CORPOREITÀ
Guido Gatti
1. Il corporeismo
1.1. Una riscoperta del corpo?
1.2. Il corporeismo come reazione a una cultura nemica del corpo
1.3. Un’etica a partire dai bisogni e dai piaceri del corpo
2. Una valutazione in prospettiva pastorale
2.1. Aspetti positivi
2.2. Limiti del corporeismo
3. Il significato della corporeità in una antropologia ispirata alla fede
3.1. L’uomo e il suo corpo
3.2. Il corpo e le sue esigenze
3.3. Il corpo e le sue gioie
3.4. La funzione comunicativa del corpo
4. Responsabilità etiche nei confronti del corpo
4.1. Inviolabilità della vita fisica
4.2. La promozione della vita
4.3. Comunicazione corporea e veracità
5. Per una progettazione educativa e pastorale
6. Conclusione
1. Il corporeismo
1.1. Una riscoperta del corpo?
Oggi si parla sempre più volentieri di una riscoperta della corporeità nella nostra cultura dopo secoli di occultamento e di oppressione del corpo. Effettivamente, si direbbe che la dimensione corporea dell’esistenza umana goda oggi di molta più attenzione che nel passato. Questa riscoperta sfocia, almeno implicitamente, in una ridisegnazione dell’immagine dell’uomo, che vorrebbe superare il preteso tradizionale dualismo tra corpo e spirito, con la subordinazione del primo al secondo.
Ma essa trova espressione anche nell’attenzione nuova rivolta a certi fenomeni di cultura popolare, come la danza, lo sport, la moda.
A questa nuova temperie culturale, oggi largamente diffusa, qualcuno ha voluto dare il nome di corporeismo.
Il corporeismo porta a una certa enfatizzazione dei bisogni e degli istinti del corpo, cui riconosce una certa saggezza provvidenziale in ordine alla felicità umana.
Esso fonda la sua fiducia nella affidabilità dei bisogni del corpo su un consapevole ottimismo nei confronti della originaria bontà dell’uomo in quanto «essere della natura»: l’uomo-organismo sarebbe un essere sano, naturalmente autoregolato, istintivamente aperto al sociale.
1.2. Il corporeismo come reazione a una cultura nemica del corpo
Diciamo subito che per una prima valutazione di questa, come di altre mode culturali, è necessario demistificare la retorica del finalmente che tanto facilmente le accompagna.
Dietro a questo «finalmente» c’è il mito illuminista del carattere progressivo e lineare della cultura e della storia, un mito che sembra resistere a tutte le smentite della realtà. La storia della cultura è vista come un accumulo progressivo di verità e come il dissiparsi irreversibile dell’errore e del pregiudizio.
In realtà l’avventura della ricerca della verità e della saggezza conosce anche involuzioni e sconfitte. Più che un andamento lineare essa sembra spesso presentare un moto pendolare, oscillante da un’unilateralità all’altra, magari per reattività emotiva: a una sopravvalutazione della razionalità succede una riscoperta unilaterale del ruolo dell’emotività e degli istinti; a un oblio del corpo una sua esaltazione unilaterale.
Ma questo non significa che la retorica del finalmente sia sempre del tutto ingiustificata: dietro la retorica c’è un’anima di verità. Il corpo è davvero oggetto, nella nostra cultura, di una considerazione positiva nuova e per tanti aspetti accettabile, soprattutto se raffrontata con una certa svalutazione unilaterale, propria del nostro passato culturale. Non si può certo affermare, come a volte si fa, che tale svalutazione, per il fatto di essersi attuata all’interno di una cultura di «cristianità», appartenga al cristianesimo come qualcosa di specifico e di essenziale, e che la rivalutazione del corpo sia invece un epifenomeno della scristianizzazione della nostra cultura.
