DISOCCUPAZIONE
Pasquale Ransenigo
1. Dati di insieme e l'individuazione delle cause
1.1. Rispetto alla dimensione giovanile
1.2. Rispetto alla caratteristica femminile
1.3. Rispetto alla caratteristica meridionale
1.4. Rispetto al livello di dequalificazione
1.5. Ricerca delle cause della disoccupazione giovanile
2. Analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti giovanili nei confronti del lavoro
2.1. L’indagine Eva-IsfoI 1984
2.2. L’indagine Iard «Giovani oggi»
3. Iniziative istituzionali, formative, politicosociali
3.1. Gli interventi legislativi
3.2. Alcune iniziative formative
3.3. Il dibattito sociale e politico
4. Alcuni orientamenti operativi
Il complesso fenomeno della disoccupazione e della inoccupazione giovanile costituisce, per molti aspetti, un’area nuova per l’azione pastorale ed educativa, specie per le caratteristiche specifiche, che sono collegate a un determinato territorio. L’operatore pastorale, inoltre, si trova perlopiù impreparato ad affrontare un approccio sistematico su situazioni quantitative e qualitative che presentano ambiti non ancora sufficientemente approfonditi all’interno di quelle discipline che, pure, tendono a coglierne le dinamiche e i rapidi mutamenti nel breve periodo.
La percezione di una diffusa frammentarietà di analisi e di sistematizzazione provoca, in non pochi casi, un atteggiamento di deresponsabilizzazione che non risparmia gli stessi pastori nei confronti di soggetti che maggiormente hanno bisogno di supplemento di solidarietà e di amore pastorale.
Appare, quindi, motivato e coraggioso ogni impegno che tende a delineare un metodo globale, ma non generico, di rilevazione e di analisi delle situazioni in cui vivono i giovani disoccupati o inoccupati, ai quali si vuole rivolgere un’azione efficace di pastorale giovanile.
Alla costruzione di tale metodo concorrono almeno tre componenti, che vengono ritenute fondamentali per assicurare una adeguata base di conoscenza per orientare opportuni interventi pastorali:
1. l’individuazione quantitativa e qualitativa del gruppo dei giovani disoccupati o esposti al rischio della disoccupazione o della inoccupazione, con l’obiettivo di delineare una tipologia oggettiva delle differenti situazioni personali;
2. l’analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti che tale gruppo di giovani esprime nei confronti del lavoro e dei meccanismi che regolano, in un dato territorio, il loro ingresso o il loro ritardo nel mercato del lavoro;
3. la valutazione critica delle iniziative istituzionali, politiche e sociali che tendono ad agevolare i giovani nella fase di transizione dal sistema formativo alla vita attiva, in collegamento con eventuali provvedimenti orientati a modificare la struttura e l’organizzazione del lavoro nella società industrializzata.
1. I dati di insieme e l’individuazione delle cause
Che la situazione di disoccupazione-sottoccupazione-inoccupazione giovanile italiana abbia una natura strutturale profonda, passibile di modificazione nel quadro della ricerca di nuove linee del modello di sviluppo, non sembra necessario dimostrarlo. La difficoltà a trovare lavoro, infatti, è cresciuta negli anni recenti sia quando si sono registrate fasi di stasi o di recessione della produzione globale, sia quando si è avuta qualche ripresa o espansione della produzione. Ovviamente, nelle fasi di recessione o di stasi, alla continua crescita dei problemi occupazionali dovuti a cause di ordine strutturale, si sono sovrapposte manifestazioni congiunturali che hanno bruscamente aggravato la situazione.
Con questa interpretazione generale, espressa da L. Frej già nel febbraio 1977 alla Conferenza Nazionale indetta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, concordano sostanzialmente tutti gli studi attuali sul fenomeno della disoccupazione italiana. L’aggravamento della situazione di disoccupazione rimane, infatti, un dato costante delle rilevazioni ufficiali riferite dal 1976 ad oggi, soprattutto se confrontate con altri paesi industrializzati.
