena eucar. rende i discepoli di ogni tempo “contemporanei” all’evento pasquale — morte e risurrezione — evocato dal suo gesto e dalle sue parole per renderli partecipi della forza trasformante, santificante, del suo Spirito. Perciò lo Spirito Santo viene invocato perché operi la trasformazione del pane e del vino, e successivamente agisca in coloro che vi si comunicano rendendoli “corpo di Cristo”, cioè comunità che ne continua la testimonianza e l’opera. La presenza eucar., reale e sostanziale, è finalizzata alla santificazione dei fedeli e alla edificazione della comunità.

L’aspetto sacrificale dell’E. deve essere trattato con correttezza teologica e con delicatezza psicologica, per non suscitare idee di sacralismo pagano e non ingenerare interpretazioni vittimali. Il sacrificio redentore di Gesù deve essere compreso nella linea profetico-sapienziale della vita che è sacrificio gradito a Dio se è in obbedienza alla sua parola, che si esprime nella lode e nel rendimento di grazie anche fra le più grandi difficoltà. Gesù ha portato la sua fedeltà alla parola del Padre sino all’estremo, alla morte in croce, compiendo così il più alto servizio all’umanità e inaugurando il tempo dello Spirito che lo ha risuscitato dai morti. La Cena del Signore è memoriale, sacramento, di tale azione sacrificale, ed è nello stesso tempo segno dell’offerta che la Chiesa fa di sé a Dio, impegnandosi nella sequela del suo Signore, in ciò sostenuta dalla forza dello Spirito.

La comunione alla mensa eucar. è partecipazione al memoriale e all’offerta sacrificale, è accoglienza dello Spirito che rende viva la Parola ascoltata, è riconoscimento di essere nella comunione fraterna con gli altri, è impegno di condivisione e cooperazione nella comunità, è manifestazione della speranza escatologica perché ogni E. si celebra nell’attesa della venuta del Signore. La dimensione personale, sottolineata dal mangiare e dal bere che intimizzano la presenza santificante di Cristo, si coniuga sempre con quella comunitaria espressa dal fatto celebrativo.

Riflessione teologica ed esperienza spirituale sottolineano i rapporti dell’E. con il vissuto concreto, la realtà sociale e il destino del mondo, perché i cristiani vivano in questi contesti gli atteggiamenti propri della celebrazione, e in questa portino le attese, le lotte, le sofferenze, le speranze, le gioie della vita. La C. deve far capire che partecipando all’E. i cristiani si rendono disponibili ad attuare la volontà di Dio nella storia, come il Cristo, e quindi a continuarne la missione.

Bibliografia

F. X. Arnold,​​ L’influence du Concile de​​ Trente​​ sur la catéchèse de la messe,​​ nel vol.​​ Pastorale et principe d'incarnation,​​ Bruxelles, CEP, 1964; D. Borobio,​​ Eucaristia para el pueblo. Para una​​ catcquesis sobre​​ la eucaristia,​​ Bilbao, Desclée, 1981; E. Costa – L. Della Torre – F. Rainoldi,​​ Interpretare il rito della messa,​​ Brescia, Queriniana, 1980; E. Costa – J. Gelineau – L. Maldonado,​​ Il sacramento dell'unità,​​ in​​ Nelle vostre Assemblee. Teologia pastorale delle celebrazioni liturgiche,​​ vol. 2, Brescia, Queriniana, 1984, 151-153; L. Della Torre,​​ La “nuova messa”,​​ 2 vol., Brescia, Queriniana, 1965; Io.,​​ Celebrare comprendere vivere la messa,​​ Roma, Ed. Paoline, 1981; Id.,​​ L’eucaristia al centro,​​ Brescia, Queriniana, 1981 (22 catechesi-celebrazioni sulla messa come forma della comunità cristiana); Id.,​​ Pregare l’eucaristia.​​ Preghiere eucaristiche di ieri e di oggi per la catechesi e l’orazione, ivi, 1982;​​ Eucaristia. Memoriale del Signore e Sacramento permanente,​​ Leumann-Torino, LDC, 1976 (commento all’istruzione​​ Eucharisticum mysteriump,​​ H. Fischer,​​ Catechesi eucaristica e rinnovamento liturgico,​​ Alba, Ed. Paoline, 1961;​​ Liturgia eucaristica,​​ Leumann-Torino, LDC, 1966; P. Massi,​​ Catechesi e rinnovamento liturgico,​​ ivi, 1965; G. M. Medica,​​ Catechesi sulla messa. Il nuovo rito e le preghiere eucaristiche,​​ ivi, 1969;​​ La messe et sa catéchèse,​​ Paris, Ceri, 1947;​​ La partecipazione dei fedeli alla messa,​​ Roma,​​ CAL,​​ 1963 (art. sulla C.); J. J.​​ Rodríguez Medina,​​ Pastoral y catcquesis​​ de la eucaristia,​​ Salamanca, Sígueme,​​ 1966;​​ Nuovo Dizionario di liturgia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1984, cf voci:​​ Assemblea​​ (A. Cuva),​​ Eucaristia​​ (P. Visentin),​​ Memoriale​​ (B. Neunheuser),​​ Rilevanza della messa come comunicazione​​ (F. Lever),​​ Sacerdozio​​ (B. Baroffio),​​ Sacrificio​​ (B. Neunheuser)... Per una C. che tenga conto dell’aspetto ecumenico cf​​ Battesimo, Eucaristia, Ministero,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982.

Luigi Della Torre

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