Tale svalutazione è infatti troppo in contraddizione con l’antropologia rigorosamente unitaria dell’ebraismo, riflessa nella Bibbia, e con la stessa concezione, tipicamente cristiana, di una creazione originariamente «tutta buona» e di una redenzione universale che ha coinvolto, riscattandola ed elevandola, tutta quanta la realtà creata.
Resta però vero che un certo modo di intendere la dimensione pasquale della redenzione (la vita attraverso la morte) e la dimensione escatologica della salvezza (come attuatesi in un eone «totalmente altro» rispetto alla storia e in un mondo in qualche modo non più terrestre) unite all’influsso di forme di pensiero dualistico, come il manicheismo e il neoplatonismo, hanno di fatto favorito, nella tradizione cristiana, una certa unilaterale diffidenza nei confronti del corpo, visto come un carcere da cui evadere o uno schiavo renitente da padroneggiare. Non manca oggi chi sottolinea il legame occulto che unisce sotterraneamente la repressione del corpo ad altre forme di oppressione sociale e allo stesso atteggiamento predatorio nei confronti della natura che sembra caratterizzare la cultura occidentale: «L’oppressione sociale nella cultura occidentale è strettamente connessa con quella mentalità che ha partorito l’alienazione corporea e lo sfruttamento della natura» (R. Ruether, 28).
Un legame particolarmente stretto sembra esistere tra repressione del corpo ed oppressione e subordinazione della donna.
Al contrario, secondo i suoi fautori, il corporeismo si salderebbe con altri movimenti contemporanei di emancipazione come il femminismo, l’ecologismo, la liberazione del lavoro e dal lavoro. In particolare ci sembra degna di nota la rivendicazione di una connessione tra la rivalutazione del corpo e l’ecologismo (magari nella sua forma più ingenua, di nostalgia del passato remoto dell’umanità, tesa a un impossibile ritorno alla «natura pura»). Un altro collegamento significativo intercorre tra corporeismo e pacifismo: la pace è vista nella linea di una specie di riconciliazione con l’elemento corporeo e femminile della natura.
1.3. Un’etica a partire dai bisogni e dai piaceri del corpo
Naturalmente il corporeismo ha anche una sua etica, elaborata a partire dai bisogni naturali e spontanei del corpo e dal piacere che accompagna l’appagamento di questi bisogni. Si tratta quindi di una forma di edonismo, riposante sulla fiducia nella naturale saggezza e nel carattere costruttivo e in un certo senso provvidenziale di questi bisogni e di questi desideri.
Il movimento corporeista si riconosce in «un progetto comune di strappare il corpo alla presa alienante dei codici sociali, per restituirlo alla sua natura fondamentale di sorgente di piacere» (D. Picard, 136). «Il piacere è la legge profonda dell’organismo vivente (...). L’ideologia corporeista si appoggia dunque su un nuovo edonismo. Un uomo liberato è un uomo che ascolta il corpo, che ne segue i desideri» (Ibidem, 141). Naturalmente il campo privilegiato dove una simile legge del piacere corporeo gioca il suo ruolo di criterio del bene e del male e di guida del comportamento è quello dell’etica sessuale. La sessualità è così liberata da ogni finalità procreativa o di coesione sociale; le inibizioni etiche sono ridotte al minimo assolutamente imposto dalle esigenze di sopravvivenza del singolo e della società ed escludono dal suo esercizio solo la violenza in senso stretto. Essa resta affidata unicamente alla spontaneità immediata dei bisogni primari e alla sua capacità di produrre piacere.
2. Una valutazione in prospettiva pastorale
Naturalmente la pastorale, e la pastorale giovanile in particolare (dato che il corporeismo è molto radicato, almeno a livello di convinzione diffusa e atematica, nella cultura giovanile), deve sentirsi provocata da un fenomeno culturale così rilevante per la visione di fede e per la vita morale.
Esso chiama la pastorale giovanile a una riflessione articolata su almeno tre livelli:
— una valutazione etica dei valori e dei disvalori del corporeismo;
— un ripensamento del ruolo e del significato della corporeità nell’ambito di una antropologia ispirata alla fede;
— l’elaborazione di un progetto di intervento educativo orientato a una assunzione costruttiva della corporeità nell’ambito dell’educazione della fede.