Alcuni elementi, tuttavia, evidenziano tendenze significative che si riassumono sinteticamente nel definire la disoccupazione strutturale italiana come disoccupazione giovanile, femminile, meridionale e dequalificata. Su questi elementi caratteristici si fonda l’opportunità, anche per l’operatore pastorale, di ricercare una possibile tipologia di gruppi di disoccupati-inoccupati presenti nel proprio territorio, rilevando gli eventuali scostamenti dai dati nazionali reperibili nelle fonti ufficiali.
1.1. Rispetto alla dimensione giovanile, i
grandi numeri del mercato del lavoro indicano che nel 1986 vivevano in Italia 56 milioni e 500 mila persone. Esse possono essere divise in due grandi gruppi: le forze di lavoro e le forze di non lavoro. Le prime ammontano a circa 23 milioni e 500 mila unità (pari a 41,6% della popolazione totale) e sono costituite da 20 milioni e 856 mila occupati e da 2 milioni e 611 mila disoccupati. Le non forze di lavoro comprendono i giovani e gli studenti, le casalinghe e i ritirati. Dunque, nel nostro Paese per ogni 100 abitanti vi sono 37 persone che lavorano: ciò significa che in media ogni lavoratore ha a proprio carico 2,7 abitanti; per ogni 100 persone, tra i 14 e i 70 anni, la cosiddetta fascia lavorativa, esistono 50 posti di lavoro circa. Sempre con riferimento al 1986, il 73,3% dei 2 milioni e 611 mila unità di disoccupati è costituito da persone giovani, con meno di 30 anni di età (cf ISFOL, Repertorio delle professioni, Roma 1987, pp. 17ss). Operativamente, ci si può interrogare circa la dimensione quantitativa dei giovani disoccupati presenti nel proprio territorio.
1.2. Rispetto alla caratteristica femminile
della disoccupazione giovanile, bisogna rilevare che in Italia, rispetto agli altri paesi industrializzati, il peso dell’occupazione femminile non è particolarmente elevato. Esso ha oscillato intorno al proprio minimo storico (27%) nel periodo 1967-1971, in concomitanza con il dispiegarsi di una fase economica che era stata caratterizzata da un rilevante esodo agricolo e da una pronunciata industrializzazione.
Con riferimento al 1986, la disoccupazione femminile costituisce il 57% del totale dei disoccupati e la classe di età tra i 14 e i 30 anni registra un tasso di disoccupazione femminile pari al 32,9 (cf Rapporto ISFOL 1986, pp. 84ss). Qual è la consistenza numerica delle giovani donne disoccupate nell’ambito del proprio territorio d’azione?
1.3. Rispetto alla caratteristica meridionale
della disoccupazione giovanile si stabilizza la dimensione di tipo «tradizionale»: sei disoccupati su dieci lavorano nell’agricoltura e nell’edilizia.
Con riferimento ai dati del 1986, i giovani tra i 14 e i 29 anni disoccupati nel Sud raggiungevano le 692 mila unità, con un incremento assoluto, rispetto al precedente anno 1985, di 51 mila unità. Di questi giovani disoccupati, ben 600 mila erano in cerca di prima occupazione.
Tuttavia, risulta più produttiva la ricerca articolata su singole regioni e province, al fine di individuare aree a più alti tassi di disoccupazione: Reggio Calabria (15,61); Lecce (14,77); Siracusa (12,79); Messina (12,60); Catania (11,85); Enna (11,71); Brindisi (11,57); Cosenza (11,32); Matera (11,06); Catanzaro (10,97).
1.4. Rispetto al livello di dequalificazione
dei giovani disoccupati, viene prevalentemente ancora utilizzato il riferimento all’iter scolastico e al conseguimento dei titoli finali connessi con i vari ordini e gradi della scuola.
Più attente si rivelano le indagini che includono, nell’ambito della «resa occupazionale dell’istruzione», anche i Corsi di Formazione Professionale, che dipendono dalle Amministrazioni Regionali e fanno capo al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale.
