CHIESA

CHIESA

Luis A. Gallo

 

1. I problemi

1.1. La Chiesa come soggetto della pastorale giovanile

1.2. La Chiesa come spazio della pastorale giovanile

1.3. La Chiesa come obiettivo della pastorale giovanile

2. Alla ricerca di una adeguata ecclesiologia

2.1. Il Vaticano II, un concilio eminentemente ecclesiologico

2.2. La prima tappa del processo ecclesiologico conciliare

2.3. La seconda tappa del Vaticano II

2.4. La terza tappa del Vaticano II

2.5. Il periodo postconciliare

3. Un modello ecclesiologico per la pastorale giovanile

3.1. Sul soggetto ecclesiale della pastorale giovanile

3.2. Sulla Chiesa come spazio della pastorale giovanile

3.2.1. Nell’ambito della fede

3.2.2. Nell’ambito del culto

3.2.3. Nell’ambito dell’organizzazione e della conduzione

3.3. Sull’obiettivo della pastorale giovanile

 

1.​​ I problemi

In molteplici modi la pastorale giovanile fa riferimento alla tematica ecclesiologica, dal momento che la pastorale è in stretto rapporto con l’azione salvifica della Chiesa. Le problematiche principali in questo contesto possono concentrarsi attorno a questi tre gruppi: quelle riguardanti la Chiesa come soggetto di tale pastorale, quelle riguardanti la Chiesa come suo spazio, e quelle riguardanti la Chiesa come suo obiettivo.

 

1.1. La Chiesa come soggetto della pastorale giovanile

Chi può fare pastorale giovanile nella Chiesa? chi deve farla? solo chi ha in essa responsabilità strettamente «pastorali», e cioè i vescovi e i sacerdoti? sono forse gli assistenti e animatori dei diversi movimenti giovanili? magari anche i laici? e di questi, solo gli adulti o anche gli stessi giovani?

È la questione del soggetto ecclesiale di questa attività, che ha strettamente a che vedere in realtà con la stessa concezione di Chiesa con cui consciamente o inconsciamente vi si lavora, come avremo occasione di far vedere più avanti.

Se si dà uno sguardo, sia pur empirico, a ciò che capita nell’ambito della pastorale giovanile, si coglie senza grande sforzo una pluralità di situazioni da questo punto di vista, sia tra i giovani sia tra gli operatori pastorali. Tra i giovani si percepisce in genere una notevole tendenza al protagonismo, frutto indubbiamente di quella diffusa sensibilità culturale contemporanea che sottolinea ampiamente l’aspetto attivo della presenza dell’uomo nel mondo. Essi vogliono essere soggetti responsabili, anche pastoralmente, e non solo oggetto della cura pastorale altrui.

Non mancano però d’altra parte giovani che preferiscono essere guidati dagli adulti, e specialmente da quegli adulti che sembrano dare loro sicurezza in un mondo come l’attuale, nel quale molte cose, anche quelle che riguardano la fede, sembrano aver perso la fermezza e la solidità d’un tempo. L’ingresso di non pochi giovani in movimenti ecclesiali a forte strutturazione verticistica, nei quali vige chiaramente il criterio della sottomissione, sembra avere in ciò una delle sue motivazioni.

Gli operatori di pastorale giovanile presentano pure, da parte loro, una varietà di situazioni. Vi sono di quelli che tendono a monopolizzare il protagonismo pastorale, convertendo così i giovani in semplici destinatari delle loro cure e preoccupazioni.

Non rare volte sono questi coloro che offrono ai giovani suaccennati rifugio e sicurezza. Essi lavorano «per» i giovani, ma non «con» i giovani.

Ve ne sono altri invece che non solo rispettano, ma anche sollecitano il protagonismo giovanile, facendo crescere nei giovani con i quali lavorano il senso di responsabilità ecclesiale. Ciò avviene soprattutto dove il gruppo giovanile, concepito come luogo privilegiato dell’esperienza di fede, si sforza nel coltivare le note di una vera e rinnovata ecclesialità.

Non mancano infine pastori che, con il loro modo di gestire le cose, favoriscono nei giovani ciò che si potrebbe chiamare un protagonismo ad oltranza, ossia una loro totale o quasi totale autonomia nei confronti di coloro che nella Chiesa hanno l’ultima responsabilità.

 

1.2. La Chiesa come spazio della pastorale giovanile

Questa seconda questione interessa l’aspetto dell’appartenenza ecclesiale dei giovani coinvolti o da coinvolgere nella pastorale giovanile. In che senso e in quale misura essi devono stare entro la Chiesa? è proprio indispensabile che stiano nel suo «grembo materno» e abbiano chiara coscienza di tale appartenenza? è conveniente? Il problema si pone con particolare intensità oggi, in un momento di forte calo del senso di appartenenza. Inoltre, supposto che li si deva rendere «ecclesiali», quali sono i criteri di questa loro ecclesialità? come stabilirli?

In altri tempi era chiaro, anche in ragione di certe affermazioni ecclesiologiche, che tale appartenenza risultava decisiva. «Fuori della Chiesa non c’è salvezza», si diceva, e quindi un’azione di salvezza, sia rivolta a chiunque, non poteva non puntare a tale appartenenza. Di nuovo, quindi, è qui in gioco il modo di concepire la Chiesa e, più specificamente in questo caso, il suo ruolo nell’ambito salvifico.

Dal punto di vista del senso di appartenenza ecclesiale la pastorale giovanile presenta pure una diversità di situazioni. Tra i giovani in essa coinvolti ce ne sono di quelli nei quali questo senso è molto forte, delle volte perfino con risvolti combattivi. Sono specialmente i giovani appartenenti ad attuali movimenti ecclesiali nei quali si pone l’accento sul bisogno di identità, un’identità spesso concepita a sua volta come contrapposizione ad altre, religiose o sociali. Spesso questa loro appartenenza ha come termine solo la Chiesa universale, mentre resta disattesa l’appartenenza alla Chiesa locale.

Da altri giovani quest’appartenenza alla Chiesa è poco sentita; e anche il suo bisogno. È sufficiente, per le loro aspettative di fede, il piccolo gruppo con il quale si confrontano e nel quale si esprimono come credenti. Una tale disaffezione può avere diverse cause. Tra esse si possono elencare il senso della pesantezza dell’istituzione ecclesiale, la sensazione della sua lontananza dall’autenticità evangelica, la convinzione di una sua sfasatura storico-culturale, ecc.

Altri giovani vivono, da questo punto di vista, il fenomeno oggi non infrequente delle appartenenze deboli perché molteplici. Difficilmente essi si danno con esclusività o con intensità a una sola appartenenza, e preferiscono usufruirne simultaneamente di diverse.

Tra gli operatori di pastorale giovanile vi sono di quelli che considerano l’appartenenza ecclesiale in forma molto ristretta. Tendono a escludere da essa quei giovani che non stanno ai canoni tradizionali per ciò che riguarda soprattutto i contenuti della fede e le espressioni cultuali. Insistono sul bisogno di un loro inquadramento all’interno dell’organizzazione istituzionale, poiché considerano che solo così possono stare realmente nella Chiesa e, di conseguenza, assicurarsi anche l’accesso alla salvezza eterna. Non è raro trovarne alcuni, specialmente in certi movimenti ecclesiali, che coltivano nei giovani quel senso di combattività suaccennato.