2.1. Aspetti positivi
Gli aspetti accettabili di questo modo di pensare e di vivere il corpo sono legati al suo essere una reazione, entro certi limiti salutare, a quelle forme di dualismo e di disprezzo della corporeità che come si è visto caratterizzavano certi aspetti della cultura tradizionale: «Il movimento corporeista appare come una reazione contro una società fondata sul principio del rendimento, che tende a trasformare il corpo in macchina, contro una civiltà schizoide che favorisce in ciascuno la frattura fra carne e intelletto, tra interiore ed esteriore, tra intimo e sociale» (D. Picard, 163). Ma il corporeismo ha anche il pregio di valorizzare un aspetto importante della realtà dell’uomo: la funzione comunicativa del corpo, la sua capacità di esprimere significati attinenti alla stessa verità profonda dell’uomo. È proprio la mediazione della corporeità a rendere possibile ogni altra forma di comunicazione e di linguaggio e di comunicazione tra gli uomini. Gli stessi desideri e le tendenze spontanee del corpo portano verso l’altro e traducono, sia pure in maniera molto ambigua, il bisogno e la vocazione a forme di comunicazione non pragmatiche, non utilitaristiche, fondate sulla gratuità e sulla reciprocità dell’affetto.
2.2. Limiti del corporeismo
Ma il corporeismo ha anche i suoi limiti e le sue ambiguità, legate, come del resto i suoi aspetti positivi al suo carattere di reazione. Come molte altre forme di reazione, esso è almeno altrettanto unilaterale delle istanze contro cui reagisce.
La sua visione delle concezioni dualistiche del passato sono spesso segnate dal risentimento e non rendono giustizia a quello che il passato è stato in realtà.
La concezione corporeista, se non evita sempre e del tutto il dualismo gerarchico del passato (invertendo naturalmente le posizioni rispettive del corpo e dello spirito) diventa molto spesso una forma di monismo antropologico, un materialismo da cultura di massa. La sfiducia nella razionalità, che avrebbe senso come reazione contro la fredda razionalità funzionale, cui si ispira la cultura della tecnica, rischia di diventare il «sonno della ragione che genera i mostri».
L’edonismo etico in cui sfocia, a parte le difficoltà teoretiche di indole più generale che supponiamo dimostrate, finisce molto spesso per neutralizzare del tutto l’intuizione della funzione comunicativa ed espressiva del corpo, che si riduce così a una affermazione retorica, priva di sbocchi pratici.
Un’etica edonistica scade quasi inevitabilmente ad egocentrismo infantile; la capacità di comunicare resta subordinata al bisogno del piacere e alla schiavitù del desiderio immediato. «Il corpo non chiede permessi», dice il corporeismo nelle sue versioni più banalizzate, distruggendo così la possibilità stessa dell’etica. Ma anche nelle sue forme meno brutali, il mito dello spontaneismo, la fobia di ogni repressione, l’ossessione di una autenticità, ridotta all’assenza di ogni forma di autodominio, contribuiscono indubbiamente a creare quella «cultura della non-responsabilità» di cui giustamente ci si lamenta.
Tutte queste ambiguità, ci invitano a un ripensamento globale del significato del corpo in relazione alla elaborazione di un’antropologia ispirata alla fede.
3. Il significato della corporeità in una antropologia ispirata alla fede
3.1. L’uomo e il suo corpo
Il rapporto dell’uomo al suo corpo è un rapporto insieme intimo e complesso. Indubbiamente il corpo non va più visto (se mai lo è stato) come «altro» rispetto all’uomo, magari come un carcere per lo spirito o uno schiavo riluttante da assoggettare. Il rapporto dell’uomo al suo corpo non è né strumentale né possessivo: come diceva G. Marcel: «l’uomo non ha un corpo; è il suo corpo» (Journal Metaphysique, Paris, Gallimard 1935, 236).