La tipologia della disoccupazione giovanile, rispetto al livello di istruzione raggiunta, evidenzia alcune caratteristiche specifiche, che debbono essere valutate anche in sede pastorale:
— i soggetti senza licenza media, pur tendendo a diminuire, rappresentano ancora il 14,8% delle forze di lavoro, di cui il 15,7% occupati e il 12,3% in cerca di occupazione;
— i soggetti con licenza di scuola media, costituiscono il 56,0% dei giovani occupati, ma il 49,8% tra i disoccupati in cerca di prima occupazione;
— i soggetti con diploma di scuola media superiore o qualifica professionale rappresentano il 27,7% delle forze di lavoro giovanili ma salgono al 34,5% tra le persone in cerca di occupazione;
— i soggetti laureati sono appena il 3% delle forze lavoro giovanili, ma salgono al 3,3% tra le persone in cerca di lavoro;
— la componente femminile giovanile tende a ridurre la propria ricerca attiva di una prima occupazione del 2,7% nel 1983 rispetto al 1982 aprendo la via a un incremento di soggetti femminili classificati «non occupate non dichiarate» che, nel 1983, raggiungeva il 17,7%.
L’area giovanile appare fortemente segnata da difficoltà di passaggio dalla scuola al lavoro, specie nelle sue componenti più consistenti, soggetti con licenza media e diplomati, che costituiscono le due aree principali di crescita del sistema scolastico.
1.5. Ricerca delle cause della disoccupazine giovanile
Rispetto alla individuazione delle cause attuali e remote della situazione di disoccupazione italiana, appare eccessivamente semplicistica e distorcente la ragione di tipo demografico: sul mercato del lavoro si presenterebbero, cioè, le classi di popolazione numerose nate sul finire degli anni sessanta. In realtà l’effetto dell’elevato tasso di natalità degli anni sessanta è già in via di esaurimento, ma fino ad ora è stato più che compensato dal progressivo aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro: una dinamica, questa, in continuo aumento specie nelle zone meridionali.
Più critiche e riflessive sono, invece, le analisi sui mutamenti dell’apparato produttivo e sull’evoluzione dell’organizzazione dei rapporti di lavoro. Si sottolinea, in particolare, l’intreccio complesso di fattori (dalle scelte compiute, in un passato ancora recente, dalle organizzazioni dei lavoratori, all’operare degli automatismi per il mantenimento del potere d’acquisto salariale) che è all’origine:
1. del progressivo appiattimento dei livelli salariali, differenziando le retribuzioni in modo tale da non rendere conveniente alle imprese di giovarsi delle forze giovanili;
2. dell’irrigidimento progressivo delle modalità di impiego e di utilizzazione del fattore lavoro che, con il ricorso alla cassa integrazione, ha prodotto situazioni di sottosfruttamento della manodopera nelle fasi di reclutamento congiunturale e di saturazione progressiva nelle eventuali fasi di ripresa, senza tradursi in nuove assunzioni.
Più frequenti sono i confronti tra il modello di sviluppo del Giappone e degli Stati Uniti e quello della CEE. Nel periodo 1973-1983, gli Stati Uniti hanno creato 15 milioni di nuovi posti di lavoro, contro la perdita di circa 3 milioni a livello dell’intera CEE. Ciò indurrebbe a ricercare la differenziazione della dinamica del costo del lavoro nei confronti del l’andamento della produttività, tenuto conto che, almeno per quanto concerne l’andamento dell’industria, mentre il tasso di produttività negli Stati Uniti è stato mediamente minore che nella CEE, il rapporto tra costo del lavoro in termini reali e produttività è stato, nel periodo, del 3-4% e nell’insieme dei paesi della CEE ha superato il 10%. Continuando il confronto tra modelli di sviluppo diversi, si tende a rilevare che nei paesi dove si sono riscontrati aumenti dei posti di lavoro, si sono verificate caratteristiche di accentuata mobilità dei posti di lavoro, con fenomeni di polarizzazione, con intensificazione dei tassi di occupazione nei settori produttivi a livelli salariali più bassi e meno rapidamente crescenti. Ciò metterebbe in dubbio la crescente aspettativa ottimistica sullo sviluppo di occupazione nel terziario.