Altri responsabili nell’ambito della pastorale giovanile si mostrano consapevoli dei condizionamenti che incidono sul senso di appartenenza ecclesiale dei giovani d’oggi. Cercano infatti di coltivare in essi tale senso, ma lo concepiscono e lo propongono in modo più largo, specialmente per ciò che riguarda i contenuti della fede e la vita sacramentale.

 

1.3. La Chiesa come obiettivo della pastorale giovanile

La questione, nell’ambito di questa terza problematica, si può esprimere così: la finalità della pastorale giovanile deve avere un carattere intraecclesiale o transecclesiale? In parole equivalenti, ma forse più chiare: l’azione pastorale tra i giovani deve mirare ultimamente a «edificare la Chiesa», o a qualcosa di più largo che debordi la Chiesa stessa? gli operatori di pastorale giovanile e — nel caso che siano ritenuti non solo destinatari ma anche soggetti — gli stessi giovani coinvolti nella pastorale giovanile, devono incanalare le loro energie verso obiettivi che hanno a che vedere con l’essere della Chiesa considerata al suo interno, o verso finalità che hanno a che vedere con le realtà del mondo in quanto tale? o con tutti e due?

Una terza volta dobbiamo constatare che, dietro le risposte che si danno a queste domande, c’è un determinato modo di pensare la Chiesa.

Le prese di posizione della pastorale giovanile al riguardo sono diverse. Tra i giovani — e tra i loro rispettivi pastori — vi sono di quelli che orientano prevalentemente le loro attività e i loro impegni in una linea intraecclesiale: maturazione della propria fede, impegno nel servizio catechistico, liturgico, organizzativo, nell’apostolato assistenziale, ecc. È la linea chiaramente predominante in molti movimenti attuali. Anche quando i giovani sono lanciati alla testimonianza in mezzo al mondo, ciò che spesso si propone loro come obiettivo è il diffondervi la fede e il darvi testimonianza di Cristo.

Ci sono anche giovani che si orientano primariamente a impegni di tipo strettamente umani, sia nell’ambito assistenziale sia in quello sociale e oggi, ma meno che alcuni anni fa, persino politico. Tra essi alcuni lo fanno con mentalità competitiva, nel senso di voler mostrare la superiorità della fede cristiana nei confronti di altre proposte religiose o semplicemente sociali e politiche; altri invece agiscono con mentalità di neocristianità, quasi volendo ricuperare il mondo alla fede e alla Chiesa.

Non mancano giovani — e anche operatori di pastorale giovanile — che, fortemente consapevoli dell’autonomia delle realtà create, s’impegnano nell’umano rispettando pienamente tale autonomia. Spesso un impegno di questa natura crea in essi dei problemi riguardanti il senso di appartenenza ecclesiale. Non è raro il caso in cui cominciano strettamente agganciati alla Chiesa e finiscono staccandosene completamente.

 

2. Alla ricerca di una adeguata ecclesiologia

Le problematiche or ora accennate rivelano, come si è potuto certamente intravedere, resistenza di un certo pluralismo di ecclesiologie. Dietro le diverse prese di posizione elencate nell’ambito del soggetto, dello spazio e dell’obiettivo della pastorale giovanile, sono in gioco diverse concezioni di Chiesa. Ciò solleva alcune domande: sono esse tutte ugualmente valide? si possono continuare a mantenere tutte indifferentemente quali matrici delle impostazioni pastorali? esistono criteri oggettivi che portino a farne, se ne è il caso, una cernita?

Una prima risposta globale, che cercheremo di fondare e di esplicitare in seguito, è la seguente: salve le intenzioni soggettive, da rispettare sempre, bisogna riconoscere che non tutte le ecclesiologie oggi in vigore sono oggettivamente dello stesso valore, soprattutto se si tiene conto di quanto in questo ambito è accaduto dal Vaticano II in poi, e di quanto ciò sia decisivo dal punto di vista teologico e pastorale.

 

2.1. Il Vaticano II, un concilio eminentemente ecclesiologico

Un primo dato va tenuto presente: il Vaticano II, dopo i suoi primi momenti di sconcerto e di quasi smarrimento, trovò il suo filo conduttore nella tematica ecclesiologica. Infatti, l’impulso carismatico con il quale papa Giovanni XXIII aveva dato avvio al Concilio, trovò presto i suoi primi ostacoli quando si trattò di dare unità alla vasta mole di documenti preparata nel periodo preconciliare. L’intervento, verso la fine del primo periodo del Concilio, di due autorevoli Padri conciliari (i card. Suenens e Montini) contribuì a trovare l’orientamento desiderato. Tutti e due insistettero sul bisogno di fare del tema della Chiesa Tasse portante delle riflessioni conciliari. Dopo duemila anni di storia, la Chiesa radunata in concilio si propose di tornare ad autodefinirsi nella sua natura e nella sua missione (Paolo VI). E portò a compimento con tenacia e coraggio questo suo proposito. L’esito è così evidente, che tutti i sedici documenti approvati dal Concilio possono articolarsi logicamente attorno alle sue due costituzioni ecclesiologiche, la costituzione dogmatica​​ Lumen Gentium​​ e la costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes.

Ma, insieme a questo primo dato, ne va tenuto presente un secondo, di non minore importanza: la riflessione ecclesiologica svolta dal Concilio costituì un autentico processo di trasformazione dell’autocoscienza della Chiesa, una vera metamorfosi dalla quale essa uscì profondamente modificata, pur mantenendosi sostanzialmente identica a sé stessa. E, come ogni processo, anche questo implicò delle tappe successive. II Concilio non va preso quindi piattamente, come se tutti i suoi documenti avessero esattamente lo stesso valore. Va inteso invece evolutivamente, come un cammino nel quale ogni tappa supera la precedente, e nel quale la meta si raggiunge solo alla fine. Di più ancora: per il fatto stesso di trattarsi di una dinamica evolutiva, il suo risultato finale va preso come provvisorio e aperto a nuovi passi verso ulteriori formulazioni.

La legittimità di questo processo di trasformazione nella concezione della Chiesa è data dal principio dell’inculturazione, fortemente sottolineato in questi ultimi anni nella riflessione ecclesiale (cf EN).​​ Tale principio esige che i contenuti della fede vengano proposti ai propri referenti o destinatari secondo le esigenze delle loro sensibilità culturali, in modo tale che non ci sia posto per una «rottura tra Vangelo e cultura» (EN 20c). In realtà, detto principio è stato sempre in vigore nella Chiesa, consciamente o inconsciamente, eccetto in quei casi in cui, davanti a nuove situazioni culturali, invece di tentare nuovi modi di evangelizzazione, si è preferito ripetere semplicemente quanto era stato elaborato in antecedenza. Non c’è quindi da stupirsi se, durante la celebrazione del Vaticano II, il modo di concepire la Chiesa abbia subito successive modifiche. Lo esigevano le circostanze culturali contemporanee, profondamente cambiate (cf GS 4-5). Concretizzando questo secondo dato e analizzando il processo conciliare, vi si possono scorgere tre tappe abbastanza chiaramente riconoscibili: una prima, segnata dall’abbandono ufficiale di una determinata concezione della Chiesa; una seconda, consistente nella proposta di una sua nuova concezione, espressa soprattutto nella costituzione dogmatica​​ Lumen Gentium; una terza, costituita dalla successiva proposta di un’altra concezione ecclesiologica, contenuta almeno germinalmente nella costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes.