Ma l’uomo è anche di più del suo corpo; vivendolo lo trascende. Questa trascendenza non comporta, almeno nella classica visione tomista dell’uomo, alcun dualismo di anima e di corpo. L’essere dell’uomo è caratterizzato da una specifica «unitotalità». Pur sperimentando spesso una certa tensione tra queste due dimensioni del suo esistere, egli è sempre e insuperabilmente unità di spirito e di corpo, in ognuna delle sue decisioni e delle attività con cui realizza sé stesso, agisce nel mondo e comunica con gli altri. Lungi dal rappresentare una minaccia per la sua spiritualità, il corpo è pienamente partecipe della dignità della persona.
Riallacciandosi alla antropologia unitaria di san Tommaso, la Chiesa ha riaffermato nel
Vaticano II, la dignità del corpo umano, intendendo togliere ogni ulteriore legittimazione alla svalutazione del corpo in nome dello spirito all’interno della spiritualità cristiana: «Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporea, gli elementi del mondo materiale così che questi, attraverso di lui, toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore» (GS 14). Il concilio sembra vedere nel corpo umano quasi una specie di sacerdote del cosmo, che fa della materia una celebrazione cosciente della gloria di Dio. «Allora — prosegue il concilio — non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli è anzi tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno» (GS 14).
È nota l’insistenza di Giovanni Paolo II su un certo tipo di discorso, che può essere giustamente considerato come una «teologia del corpo» e che vede nel corpo il segno della vocazione umana all’amore e alla comunione, un sacramento della natura essenzialmente sponsale dell’uomo e quindi un elemento integrante della sua somiglianza col Dio-amore.
3.2. Il corpo e le sue esigenze
Ma la dignità e il significato del corpo, all’interno dell’unitotalità umana, e in particolare della realtà sessuale, possono autorizzare la elaborazione di una morale a partire dal corpo, cioè dai bisogni e dai piaceri del corpo?
È troppo evidente che un’etica realistica, che tenga conto della complessità dell’esistenza umana, non potrà ignorare del tutto le indicazioni che le vengono dai bisogni, dalle tendenze e soprattutto dai significati del corpo. Ma è altrettanto chiaro che il corpo, né in quanto luogo di specifici bisogni, né in quanto organo di particolari piaceri, può aspirare ad essere criterio ultimo di valutazione etica. Per poterlo fare esso dovrebbe poter rappresentare per l’uomo quel senso ultimo che fonda tutta quanta l’esperienza morale; e questo, in un’antropologia che voglia restare compatibile con la fede è certamente impensabile.
Le nuove forme di schiavitù, di cui certa retorica del corpo finisce per farsi oggettivamente complice (si pensi ad esempio alla coltivazione dei bisogni artificiali, alla strumentalizzazione pubblicitaria del corpo, alla mercificazione del sesso) ci appaiono come indizi di questa impossibilità. Si possono denunciare queste schiavitù soltanto appellandosi ad un criterio che discrimini i bisogni del corpo, e li qualifichi come costruttivi o distruttivi di umanità, indipendentemente dal loro essere bisogni del corpo.
3.3. Il corpo e le sue gioie
Se non si può fondare un’etica a partire dai bisogni del corpo, meno ancora si può farlo a partire dai suoi piaceri.
Il piacere è la forza dell’istinto biologico. Negli animali è guida infallibile all’autoconservazione dell’individuo e della specie. Nell’uomo mantiene una funzione propulsiva insostituibile, ma ha bisogno della guida della ragione, per non mutarsi, come troppo spesso avviene, in una forza cieca e distruttiva non solo dei valori propriamente umani dell’uomo, ma anche dello stesso inestimabile patrimonio biologico che la natura consegna a ogni uomo.