Agli attenti osservatori di questo fenomeno appare «accertato che il Paese più ricco del mondo (USA) ha distribuito gli incrementi di ricchezza derivanti da progressi (peraltro non eccezionali) della produttività, più attraverso l’aumento delle occasioni di lavoro che non attraverso il miglioramento dei livelli salariali. Nei paesi europei, e in particolare in Italia, la ridistribuzione della nuova ricchezza prodotta è viceversa avvenuta a vantaggio del lavoro esistente».
Non mancano, anche in Italia, i sostenitori alle motivazioni specifiche della disoccupazione giovanile che fanno riferimento:
1. alla inadeguatezza della corrispondenza tra l’istruzione e la formazione acquisita dai giovani nelle istituzioni educative e la domanda qualitativa espressa sul mercato del lavoro da parte imprenditoriale;
2. all’esistenza di «carriere professionali» nelle quali la diffusa specificità delle qualificazioni e la loro acquisizione si realizza soltanto nel corso dell’attività professionale, che tutta una serie di lavori qualificati non siano accessibili ai principianti sul lavoro, ma a quella quota stabile di lavoratori che sono già all’interno dell’azienda e costituiscono garanzie di fedeltà e di motivazione alla mobilità orizzontale e verticale. L’eventuale assunzione di giovani, in tale situazione, determinerebbe l’occupazione di posti di lavoro marginali e privi di opportunità di apprendimento e senza la prospettiva di una sequenza di attività atte ad ampliare le qualificazioni, evitando così che tali giovani scivolino verso il mercato del lavoro secondario o sommerso. Di qui l’avvertenza a non voler giudicare la qualità di una formazione in base soltanto ai posti di lavoro cui essa offre accesso immediatamente dopo la fine della formazione, ma alla flessibilità che offre ad una serie di diversi posti di lavoro con determinate possibilità di assicurare crediti continui per una qualificazione trasferibile.
La ricerca di alcune cause attuali e remote, che stanno all’origine della disoccupazione giovanile, può offrire un quadro di riferimento per individuare criteri di scelta e di valutazione degli interventi che, anche in Italia, sono stati posti in essere per combattere tale fenomeno.
2. Analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti giovanili nei confronti del lavoro
Chi sono i giovani oggettivamente disoccupati, inoccupati, sottoccupati? Cosa fanno e come vivono questi giovani? Cosa, ancora, pensano o come reagiscono questi giovani nei confronti della propria situazione esistenziale? Sono interrogativi che non hanno ancora provocato una completa ipotesi di analisi e di ricerca, in Italia.
Anche, e soprattutto per ili caso italiano, vale ancora oggi l’amara constatazione che la Alien — autrice di saggi interessanti sugli aspetti teorici degli studi sulla gioventù — faceva già nel 1970 allorché rilevava che «la percezione e il riconoscimento dell’importanza del lavoro da assicurare ai giovani non ha trovato impegno adeguato e sbocchi operativi sul piano scientifico per far luce in maniera sistematica sul fenomeno [...]. Le carenze più gravi sono riscontrabili nella impostazione teorica, e non varrebbero a colmare gli sforzi a livello quantitativo o l’uso di raffinate tecniche di osservazione».
Tuttavia, è utile rilevare gli apporti più significativi prodotti recentemente in Italia per l’insieme di elementi che conducono ad un approccio più realistico della situazione soggettiva dei giovani disoccupati italiani. Bisogna rilevare, a riguardo delle indagini relative all’analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti dei giovani nei confronti del lavoro, uno spostamento di attenzione che dal 1987 in poi si sta verificando.
Sembra che si siano esauriti gli interessi a conoscere le reali situazioni dei giovani disoccupati, mentre si rivolge maggior attenzione ai cambiamenti, anche notevoli, dello svolgimento delle mansioni lavorative e delle modificazioni professionali per chi lavora, con l’obiettivo di orientare a soluzione anche il problema della disoccupazione in generale e di quella giovanile in particolare.