Se le cose stanno in questo modo, come cercheremo di far vedere nel prosieguo dell’esposizione, si deve riconoscere subito che, contrariamente a quanto spesso si è soliti dire, l’ecclesiologia del Vaticano II non è solo né principalmente quella della​​ Lumen Gentium,​​ anzi, bisognerebbe concludere che la concezione ecclesiologica conciliare più caratteristica e più — relativamente — matura, è quella della​​ Gaudium et Spes.​​ Ma su questo torneremo più avanti, data l’importanza che ha per la sua incidenza sulla pastorale.

 

2.2. La prima tappa del processo ecclesiologico conciliare

Diversi fattori di ordine interno alla Chiesa erano andati creando, nei decenni che precedettero il Vaticano II, un’esigenza di cambiamento profondo. Tra essi si iscrivono specialmente i diversi movimenti sorti a partire dalle ultime decadi del secolo scorso. In concreto, il movimento di ritorno alle fonti bibliche e patristiche, che risvegliò tra i cattolici l’attenzione nei confronti di tematiche di notevole portata ecclesiologica quali quelle della Chiesa Corpo di Cristo, Sposa di Cristo, Popolo di Dio, ecc.; il movimento ecumenico, che aiutò a riscoprire i valori e le ricchezze ecclesiali presenti nelle altre confessioni cristiane; il movimento liturgico, che contribuì tra l’altro a superare la tendenza individualista anche e soprattutto nell’ambito cultuale, mediante la sua insistenza sulla dimensione comunitaria delle celebrazioni liturgiche; il movimento missionario, che nel contatto con i popoli non ancora evangelizzati aiutò a cogliere i valori propri di certe espressioni religiose, e a mettere in questione una concezione ristretta della salvezza; e il movimento laicale, che spinse tra l’altro a rivedere il modo di concepire i rapporti tra i diversi membri della Chiesa.

Ma c’erano anche dei fattori d’ordine semplicemente umano-sociale che, incidendo sui membri della Chiesa in quanto uomini di questo mondo, urgevano un cambiamento. Tra questi, soprattutto i due più grossi fenomeni culturali del processo di personalizzazione, che mise al centro dell’attenzione l’uomo in quanto essere personale e interpersonale, e il processo di socializzazione, caratterizzato dalla crescita della coscienza sociale e dal moltiplicarsi dei rapporti ad ogni livello, non escluso quello planetario.

Sensibili in maggior o minor misura a queste esigenze, molti Padri conciliari arrivarono al Concilio con il proposito di «aggiornare» la Chiesa (Giovanni XXIII). Tale aggiornamento significò, anzitutto e come prima tappa del processo, l’abbandono ufficiale di un modo di concepirla che aveva attraversato i secoli senza sostanziali modifiche e che, specialmente dopo il Concilio di Trento e il Vaticano I, aveva acquistato ancora maggior consistenza e caratteristiche peculiari. Si tratta di quello che è stato chiamato il modello ecclesiologico istituzionale (cf. Dulles,​​ Modelos​​ 35-47; Fries,​​ Mutamenti​​ 283-330).

Le radici storiche di tale modello si possono ritrovare nel lontano secolo IV, quando Costantino decise di rendere lecita resistenza del cristianesimo nell’Impero Romano, un’esistenza prima considerata illecita e addirittura pericolosa per l’Impero stesso. Da allora la Chiesa iniziò un processo di vasta trasformazione, mediante il quale andò sempre più affermandosi la tendenza ad accentuare prevalentemente i suoi aspetti istituzionali, societari e organizzativi. Senza tradire la sua sostanziale natura evangelica, andò assimilando molti aspetti della società civile o politica, modellandosi in diversi aspetti su di essa. La difesa contro pericolosi attacchi alla sua identità, come quelli che coartavano la sua libertà di azione al tempo di Gregorio VII, o quelli che intaccavano aspetti essenziali della sua organizzazione al tempo della Riforma protestante o del Vaticano I, ebbe come effetto un’ulteriore accentuazione in questa linea. Il vertice in tale processo è costituito, già vicino a noi nel tempo, dalla dottrina della Chiesa quale «società (giuridicamente) perfetta» contrapposta, quale società spirituale, all’altra, quella temporale dello stato.

Tale accentuazione istituzionale o societaria costituisce il tratto più saliente di questo modello ecclesiologico. Ma oltre a questo tratto fondamentale, alcuni altri da esso derivati o con esso connessi contribuiscono a disegnare il volto della Chiesa in tale modello. Si tratta di una serie di accentuazioni presenti nell’ambito di quei rapporti che costituiscono come la spina dorsale di ogni ecclesiologia. Li prendiamo ora in considerazione molto succintamente e schematicamente, consci del rischio di impoverimento e di deformazione della realtà che comporta ogni schematizzazione. Tanto più trattandosi di secoli di storia. Ci interessa però far apparire le linee caratterizzanti che, al di là dei dettagli, tratteggiano questo modello ecclesiologico e lo differenziano da altri. Avvertiamo, a scanso di equivoci, che la descrizione che faremo non intende essere un giudizio di valore, ma solo una constatazione, certamente poco sfumata, delle linee di tendenza presenti nel lungo arco di secoli in cui questo modello stette in vigore.

1) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa e Cristo viene sottolineata, in questo modello, la continuità tra essa e il suo Fondatore, focalizzandola soprattutto nella linea del potere. La Chiesa è l’istituzione che, nei suoi capi (papa, vescovi, sacerdoti), ha ricevuto i poteri sacri che Cristo stesso aveva ricevuto a sua volta da Dio per la salvezza degli uomini. In concreto, i poteri di insegnare, santificare e governare (cf Mt 28,18-20).

2) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa e salvezza vi è la tendenza ad accentuare l’idea dell’esclusività salvifica ecclesiale. Il famoso assioma enunciato da san Cipriano al secolo III servì, benché interpretato in una chiave diversa da quella in cui la scrisse il suo autore, ad esprimere tale idea: «Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza». A poco a poco si andò affermando la tendenza a pensare la possibilità di salvezza come circoscritta all’ambito dell’istituzione ecclesiale. Diciamo «quasi» perché, in realtà, uno spiraglio rimase sempre aperto. Per esempio, mediante la dottrina del battesimo di desiderio per coloro che non arrivavano a conoscere esplicitamente il Vangelo. L’incidenza di questo modo di capire il rapporto Chiesa-salvezza su altri aspetti della dogmatica e della pastorale, per esempio sulla concezione e la prassi battesimali, è stata notevole.

3) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa e Regno di Dio prevale la tendenza ad affermare la coincidenza o identificazione tra i due: la

Chiesa è il Regno di Dio e di Cristo sulla terra. E se ne traggono le logiche conseguenze per ciò che riguarda la santità e la verità. Si tende perciò a sottolineare il loro possesso da parte della Chiesa, in contrapposizione alla corruzione, al peccato, all’errore e alla menzogna esistenti al di fuori di essa. Dopo il Concilio di Trento, per via della lotta contro la Riforma protestante, tale tendenza acquista notevoli proporzioni e si manifesta anche in diverse espressioni artistiche, nelle quali trova espressione un certo palese trionfalismo.

4) Nell’ambito del rapporto tra i membri della Chiesa ha una forte incidenza l’impostazione strutturale che questa Chiesa si è andata dando nel tempo, impostazione di tipo accentuatamente piramidale. È il riflesso del modo in cui era organizzata la società civile, sia quella imperiale inizialmente, sia quella feudale o quella dei regni o degli stati autonomi poi. Tale struttura comporta una gerarchia di potere e di dignità, nella quale vi è un vertice che concentra in sé tutta la potestà sacra e tutta la dignità, potestà e dignità che vanno poi diminuendo gradatamente fino ad arrivare alle basi che ne sono prive. Conseguenza di una tale strutturazione è la separazione tra chierici e laici. Questi ultimi costituiscono la base della piramide e si rapportano ai primi prevalentemente in chiave di ubbidienza e sottomissione.

5) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari prevale una visione tendenzialmente monolitica e uniforme, nella quale le Chiese particolari appaiono come parti dell’unica grande Chiesa, affidate all’amministrazione di responsabili di gradi inferiori, e nelle quali tutto si realizza fondamentalmente allo stesso modo. Nel periodo postridentino quest’impostazione venne rafforzata, in Occidente, come mezzo per arginare il rischio di disgregazione e sgretolamento creato dalla Riforma protestante.

6) Nell’ambito del rapporto tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane vige prevalentemente, in questo modello istituzionale, il principio dell’integrismo, secondo il quale o una Chiesa ha tutto ciò che si richiede per essere tale e allora è veramente la Chiesa di Cristo, o manca di qualche componente e allora non può venir considerata tale. L’applicazione di tale principio porta a concludere che solo la Chiesa cattolico-romana possiede tutto ciò che Cristo ha voluto dal punto di vista dell’ecclesialità, e che quindi solo essa è l’unica vera Chiesa di Cristo. Uno dei punti discriminanti al riguardo, specialmente a partire dalla definizione dogmatica del Vaticano I (Costituzione​​ Pastor Aeternus),​​ è il Primato di giurisdizione del papa quale vescovo di Roma. Le confessioni cristiane che non Faccettano, anche quelle più vicine al cattolicesimo, non vengono riconosciute come Chiese. Una lunga storia di conflitti sorti tanto in Oriente quanto in Occidente è espressione di tale convinzione.

7) Nell’ambito del rapporto Chiesa e mondo si riscontrano due situazioni diverse, rispondenti a loro volta a due diverse accezioni del termine «mondo».

Se per esso s’intende tutto ciò che si oppone a Dio e al Vangelo, quindi tutto ciò che è al di fuori della Chiesa stessa, allora l’atteggiamento predominante è quello del rifiuto e della condanna. La Chiesa gli si oppone come il Regno di Dio si oppone a quello del diavolo, la verità alla menzogna, il peccato alla grazia, la salvezza alla perdizione. Perciò si sente il bisogno o di fuggire da esso (monachesimo, vita religiosa) o di andare a convertirlo (missioni).

Se invece per mondo s’intende invece semplicemente le realtà terrene, temporali, allora l’atteggiamento prevalente è spesso quello del loro ricupero: le si considera quali mezzi da utilizzare in ordine al fine spirituale ed eterno della Chiesa. Esempi concreti in questo contesto sono quello della politica, nel cui ambito più di una volta il potere temporale viene considerato come una concessione della Chiesa ai governanti, oppure viene esercitato sacralmente dagli stessi ministri ecclesiali; e quello della scienza, nel cui ambito fatti più recenti quali quello di Galileo rivelano una concezione sacrale del sapere umano. È questo — naturalmente semplificato al massimo — il modello di Chiesa che venne abbandonato ufficialmente, non senza travaglio e difficoltà, dal Vaticano IL Tali difficoltà sono facilmente spiegabili soprattutto se si tiene conto dell’inerzia che i secoli in cui esso stette in vigore produceva negli stessi membri della Chiesa.

 

2.3. La seconda tappa del Vaticano II

Abbandonando il modello di Chiesa-istituzione il Concilio non creò un vuoto ecclesiologico; ne propose un altro, ritenuto più adeguato alla nuova sensibilità del momento (cf Acerbi,​​ Da una ecclesiologia).​​ Ripensò cioè tutta la Chiesa a partire da un’altra prospettiva che, senza trascurare gli aspetti organizzativi e istituzionali sensibilmente accentuati nel modello precedente, li incorpora in un modo nuovo di concepire l’intera realtà ecclesiale. Tale ripensamento ebbe luogo soprattutto durante l’elaborazione della costituzione dogmatica​​ Lumen Gentium,​​ che a sua volta esercitò un ampio influsso sui restanti documenti conciliari.

Si potrebbe sintetizzare il senso di questo tentativo dicendo che la nuova prospettiva assunta dal Concilio fu caratterizzata da un guardare la Chiesa non più prevalentemente dal di fuori ma, viceversa, dal di dentro. E mediante questo rinnovato sguardo, l’assise ecumenica mise al centro della sua attenzione «il mistero della Chiesa» (cf LG cap. I), un mistero percepito ed espresso in chiave di comunione: comunione con Dio e comunione tra gli uomini.

Si fece avanti, quindi, la proposta di un modello ecclesiale comunionale, frutto dell’influsso esercitato sui partecipanti al Concilio dal fenomeno della personalizzazione in corso nel mondo contemporaneo. In questa nuova impostazione, perché ci sia Chiesa non ci vuole anzitutto che esistano delle organizzazioni e delle strutture, ma che ci sia comunione con Dio e tra le persone e i gruppi da loro costituiti, ad ogni livello. Una comunione, si capisce, fondata sulla fede in Gesù Cristo e nutrita e guidata da essa. Di tale comunione la Chiesa è chiamata ad essere, in Cristo, «sacramento, ossia segno e strumento» (LG 1).

Come già nel modello precedente, anche in questo una serie di accentuazioni vengono a delineare più specificatamente il volto della Chiesa. Si tratta di accentuazioni presenti negli stessi ambiti sopra esaminati, e che ora descriveremo in maniera ugualmente molto schematica. Esse contrastano con le accentuazioni fatte nel modello istituzionale e, a volte, si contrappongono ad esse, facendo così risaltare più palesemente le diversità esistenti tra i due modelli.

1) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa e Cristo viene anche qui sottolineata la continuità, ma non già nella linea dei poteri, bensì in quella della sacramentalità comunionale. Così come Gesù Cristo è stato il grande sacramento della comunione con Dio e tra gli uomini, così deve cercar di esserlo anche la Chiesa. La «sacra potestà» (cf LG 18a) è al servizio di tale comunione, e ha senso solo in tale luce. Insegnare, santificare, governare sono i modi concreti con cui si serve la crescita dell’intero Corpo di Cristo.

2) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa e salvezza si accentua la dimensione universale di quest’ultima, facendo quindi della Chiesa non già il luogo esclusivo del suo conseguimento, ma piuttosto il suo «sacramento» in mezzo al mondo. Siccome poi la stessa salvezza è pensata come comunione con Dio e tra gli uomini (cf LG 1), si ritiene che là dove c’è — esplicitamente o implicitamente — tale comunione, ci sia anche salvezza. È per questa ragione che si arriva ad affermare la possibilità di salvezza per coloro che, pur non essendo pervenuti — senza propria colpa — ad accettare Dio, si sforzano di condurre una vita giusta (cf LG 16). Così, senza negare la portata salvifica della Chiesa (cf LG 14), si sostiene allo stesso tempo la presenza di tale salvezza anche oltre i suoi limiti visibili.

3) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa e Regno di Dio si evidenzia la loro non totale coincidenza attuale. La Chiesa viene pensata quale «germe» di tale Regno sulla terra (cf LG 5c), e per di più quale germe segnato dalla provvisorietà e dall’imperfezione (cf LG​​ 48c), e persino dal peccato (cf LG 8c). Il Regno, infatti, è ritenuto come più grande della Chiesa e come la ragion d’essere di questa. Da tali asserzioni si traggono delle conclusioni sia per ciò che riguarda la santità, sia per ciò che riguarda la verità: da una parte, la Chiesa non ne ha il monopolio, e, dall’altra, non tutto ciò che è al di fuori di essa è peccato, corruzione, menzogna ed errore. Non ci sono quindi motivi che giustifichino atteggiamenti trionfalistici.

4) Nell’ambito dei rapporti tra i membri della Chiesa le accentuazioni sono di speciale rilievo e pregnanza pratica in questo nuovo modello. È forse l’aspetto in cui più nitidamente si coglie la sua diversità nei confronti del modello istituzionale.

Il dato fondamentale è che in questa prospettiva ecclesiologica vengono posti in prima linea i rapporti di uguaglianza fraterna e di servizio vicendevole tra tutti i membri della Chiesa (cf LG 18a.32., ecc.). Ciò dipende dal fatto che, già nel capitolo secondo della Costituzione dogmatica, viene affermata, come fatto primo e basilare, la realtà della Chiesa come Popolo di Dio, un Popolo nel quale tutti sono fondamentalmente uguali in ragione del battesimo che li rende figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo. Solo dopo, e senza intaccare minimamente questa radicale uguaglianza fraterna, viene affermato il fatto secondo, consistente nella diversità dei servizi all’interno della comunità ecclesiale.

Questo dato fondamentale comporta delle grosse conseguenze. Anzitutto, per l’organizzazione strutturale della Chiesa. Essa non è più pensata come piramidale, ma come comunionale: nessuno al di sopra di nessuno, nessuno più degno di nessuno, ma tutti in comunione fraterna a cerchi sempre più larghi, che arrivano sino ad abbracciare l’intera comunione universale.

Poi, e con logica coerenza, per il superamento della divisione tra chierici e laici. Quella tendenza del modello ecclesiale istituzionale che aveva portato praticamente a fare dei cristiani non-chierici (e non-religiosi) dei cristiani «di seconda categoria», viene ora superata radicalmente: tra gli uni e gli altri non c’è separazione né, molto meno, asimmetria sostanziale, ma solo diversità carismatica basata sul tipo di servizio assegnato ad ognuno dallo Spirito e riconosciuto dalla comunità. Più concretamente, nella Chiesa-comunione non ci sono cristiani-soggetti da una parte, e cristiani-oggetto dall’altra; non c’è una Chiesa-solo-docente​​ (Ecclesia docens)​​ e una Chiesa-solo-discente​​ (Ecclesia discens),​​ ma una sola comunità in cui tutti sono soggetti, benché in modi diversi, e una Chiesa tutta docente e tutta discente benché, anche qui, in modi diversi.

Infine, e in collegamento con quanto è stato appena detto, c’è in questa ecclesiologia una rivalutazione del «sacerdozio comune o dei fedeli» (cf LG 10-12.34). Una delle conseguenze dell’accentuazione del modello ecclesiologico precedente era stata appunto la quasi totale perdita della coscienza di ciò, tanto nella teologia quanto nella pastorale. Lutero aveva lottato per risvegliarla e le aveva riservato un posto rilevante nella sua contestazione, ma proprio per questo la Chiesa postridentina sentì il bisogno di controbattere con la forte sottolineatura del sacerdozio ministeriale. Si finì in questo modo con il circoscrivere la dimensione sacerdotale della Chiesa all’ambito di quest’ultimo. Ora, invece, si torna a ribadire la realtà universale del sacerdozio di tutta la Chiesa, senza per questo escludere 1’esistenza di un sacerdozio ministeriale, quello appunto dei ministri ordinati: essi esistono nella comunità ecclesiale al servizio del sacerdozio di tutti, che è un sacerdozio fondamentalmente «spirituale» (cf LG 34b).

5) Nell’ambito del rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari si registra pure una grossa novità nei confronti della situazione anteriore. Questa ecclesiologia di comunione riconosce alle Chiese particolari una reale consistenza ecclesiale grazie alla quale, anziché essere ritenute quali semplici suddivisioni della Chiesa universale, vengono considerate delle autentiche Chiese nel vero senso della parola. Chiese che, senza rinnegare la loro propria originalità e diversità, sono in comunione con tutte le altre Chiese sorelle del mondo e con il loro centro di comunione universale costituito dalla Chiesa di Roma e, in essa, dal suo Vescovo (cf LG 13c.; 26a). Ciò consente loro di mantenere un’adeguata attenzione, da una parte, alla peculiarità propria della loro realtà e, dall’altra, alle problematiche che investono la Chiesa intera.

6) Nell’ambito del rapporto tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane viene sostituito il principio dell’integrismo con quello della gradualità nella comunione (cf UR​​ 3a). In forza di questo principio viene riconosciuta, anzitutto, l’esistenza di vere ricchezze e di autentici valori ecclesiali nelle confessioni cristiane non cattoliche e, poi, viene proposto, quale atteggiamento fondamentale nei rapporti con esse, quello della fratellanza che tende a creare una sempre più piena comunione in tutti i sensi. È in base a queste prese di posizione che nel Concilio vennero caratterizzate con il titolo di «Chiese» almeno alcune delle principali confessioni cristiane.