Ma anche privo della infallibile efficacia che esso ha negli animali, il meccanismo piacere-dolore mantiene la funzione di protesta del corpo per le manomissioni irresponsabili di una libertà, che è padrona del corpo, solo nel riconoscimento degli insopprimibili condizionamenti che ad esso la legano.
È proprio questo condizionamento a fare della responsabilità verso il corpo, difesa anche dal piacere, una più generale responsabilità verso l’unitotalità dell’uomo e verso lo stesso destino dell’umanità: i nostri corpi costituiscono collettivamente il campo in cui si semina l’umanità di domani.
Le gioie del corpo mantengono comunque un carattere profondamente ambiguo: esiste nell’uomo decaduto, anche se redento in Cristo, una delectatio sensus contraria rationi, capace di oscurare la sensibilità morale e di impedire la aestimatio prudentiae, anche se la stessa cosa si deve dire pure delle gioie più sottili, ma ugualmente ambigue, dello spirito. Vigilare contro le potenzialità autodistruttive del desiderio corporeo, in nome della vocazione alla felicità e all’autorealizzazione è il compito di una ascesi non necessariamente ostile al corpo, ma consapevole della necessità di trascenderne l’immediatezza e la spontaneità.
Molta parte della denunciata diffidenza nei confronti del corpo da parte della tradizione cristiana muoveva da questa consapevolezza, sia pure superandone a volte la misura e il senso di ragionevolezza.
3.4. La funzione comunicativa del corpo
Questa necessità di cercare nel corpo un significato etico che stia al di là dei piaceri e dei bisogni del corpo conduce a una considerazione non secondaria della corporeità nell’elaborazione di un’antropologia ispirata alla fede. Ma tale considerazione non si fonda tanto sui bisogni o sui piaceri del corpo, quanto sulla sua funzione comunicativa. Alla unitotalità spirituale e corporea dell’uomo è legata infatti, come si è visto, una delle caratteristiche più specifiche dell’uomo: l’uomo vivendo il suo corpo ed esprimendosi in esso carica di significati spirituali tutta la sua realtà corporea: il corpo diventa, ancor più che uno strumento di comunicazione, il linguaggio originario e fondamentale dell’uomo, in cui si radicano tutte le altre forme derivate di linguaggio. Attraverso il corpo la persona umana interviene sul mondo materiale producendovi dei risultati; attraverso il corpo l’uomo comunica con gli altri uomini ed esprime sé stesso, creando dei significati e realizzando nel contempo quella verità del suo essere che egli esprime. Esprimendosi realizza la sua concreta fisionomia morale.
Le azioni umane non producono soltanto dei risultati, esprimono dei significati che dicono o tradiscono la verità dell’uomo. Questo è particolarmente vero nel campo della sessualità: essa è indubbiamente una realtà del corpo, ma proprio in forza della unitotalità dell’uomo, ne investe anche la dimensione spirituale, partecipa della sua natura di spirito incarnato, assumendo significati nuovi e trascendenti radicalmente il biologico, anche se ultimamente radicati in esso.
La sessualità umana non è soltanto una realtà strumentale, al servizio di determinati obiettivi, come la trasmissione della vita. È una forma di linguaggio che permette all’uomo di comunicare e, mettendolo in rapporto con l’altro, diverso e complementare, Io esprime e Io realizza.
4. Responsabilità etiche nei confronti del corpo
La preoccupazione etica che ispira (sia pure non in modo primario o esclusivo) tutta quanta la pastorale domanda una riflessione, almeno sommaria, sulle responsabilità morali legate alla dimensione corporea dell’esistenza umana e ai valori che essa esprime.
4.1. Inviolabilità della vita fisica
La prima di queste responsabilità riguarda il corpo in quanto dotato di vita e in quanto condizione-base per la vita spirituale dell’uomo. La vita fisica umana è un valore che domanda rispetto, sollecitudine e impegno di fruttificazione.