Due indagini, però, sembrano ancora costituire i riferimenti che non trovano smentite oggettive: l’indagine EVA-ISFOL e l’indagine IARD.
L’indagine EVA-ISFOL è una rilevazione a carattere nazionale che riguarda i processi di Entrata nella Vita Attiva (ÈVA) di gruppi di giovani, scelti come campione e rilevati a tre anni di distanza dal conseguimento dei vari titoli formativi.
La rilevazione ha preso avvio dal 1979 e si ripete ogni anno da parte dell’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori), in collaborazione col Ministero della Pubblica Istruzione e con l’apporto tecnico dell’Eni-Isvet. L’indagine cui si fa riferimento è quella relativa all’anno 1984, lo stesso anno in cui è stata conclusa l’indagine 1ARD su un’analoga problematica, anche se con interessi più ampi.
2.1. L’indagine Eva-Isfol 1984
Essa affronta l’analisi degli atteggiamenti dei giovani dai 14 ai 29 anni su un campione nazionale di 5036 soggetti che sono usciti dal sistema formativo nel 1979, inchiestati nel 1982, e successivamente nel 1983 per il gruppo di giovani risultato ancora in cerca di prima occupazione o disoccupato nell’indagine precedente, e rispondente a 900 soggetti circa. È quindi un campione di indagine specifica su giovani disoccupati, inoccupati, sottoccupati composto per il 57% di donne e residente per il 75% in zone centro-sud d’Italia.
Alla fine del 1982, a tre anni di distanza dall’uscita del sistema formativo, non aveva trovato lavoro il 50% degli intervistati, mentre dell’altro 50% il 5,6% è diventato popolazione scoraggiata rinunciando a cercar lavoro, il 15% ha trovato un lavoro temporaneo, il 4,8% ha perduto il lavoro, e solo il 20% ha trovato lavoro stabile. In particolare:
— i soggetti scoraggiati sono presenti innanzi tutto tra i diplomati dagli istituti professionali e agrari;
— l’immobilismo sul mercato del lavoro caratterizza soprattutto i giovani in possesso di maturità professionale e magistrale;
— la rinuncia a trovare lavoro interessa soprattutto i soggetti in possesso del titolo di scuola media inferiore, ed in particolare le donne.
Tali soggetti percepiscono la rigidità del mercato del lavoro e la mancanza di conoscenze amicali in grado di superare la rigidità della domanda. Non manca, però, chi non ha voluto accettare il lavoro o perché saltuario o perché poco retribuito (rispettivamente 16,7% e 7,7%).
Il tipo di lavoro cercato è stato quello di operaio comune per i maschi con titolo di studio di scuola media inferiore o qualifica professionale; di segretarie e dattilografe per le femmine; di impiego pubblico o di insegnamento per i diplomati.
Il tempo di permanenza senza lavoro durava 4 anni per il 74,6% del campione.
Gli atteggiamenti dei soggetti nei confronti del lavoro si differenziano secondo la posizione assunta. ■
1. Gli occupati (20%), pur manifestando insoddisfazione rispetto al lavoro desiderato (68%), non hanno opposto rigidità soggettiva tale da indurre ad un rifiuto della opportunità lavorativa. La stabilità e la sicurezza del posto di lavoro sono desiderate dal 44,5%, mentre la coerenza con la formazione, la possibilità di autorealizzazione dal restante.
2. I disoccupati a seguito di perdita di lavoro (5%) motivano il loro stato a causa di licenziamento, di servizio militare e il 37% non tanto per ragioni relative alla qualità del lavoro, quanto per ragioni legate alla scarsa retribuzione. Il 2,5% di questi soggetti è rientrato nel circuito formativo.