7) L’ambito del rapporto con il mondo è quello che resta più disatteso in quest’impostazione ecclesiologica. Ed è ciò che costituisce precisamente il suo punto debole. È vero, il mondo non è più visto qui in forma prevalentemente negativa come prima, ed è pure riconosciuto ormai nella sua autonomia propria e non quindi considerato come un semplice mezzo da utilizzare in ordine ai fini ecclesiali (cf LG 13; 36b.c); ma la sensibilità di fondo che trapela da questa ecclesiologia è che il mondo e il rapporto della Chiesa con esso costituiscono come un’appendice secondaria, una aggiunta estrinseca ad essa. Questa Chiesa comunionale non ha in realtà bisogno del mondo per autodefinirsi, lo può fare a prescindere da esso. Tutt’al più il mondo, nella sua consistenza, è il luogo dove essa, soprattutto attraverso i suoi membri laici (cf LG 30.3lb.36), esercita in maniera del tutto speciale la funzione regale comunicatale da Cristo. Si tratta ancora, per dirlo in breve, di una visione accentuatamente ecclesiocentrica.

 

2.4. La terza tappa del Vaticano II

Già dai primi momenti della celebrazione del Concilio si era manifestata una certa inquietudine da parte di alcuni dei suoi membri, per via della prevalente linea eccessivamente ecclesiocentrica dei documenti preparati per la discussione. Nessuno di essi, in effetti, era dedicato espressamente ai grandi problemi che affliggono l’umanità attuale. Fu questa inquietudine che portò all’elaborazione del messaggio dei Padri conciliari al mondo, un testo che conteneva già in sé, come in un germe, un nuovo orientamento ecclesiologico. Mentre la linea comunionale continuava a svilupparsi apertamente e a produrre dei ricchi frutti, a poco a poco si fece sentire anche il bisogno di rivolgere l’attenzione conciliare verso le realtà del mondo attuale in quanto tale. Ne venne fuori un nuovo documento, non previsto, che dopo non poche né facili vicende, finì coll’essere la costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes.​​ Soprattutto nella sua prima parte, la più caratteristica, essa si fa portatrice di una nuova impostazione ecclesiologica che, non rinnegando né ignorando bensì riprendendo tutte le ricchezze apportate dalla linea comunionale, è segnata fondamentalmente dalla nota di trans-ecclesialità. 11 giorno stesso della sua approvazione, vigilia della conclusione del Concilio (7.12.1965), Paolo VI ne condensò la sostanza nella programmatica espressione: «La Chiesa si dichiara serva dell’umanità».

Il nuovo modello di Chiesa proposto dal Vaticano II nel momento più alto della sua maturazione è, quindi, un modello di Chiesa-al-servizio-dell’umanità. Ciò significa diverse cose.

Anzitutto, significa che essa considera sé stessa non quale fine, ma quale mezzo. Il suo fine è il mondo degli uomini, questa umanità-storia in cammino verso il suo futuro, piena di speranze e conquiste ma anche di timori e sconfitte (cf GS 1-2); questo mondo che, secondo il progetto di Dio, è chiamato alla salvezza mediante la sua trasformazione in Regno di Dio. La Chiesa, comunità dei discepoli di Gesù Cristo (cf GS 1), esiste in mezzo ad esso — non contro di esso, non al di sopra di esso, o accanto ad esso — per collaborare alla sua crescita, con tutti i mezzi che il suo iniziatore Gesù Cristo le ha lasciato. È, quindi, una Chiesa che ha bisogno del mondo per autodefinirsi. Detto in altre parole, il mondo entra nella definizione stessa della Chiesa, come un suo costitutivo intrinseco.

Chiesa-al servizio-dell’uomo significa, inoltre, che il suo atteggiamento fondamentale nei confronti di questo mondo non è quello del dominio, ma quello del servizio, un servizio che si concretizza, tra l’altro, in una volontà costante di dialogo con esso (cf GS 3b). Significa anche, infine, che l’attenzione della Chiesa non deve essere rivolta prioritariamente ai problemi intraecclesiali, pur importanti e da non disattendere, ma verso quelli trans-ecclesiali, quelli cioè che riguardano gli uomini in quanto tali.

Come si vede, questa nuova impostazione modifica quella precedente nel suo orientamento di fondo: non più ecclesiocentrismo, ma antropocentrismo; non più una comunione ripiegata su sé stessa, ma una comunione finalizzata espressamente al servizio dell’umanità. Le conseguenze di un tale cambiamento sono profonde ed estese. Il Concilio non ebbe tempo di considerarle, e affidò al postconcilio il compito di farlo (cf GS 91a.b). Volendo ora specificare i principali tratti che delineano il volto di questa Chiesa-serva-dell’umanità, si deve tener presente anzitutto che, come si è già anticipato, essa accoglie e fa sue tutte le sottolineature dell’ecclesiologia di comunione negli ambiti dei diversi rapporti esaminati (Chiesa-Cristo, Chiesa-salvezza, Chiesa-Regno, ecc.), ma ripensandoli all’interno di una Chiesa decentrata verso il mondo. E, inoltre, ne aggiunge alcune sue.

Tra queste spiccano l’accentuazione del carattere di compito e responsabilità della salvezza — pur senza negare quello di dono —, e della dimensione profetica dell’intera Chiesa e dei suoi membri. In quest’ultimo contesto il fondamento viene riposto nel fatto che, avendo a che fare con un mondo-storia (cf GS 4-5), la capacità di discernimento dei veri segni della presenza o del progetto di salvezza di Dio negli avvenimenti, nelle aspirazioni e nelle richieste degli uomini contemporanei (cf GS 4.1 la) gioca un ruolo di prima importanza. Questa attività profetica conferisce poi la sua tonalità anche a quella cultuale e a quella regale che, secondo lo schema tripartito utilizzato dal Concilio per parlare sia di Cristo sia della Chiesa (cf LG 1013; 24-28; 32-36), costitutiscono le dimensioni essenziali dell’essere ecclesiale. Tutto nella Chiesa diventa, in questo senso, profetico.

 

2.5. Il periodo postconciliare

Gli anni che seguirono il Vaticano II sono stati anni ecclesialmente ed ecclesiologicamente molto movimentati e a volte conflittuali. Ciò va attribuito alle difficoltà di ricezione dei suoi orientamenti.

C’è stato chi, tenacemente ancorato al modello ecclesiologico preconciliare, si è mostrato più o meno restio ad accogliere le innovazioni conciliari a livello teorico. Ciò è abbastanza spiegabile se si pensa che quel modello, come abbiamo fatto notare, si era mantenuto sostanzialmente immutato per quasi sedici secoli. Un così lungo periodo di consolidamento portò alcuni ad identificare quel determinato modo di concepire la Chiesa con «la» Chiesa. E, una volta fatta tale identificazione, risulta difficile non pensare il passaggio verso un altro modello ecclesiale come un tradimento della fede.

Oltre a questo rifiuto teorico ci sono state anche delle difficoltà pratiche. Non si può non tener presente che, anche nei confronti di chi per coerenza di fede accolse con generosa accettazione i nuovi orientamenti ecclesiologici sanciti ufficialmente dal Concilio, si doveva fare i conti con l’inerzia di secoli. Un certo modo di pensare e vivere la Chiesa, segnato profondamente per esempio da una struttura piramidale e clericale, non venne facilmente rimosso. Sia da parte di chi in questa piramide occupava posti di superiorità sia da parte di chi, senza occuparli, ne aveva assimilato la logica.