L’imperativo di non trattare mai la persona umana, in sé e negli altri, come un mezzo, è ritenuta da Kant come una specie di postulato euclideo su cui fondare tutta la normativa etica, come la formulazione più intuitiva e convincente dell’imperativo categorico e come la testimonianza più evidente del carattere incondizionato dell’istanza etica. Ora l’inviolabilità e l’assoluta non strumentalizzabilità della persona umana si riflettono direttamente sulla vita fisica e ne sanzionano il valore, la rendono sacra della sacralità stessa della persona.
La vita umana, già nella sua dimensione corporea è infatti la condizione di tutto ciò che è umano, quindi della vita spirituale, della storia e dell’esistenza concreta della persona umana.
Rispettarla in sé e negli altri è rispettare in radice ogni valore di umanità. Non rispetto nulla dell’uomo, se non ne rispetto la vita fisica per cui esiste.
Il credente poi, può cogliere la sacralità della vita, con molta più evidenza di chi non sa vederla nella luce di Dio. La vita vale quanto vale l’uomo; ma per nessuno l’uomo vale come per colui che ci vede un’immagine di Dio. Dio è il padrone della vita nel senso che ne è l’origine personale. La vita cioè non nasce dal gioco impersonale del caso, ma dalla volontà di una persona. E questo vale non solo per la vita in genere, ma per ogni vita, nella sua irripetibile individualità. Dio la vuole con una volontà piena di amore, così come ne vuole la felicità e tutto il pieno sviluppo, per essa concretamente possibile.
La vita è il talento che egli affida alla nostra libertà e di cui desidera la più ampia fruttificazione, non per riscuoterne gli interessi, ma perché ne ama la riuscita. L’incarnazione poi dà alla vita una sacralità nuova, direttamente teologale. Ogni uomo, per quanto piccolo e povero di potenzialità culturali e biologiche è, in Cristo, figlio di Dio, gli appartiene come un figlio al padre.
4.2. La promozione della vita
Ma le responsabilità verso il proprio corpo non possono essere di natura puramente negativa. La vita propria e altrui non ha solo bisogno di essere rispettata, domanda di essere promossa, favorita, sviluppata. E quello che potremmo chiamare la sollecitudine per la vita; per la vita propria ma anche per la vita di ogni uomo, ugualmente preziosa in sé stessa e agli occhi di Dio.
Ma la promozione della vita non può esaurirsi nella cura della vita in quanto corporea. L’uomo è chiamato dalla fede a dire un sì alla vita che non può esaurirsi nella semplice sua conservazione o nella promozione della sua dimensione corporea, pure fondamentale. Il corpo è il campo dove si sviluppa la vita umana totale, tendendo a una pienezza che è realizzazione di un progetto d’amore di Dio nei confronti dell’uomo.
Dire di no alla vita, non solo sopprimendola, o compromettendone funzionalità e salute, ma anche con ogni volontario spreco delle occasioni di crescita e di sviluppo che le darebbero senso, è dire di no a questa volontà di amore di Dio; è colpire in qualche modo Dio stesso, in qualcosa che gli appartiene per diritto di amore.
4.3. Comunicazione corporea e veracità
Come si è visto, il corpo non è solo il campo della vita, è il linguaggio di base che permette alla vita di farsi comunicazione e comunione. In particolare esso è chiamato a farsi, attraverso la sessualità, linguaggio dell’amore e dell’apertura alla vita. Questa chiamata è impressa nelle strutture creaturali dell’espressività corporea: il linguaggio del corpo non è totalmente arbitrario, esso rimanda a dei significati che entrano a costituire la verità profonda dell’uomo. Parlando il linguaggio del corpo l’uomo dice aspetti, sia pure parziali, della verità profonda di cui è fatto. La fedeltà a questa verità, la veracità nel suo esprimersi attraverso il corpo è per l’uomo una precisa responsabilità morale. Così ad esempio il gesto sessuale che tradisse l’amore o l’apertura alla vita, di cui inevitabilmente parla in forza della sua stessa costituzione, avrebbe in sé il negativo morale di una menzogna, in un campo in cui la verità tradita sarebbe parte integrante della verità stessa dell’uomo.