3. Gli inattivi (16%) che hanno abbandonato ogni ricerca di attività lavorativa, per il 70% donne, manifestano uno scoraggiamento temporaneo e congiunturale (servizio militare, o prestazioni familiari), ma sono pronti a rientrare nel mercato del lavoro. Raffrontando le analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti emersi nei confronti del lavoro, l’indagine Èva conferma sostanzialmente la valutazione Censis, anche se con varianti significative rispetto ai sottogruppi considerati in rapporto alla stabilità e alla sicurezza del posto di lavoro.
2.2. L’indagine Iard «Giovani oggi»,
condotta dal medesimo istituto in collaborazione con la Doxa nell’autunno del 1983 su un campione nazionale di 4.000 soggetti dai 14 ai 24 anni, rileva ulteriori tratti di atteggiamenti e comportamenti specifici nei confronti del lavoro:
— il tasso di attività registrato è particolarmente, o inaspettatamente elevato (il 60% ha avuto una qualche esperienza di lavoro);
— il 22% degli occupati, però, ha svolto attività marginali o periferiche;
— gli inoccupati in cerca di lavoro sono soggetti che appartengono a famiglie con un livello di istruzione medio-basso, evidenziando una permanente connotazione di classe;
— le attività svolte sono prevalentemente di tipo manuale (67%), a scarso livello di qualificazione (50%) e sono effettuate anche da soggetti che appartengono a famiglie con istruzione medio-alta (32%);
— le mansioni sono svolte soprattutto in piccole o piccolissime aziende, con remunerazioni presumibilmente inferiori alle tariffe sindacali minime e con orari di lavoro particolarmente lunghi (più di 45 ore settimanali) per un quarto dei giovani occupati.
Il quadro complessivo si allinea sostanzialmente alla situazione evidenziata dalle indagini Censis e Isfol-Eva: «La popolazione giovanile attuale è più disponibile alla prestazione lavorativa; ma si tratta, presumibilmente, di una disponibilità ascrivibile più alle condizioni materiali del mercato che non all’affermarsi collettivo di una diversa modalità di prestazione e di comportamento dell’offerta, evidenziando una situazione di collocazione periferica che può rivelare con drammaticità comportamenti di dipendenza dalle regole che presiedono al funzionamento del mercato. In particolare:
1. Il lavoro è considerato un elemento molto importante nella propria esistenza, posto immediatamente dopo la famiglia e prima delle relazioni affettive: ciò spiegherebbe il «calcolo razionale» che il giovane attuale fa in un quadro negoziale delle appartenenze sociali. A prova di tale interpretazione sta la constatazione che per gli intervistati il lavoro non va al di là dell’esperienza individuale (il 70% dichiara di aver poca o nessuna fiducia nei sindacalisti e il 44% si dichiara d’accordo con l’affermazione per cui se si vuole la completa uguaglianza si distrugge l’iniziativa personale).
2. La prestazione di lavoro è più strumentale che valoriale: ciò spiegherebbe perché il reddito, la sicurezza del posto e la possibilità di migliorare la propria posizione raccolgono il 48% delle adesioni, seguiti dagli indicatori di autorealizzazione nel lavoro riferiti alla autonomia, all’interesse, alla possibilità di imparare e di esprimere le proprie qualità, che raggruppano il 33% degli intervistati.
3. Il grado di soddisfazione della propria situazione raggiunge solo il 10%, mentre il 60% manifesta preferenza per un allungamento di orario di lavoro in cambio di un maggiore guadagno, e il 65% degli occupati si dichiara soddisfatto della quantità di tempo libero a disposizione.
Ai ricercatori appare accertata, quindi, una situazione di diffuso realismo e di prudenza dei giovani nei confronti del lavoro, evidenziando la non piena soddisfazione delle condizioni concrete di svolgimento dell’attività lavorativa, l’insufficienza del reddito e della sicurezza del posto; ma solo il 6% si ritiene insoddisfatto rispetto alla possibilità di autorealizzazione contenuta nel lavoro assegnato. Sembra, in conclusione, che il realismo dei giovani intervistati non costituisca una mera soggezione o adattamento passivo ad una condizione «esterna», ma sia giudicato dai ricercatori come il risultato di una razionale operazione di calcolo che ogni giovane fa, quando riconosce 1’esistenza di una oggettiva scala di differenze sociali che caratterizza ancora la società italiana e la reale situazione di crisi delle realtà produttive.