Tra coloro che decisero di accogliere fino in fondo gli orientamenti conciliari, non pochi si sono fermati alla proposta della​​ Lumen Gentium.​​ Non è raro trovare ancora oggi cristiani che, senza tener conto del carattere evolutivo del Concilio, ritengono che quella comunionale, con le sue forti istanze innovatrici, sia «la» ecclesiologia del Vaticano II. All’insegna di questa convinzione in diversi posti si è andati avanti cercando di realizzare, negli ambiti dei rapporti sopra analizzati, le menzionate istanze. Ne sono scaturite grosse novità ecclesiali, visibili specialmente nell’accentuazione della comunionalità dei rapporti tra i membri delle comunità ecclesiali, nell’intensificazione della dimensione comunitaria della liturgia e dell’organizzazione comunitaria della vita delle Chiesa (Conferenze episcopali, consigli di diversi tipi), nell’esercizio dell’autorità al suo interno, nella crescita della coscienza delle Chiese particolari, nel modo di rapportarsi con i cristiani di altre confessioni, ecc.

Chi invece, consapevole della dinamica evolutiva del Concilio, ha ritenuto che delle proposte ecclesiologiche conciliari quella comunionale era solo un primo passo, importante certamente ma non l’ultimo, ha cercato di attuare la proposta della​​ Gaudium et Spes.​​ Ciò si è verificato soprattutto tra le Chiese dei paesi poveri del cosiddetto Terzo Mondo, dove però il modello della Costituzione pastorale subì una variante di rilievo.

Tale variante ebbe la sua genesi nella presa di coscienza, da parte di numerosi cristiani di quei popoli, della conflittualità strutturale presente e operante, a livello mondiale, nell’umanità che il Concilio aveva deciso di mettere al centro della sua attenzione quale destinataria del suo servizio. La​​ Gaudium et Spes,​​ segnata ancora da una certa tendenza eccessivamente ottimista, non aveva rilevato con sufficiente chiarezza questa situazione ed era rimasta, di conseguenza, ad un livello ancora alquanto astratto. Fu merito della​​ Populorum Progressio​​ di Paolo VI l’aver orientato l’ecclesiologia verso un maggiore realismo e senso di concretezza.

Sotto il suo impulso, la costatazione della cruda realtà della povertà massiccia e inumana portò la Chiesa Latino-americana in un primo momento (Medellin, Puebla), ma poi anche altre Chiese dell’Asia e dell’Africa ad aprire gli occhi di fronte a tale situazione. Esse decisero, di conseguenza, di essere Chiese-al-servizio, ma non dell’umanità bensì della «non-umanità»: di essere una «Chiesa dei poveri». Quest’ultima espressione, utilizzata già qualche volta durante il Concilio, acquistò per esse dei contenuti molto precisi: vollero essere comunità di discepoli di Cristo decisamente orientate, sul suo esempio, al servizio preferenziale dei poveri reali, degli emarginati da questo mondo del progresso sfrenato, degli ultimi delle proprie società e della società mondiale. E affinché il loro servizio non restasse a livelli solo assistenziali, vollero impegnarsi a collaborare anche nella ricerca di nuove forme di società, più consone con la dignità dei poveri stessi, facendo propria la loro causa (cf​​ Puebla). Le opzioni di queste Chiese ebbero risonanze, più o meno estese e sentite, anche tra cristiani del mondo ricco e benestante: li sollecitarono a ripensare le proprie posizioni ecclesiologiche. La recente Enciclica​​ Sollicitudo rei socialis​​ di Giovanni Paolo II ribadì tale opzione per l’intera Chiesa.

Il panorama finora descritto, certamente con tratti molto elementari, spiega il pluralismo e perfino la conflittualità ecclesiale attualmente esistenti. Sono infatti attivamente presenti simultaneamente in questo momento almeno tre progetti globali di Chiesa. Ad essi si ispirano pure progetti pastorali che, per logica coerenza, divergono notevolmente tra di loro. Non è quindi da stupirsi che ci siano tensioni a diversi livelli nel seno della Chiesa universale. Bisogna però rilevare che, benché le intenzioni soggettive vadano sempre rispettate, non si può ignorare resistenza di parametri oggettivi che rendono alcune di queste prese di posizione meno valide e altre più valide. Se l’analisi dell’ecclesiologia sopra fatta è giusta, come lo crediamo, dobbiamo concludere che i progetti ecclesiologici e pastorali vanno confrontati con i suoi risultati. Non tutti questi progetti, quindi, hanno lo stesso valore.

 

3. Un modello ecclesiologico per la pastorale giovanile

Ci eravamo proposti inizialmente di focalizzare, per ricavarne degli orientamenti operativi nell’ambito della pastorale giovanile, tre gruppi principali di problematiche ecclesiologiche: quelli riguardanti il soggetto, quelli riguardanti lo spazio e quelli riguardanti l’obiettivo. L’analisi realizzata ci offre ormai sufficienti elementi per il raggiungimento dei nostri scopi.

 

3.1. Sul soggetto ecclesiale della pastorale giovanile

Come si è visto, nel modello preconciliare il protagonismo ecclesiale era chiaramente delimitato. Nella Chiesa c’era infatti chi, in forza della costituzione gerarchica di essa, apparteneva al gruppo portatore della «sacra potestà», e chi invece non vi apparteneva. L’appartenenza a tale gruppo comportava, tra l’altro, la partecipazione al potere decisionale nell’ambito del culto, della verità e dell’organizzazione e conduzione della comunità. Una partecipazione segnata concretamente, d’altronde, da una certa gradazione che faceva del papa, anzitutto, e poi anche dei vescovi, i veri «pastori» della Chiesa in senso forte. Solo secondariamente anche i presbiteri, specialmente quelli a cui veniva direttamente affidata la «cura delle anime», erano ritenuti tali. Tutti i restanti membri della Chiesa costituivano il «gregge», le «pecore» da pascolare con zelo e premura. Così la società ecclesiale risultava divisa in due parti, e in concreto asimmetrica dal punto di vista del protagonismo in genere e di quello pastorale in specie: da un lato, i soggetti dell’azione pastorale, dall’altro, coloro che costituivano l’oggetto della loro cura; ai primi corrispondeva il diritto e la responsabilità del comando, ai secondi l’obbligo dell’obbedienza e della sottomissione. Questo schema, già in vigore per la pastorale generale, acquistava una ancora maggior ragionevolezza quando si trattava della pastorale giovanile, per il fatto di essere un’azione svolta nei confronti non di adulti, ma di giovani. Questi, infatti, non potevano esibire nessun titolo di protagonismo né dal punto di vista dell’ordinazione sacramentale, come tutti gli altri non-pastori, né dal punto di vista dell’età.

Le linee ecclesiologiche tracciate dal Vaticano Il richiedono un cambiamento in questo modo di vedere le cose. In questo senso, le prese di posizione della​​ Lumen Gentium​​ fanno testo. Si può dire senza paura di sbagliare che, dichiarando nel suo secondo capitolo la Chiesa quale Popolo di Dio antecedentemente a qualunque diversificazione ulteriore, questa Costituzione ha proclamato il protagonismo universale dei membri della Chiesa. Nella comunità convocata da Gesù Cristo nessuno è quindi meramente oggetto dell’attività di altri; tutti invece sono chiamati

e, ancora di più, sollecitati ad essere soggetti attivi e responsabili. Da questo punto di vista si può anche dire che nella Chiesa non ci sono «pastori» e «pecore». Nessuno in essa ha il monopolio del protagonismo, neanche nei confronti dei poteri decisionali riguardanti il culto, la verità e l’organizzazione e conduzione della comunità. La Chiesa è, in tale senso, una comunità orizzontale perché, secondo gli orientamenti evangelici, è una comunità di «fratelli» (cf​​ Mt​​ 23,8-12).