5. Per una progettazione educativa e pastorale
Anche in questo, come in ogni altro campo, l’educazione comincia dalla testimonianza: l’educatore deve insegnare con la parola ma soprattutto con l’esempio la sua fede nella grandezza, dignità, fecondità della vita e nella santità del corpo che la condiziona e la rende possibile. Ma dovrà includere il corpo e la vita fisica nel mistero della nostra partecipazione alla morte e risurrezione del Signore. Dovrà realizzare un difficile equilibrio dinamico tra valorizzazione del corpo e suo trascendimento; dovrà venerare il corpo, ma come tempio dello Spirito. L’educazione al dominio del corpo e delle sue pulsioni dovrà essere portata avanti nell’ambito di una più globale promozione della «forza dell’io», al di fuori di ogni disprezzo del corpo, che del resto non sarebbe comprensibile all’interno della nostra cultura.
La comunità ecclesiale dovrà realizzare forme concrete e associative di promozione della vita malata, umiliata, degli anziani e degli handicappati e dovrà coinvolgere il più possibile i giovani in quest’opera concreta di promozione. L’incontro con la sofferenza e la scoperta della sua capacità di produrre crescita di umanità servirà a smascherare la mitologia deteriore del corporeismo e a scoprire, al di sopra di tutte le grandezze e miserie del corpo umano, la speranza della risurrezione.
6. Conclusione
L’umanità del nostro corpo si definisce in base al suo essere principio di vita personale, corpo di una persona, cioè di un Io interpellato da un Tu, chiamato all’incontro e alla comunicazione interpersonale. Il corpo dell’uomo non può essere compreso se non come campo di compiti etici che fanno appello alla libertà dell’uomo e alla sua progettualità. Esso rimanda per sua costituzione ed essenza ad un parametro di bene e di male che sta al di là di esso. L’uomo è chiamato a fare, anche attraverso il corpo, la verità del suo essere unitotale, orientando il corpo verso un progetto etico di natura non puramente corporea. Con le sue energie e i suoi istinti, il corpo offre indizi preziosi della vera natura di questo progetto; ha una sua saggezza, ma non è generatore automatico ed infallibile di umanità.
Il corpo è uno dei segni della vocazione umana, ma non l’unico né quello cui può essere affidata l’ultima parola. La mitologia, oggi così diffusa, della spontaneità corporeista è smentita proprio dal corpo stesso: la forza, la salute, la bellezza, l’armonia e l’espressività del corpo sono frutto di rinunce e di disciplina; anche a livello di corpo, la vita umana non è creatività pura, gioco senza regole e senza costi. D’altra parte questa disciplina e queste rinunce non hanno come oggetto unicamente il corpo, ma la persona in quanto tale. Non è l’anima che deve disciplinare unilateralmente il corpo; corpo e anima devono accettare insieme la legge della verità, la difficile disciplina del diventare uomini attraverso l’impegno morale.
Ed è un impegno che nel corpo come nell’anima rimanda sempre al mistero della croce: è necessario morire a sé stessi per vivere alla verità del proprio essere. L’amore, che è il senso ultimo e l’autorealizzazione piena del corpo come dell’anima, coinvolge tutto l’uomo e lo realizza consumandolo, perché amare è donare e il dono è sempre un po’ rinuncia e autorinnegamento; anche se resta vero che nulla si possiede così pienamente come quello che si è donato.
Bibliografia
Chiavacci E., Morale della vita fisica, EDB, Bologna 1979; Picard D., Du codeau désir. Le corps dans la relation sociale, Dunod, Paris 1983; Ruether R., Per una teologia della liberazione delia donna, del corpo, della natura, Queriniana, Brescia 1976; Valerlani A., Il nostro corpo come comunicazione, La Scuola, Brescia 1964.