3. Iniziative istituzionali, formative, politico-sociali
Dal quadro delineato precedentemente derivano non poche sollecitazioni a conoscere e a valutare l’impegno generale del Paese per fronteggiare gli aspetti strutturali e congiunturali della disoccupazione giovanile.
3.1. Gli interventi legislativi,
che direttamente contemplano provvedimenti istituzionali nei confronti della disoccupazione giovanile, sono:
— la legge n. 285-1977, che introdusse per la prima volta l’istituto del contratto di formazione-lavoro da sperimentare nell’arco di un triennio; alla fine del triennio si verificarono 8.300 assunzioni di giovani con tale contratto;
— la legge n. 79-1983, che precisò le caratteristiche del contratto di formazione-lavoro, utilizzabile anche dalle aziende private; alla fine dell’anno di validità della legge furono assunti 162.442 giovani con tale contratto;
— la legge n. 863-1984, che definì la materia contenuta in quattro precedenti decreti-legge (n. 94, n. 273, n. 519, n. 726), introducendo specifiche norme relative a casi di assunzione a tempo determinato, a chiamate nominative, con vincoli per le imprese a presentare progetti formativi specifici nei contratti di formazione-lavoro; alla fine del primo anno di vigenza di tale legge, furono avviati al lavoro 25.317 soggetti con tale contratto;
— la legge n. 44-1986, che contempla specifiche provvidenze e incentivi a sostegno della imprenditività giovanile; alla fine di ottobre 1987, i progetti presentati sono stati 1.556 sui quali si è svolta la procedura di analisi per l’approvazione;
— la legge n. 56-1987, con la quale viene sensibilmente modificata la gestione del mercato del lavoro, attraverso la creazione di strumenti tesi a conferire maggiore flessibilità al mercato stesso: agenzie regionali del lavoro, commissioni circoscrizionali per l’impiego, l’osservatorio nazionale e regionale del lavoro.
La legge 56 ha introdotto sensibili modifiche anche nell’istituto dell’APPRENDISTATO, che, insieme ai contratti di formazione-lavoro, costituisce la via principale per l’ingresso dei giovani al mondo del lavoro.
Di fronte alla diffusione di nuove formule di avviamento al lavoro, anche dei giovani, bisogna tuttavia sottolineare alcuni elementi critici:
— nel nostro paese vige la regola che chi occupa un posto di lavoro lo mantiene costantemente;
— anche i contratti di formazione-lavoro seguono una regola generale: quasi tutti vengono realizzati nell’area centrosettentrionale; prevale l’assorbimento nel settore industriale e specialmente nella piccola impresa; la fascia di età preferita è quella tra i 19 e i 24 anni; la componente maschile è prevalente; il titolo di studio principale è quello dell’obbligo.
Rimane, quindi, scoperto il settore dei giovani esclusi.
3.2. Alcune iniziative formative
sono state attivate di recente da parte del ministero della pubblica istruzione e del ministero del lavoro, rispettivamente per il sistema scolastico e per il sistema di formazione professionale. Si tratta di introdurre nell’insegnamento e nella formazione professionale il nuovo linguaggio informatico attraverso un piano di interventi coordinati a livello nazionale, nell’intento di armonizzare sempre più la qualità dell’offerta rispetto alle nuove esigenze della domanda di lavoro in una accentuata fase di innovazione tecnologica e produttiva. Su tali iniziative, di recente introduzione, non sono disponibili verifiche valutative.
3.3. Il dibattito sociale e politico
vede il sindacato e i partiti politici in difficoltà a ricomporre le posizioni contrapposte assunte in occasione del recente referendum relativo al modo di far fronte alla grave situazione di inflazione, a salvaguardare il potere d’acquisto del salario reale dei lavoratori dipendenti e a limitare l’incidenza del costo del lavoro nel mercato concorrenziale, europeo e internazionale.
Partiti e sindacato, d’altra parte, sperimentano la reale difficoltà di creare nell’attuale modello di sviluppo economico-sociale italiano nuovi posti di lavoro, almeno a medio termine, se non in collaborazione con politiche macro-economiche più espansive, concordate a livello CEE.
Tuttavia, politici e sindacalisti concordano nella necessità di superare forme di colpevole fatalismo, assumendo alcuni orientamenti operativi elaborati da esperti, studiosi ed economisti:
1. ricercare modalità di riduzione dell’orario di lavoro, senza aggravio di costo per le imprese;
2. introdurre nuove modalità nella prestazione di lavoro, con orari diversi e cumulabili;
3. correggere i meccanismi, superando forme esasperate di garantismo indiscriminato per favorire le posizioni più deboli e abbandonando tale garantismo nei confronti di chi si affaccia nel mondo del lavoro, in considerazione che il giovane possa realmente «essere protagonista della massima mobilità, dal lavoro al temporaneo non lavoro, dal lavoro in un settore a quello in un altro settore»;
4. concordare nuove normative sui contratti di lavoro, considerando la posizione dei giovani, per i quali il contenimento del salario di ingresso può essere ampiamente compensato dalle possibilità di trovare più facilmente occupazione;
5. consolidare e potenziare la creazione di cooperative, specie tra i giovani, sulla scorta della relativa solidità che tali forme assumono nel quadro complessivo del sistema economico italiano, oscillante tra recessione e sviluppo;
6. estendere le esperienze dei contratti di solidarietà nell’intento di sopperire ai gravi ritardi degli interventi strategici a livello istituzionale della politica del lavoro.
4. Alcuni orientamenti operativi
Un impegno adeguato rivolto ai giovani disoccupati o inoccupati non può essere improvvisato, né generico.
Gli orientamenti operativi devono riguardare anche la possibile azione preventiva per offrire efficaci strumenti di orientamento nel territorio, specie attraverso le istituzioni scolastiche e quelle di formazione professionale. Possibili criteri guida all’intervento operativo devono ispirarsi a ricercare risposte congiunte e coordinate, che partano da comuni valutazioni, che richiamiamo a conclusione di queste riflessioni.
La dimensione quantitativa della disoccupazione giovanile in Italia, pur presentando difficoltà e disomogeneità di rilevamento, costituisce i 3-4 circa della disoccupazione globale ed evidenzia il carattere strutturale del fenomeno, anche se aggravato da situazioni congiunturali socio-economiche.
Alla constatazione dei dati reali di un mercato del lavoro che non offre lavoro per tutti, si rileva la ripercussione peggiorativa dei soggetti più deboli e marginali.
I giovani occupati e disoccupati attuali non esprimono un particolare attaccamento al lavoro come valore; anche se non emerge un rifiuto del lavoro, né pratico, né ideologico.
II lavoro è strumento, è esperienza della propria vita e va assunto in un quadro negoziale di opportunità esistenziali; ma senza un coordinato vincolo normativo o etico e in vista di uno scambio per condizioni di vita e di status migliorativi.
I provvedimenti operativi posti in essere risultano parzialmente coerenti con l’analisi delle cause strutturali e congiunturali del fenomeno disoccupazionale; anche se il dibattito politico-culturale-sindacale è alla ricerca di soluzioni di medio e lungo periodo. Sul piano educativo e formativo sembra necessario predisporre nuove strategie atte a facilitare la fase difficile di transizione dei giovani alla vita attiva, evidenziando i tratti caratteristici di una cultura del lavoro condivisa dai giovani attuali, rivisitando categorie culturali ed etiche tradizionali per un’elaborazione progettuale che non perda di vista alcune caratteristiche positive che pure esistono nelle componenti negoziali di un impegno ritenuto dai giovani italiani molto importante come il lavoro.
Bibliografia
Midali M. - C. Semeraro (edd.), Disoccupazione giovanile in Europa. Problemi educativi e tentativi di soluzione, LDC, Leumann 1986.