Se le cose stanno così, allora neanche i giovani coinvolti nella pastorale giovanile sono dei semplici destinatari dell’azione pastorale di altri, mero oggetto delle loro cure. Ne sono invece protagonisti, insieme con gli altri membri della comunità ecclesiale. E questo è un primo dato da tener fermamente presente. Tanto più in un momento storico come il nostro, nel quale la sensibilità verso il protagonismo è fortemente cresciuta a tutti i livelli.

Insieme a questo primo dato, fornito dalla nuova impostazione ecclesiologica del Vaticano li, occorre tenerne presente anche un secondo, ribadito dallo stesso Concilio: nella comunità fraterna della Chiesa ha posto la diversità. Il che vuol dire in concreto che il protagonismo si realizza in modi diversi. Non è questo un modo di ricuperare, quasi di nascosto, quanto il Concilio ha voluto abbandonare apertamente, cioè la piramidalità ecclesiale che concentra in mani di solo alcuni pochi il potere decisionale; è al contrario un modo di ripensare in maniera nuova il fatto secondo, quello della diversità all’interno della comunione. E tale novità è data dal fatto che la diversità viene pensata non in chiave di dignità o di potere, ma in chiave di servizio.

In questa prospettiva si deve dire, ancora una volta, che la Chiesa non è una società bipolare e asimmetrica, ma una comunità nella quale esiste una pluralità di servizi fraterni, tra i quali si annovera anche quello della presidenza della comunità stessa. Una presidenza che comporta determinate responsabilità sia nell’ambito della santificazione, sia in quello della profezia, sia in quello dell’organizzazione e conduzione (cf LG​​ 25-29). Una di queste responsabilità consiste, precisamente, nel sollecitare e coordinare la corresponsabilità di tutti i membri della Chiesa, ognuno secondo i doni o carismi ricevuti dallo Spirito per la costruzione dell’intera comunità (cf LG​​ 12b).

Quanto è stato detto va tenuto presente per ciò che riguarda la pastorale giovanile. E crea delle esigenze sia in chi ne ha l’ultima responsabilità nella Chiesa universale e in quella particolare, sia in chi ha una responsabilità più immediata, sia negli stessi giovani.

1) In chi ha l’ultima responsabilità (papa, vescovi) l’esigenza fondamentale è quella di dare vita, ai rispettivi livelli, ad una vera pastorale giovanile che concretizzi l’azione pastorale generale nell’ambito dei giovani, con quelle caratteristiche che esso richiede. Specialmente quelle che derivano da una reale inculturazione del progetto pastorale nella sensibilità dei giovani d’oggi. Ma, anche, quella di sollecitare e presiedere il coinvolgimento in questa azione di tutti quei cristiani che siano capacitati a realizzarla con profitto: presbiteri, religiosi e religiose, laici e laiche adulti. Non basta, però: essi dovrebbero inoltre fare in modo che il protagonismo degli stessi giovani sia non solo non annullato, bensì costantemente sollecitato. Il loro stesso modo di gestire da «pastori» le responsabilità ecclesiali dovrebbe costituire un esempio in proposito.

2) Probabilmente in tutto ciò coloro che hanno la responsabilità più diretta (presbiteri, religiosi e religiose, laici e laiche adulti) sono anche più direttamente coinvolti. Il servizio del papa e dei vescovi, infatti, diventa ordinariamente concreto per i giovani attraverso il servizio di queste persone. Ad esse spetta, più da vicino, il compito di fare realtà quanto è stato sopra detto. È da essi che i giovani possono imparare a vivere l’autentico protagonismo ecclesiale. Più che dagli ultimi responsabili, essi attingono da questi responsabili più immediati l’immagine della Chiesa.

3) Ma anche per gli stessi giovani derivano delle esigenze da quest’impostazione. Essi non devono solo lasciarsi «curare pastoralmente» da coloro che nella Chiesa sono costituiti in autorità, o dai loro immediati animatori. Devono invece diventare sempre più attori del progetto pastorale, impegnandosi in prima persona in esso. È la strada per la quale possono maturare ecclesialmente.

 

3.2. Sulla Chiesa come spazio della pastorale giovanile

Quanto è stato detto nel punto precedente si ricollega, naturalmente, con il problema dell’appartenenza ecclesiale dei giovani. Nella concezione ecclesiologica preconciliare le cose erano abbastanza chiare al riguardo. Appartenere alla Chiesa significava accettare ciò che essa, attraverso i suoi dirigenti, insegnava, ciò che essa celebrava, e ciò che essa comandava di praticare nella vita, e accettarlo pienamente. Scostarsi da qualunque di queste cose significava staccarsi dalla Chiesa stessa e diventare scismatici o addirittura eretici, con le conseguenze che da ciò derivavano per la propria salvezza eterna.

Vigeva, quindi, in questo ambito il criterio del «o tutto o niente». Perciò, tra appartenenza e non-appartenenza non c’era un termine medio. Venivano contemplati, è vero, dei casi speciali, come quello dei catecumeni adulti i quali, appunto perché si trovavano in fase di preparazione al battesimo che li avrebbe poi incorporati alla Chiesa, erano ritenuti in qualche modo già parzialmente appartenenti ad essa. Ma questi casi costituivano delle eccezioni che confermavano la regola. Il fatto che il Vaticano II abbia ripensato l’essere interno della Chiesa in chiave di comunione, mette in crisi una simile concezione. Resta sempre vero che l’appartenenza alla Chiesa comporta una comunione nella fede, nel culto e nel servizio vicendevole, e che una piena appartenenza ad essa implica una totale comunione in questi aspetti. Ma, in una certa analogia con quanto è avvenuto nel contesto dell’ecumenismo, si può dire che anche qui, all’interno della stessa Chiesa, è valido il criterio della gradualità nella comunione.

 

3.2.1. Nell’ambito della fede

Ciò riguarda, anzitutto, la comunione nella fede. Intendiamo qui la fede come insieme di contenuti​​ (fides quae).​​ Che ci sia bisogno di un assenso veramente personale ai diversi contenuti della fede da parte di chi ne ha la capacità, lo diamo per scontato. Non sarebbe infatti degno di un essere umano né della fede stessa un’adesione che ne fosse priva. Il problema si pone in altri termini: quale assenso di fede richiedere dai giovani? E, prima ancora, in questi altri: come va fatta loro la proposta dei contenuti di fede?

La problematica attorno a questo secondo aspetto del problema si esprime globalmente, da qualche anno in qua, con la categoria «inculturazione». La constatazione fatta da Paolo VI nellEvangelii Nuntiandi​​ (cf 20c), continua ad essere in gran parte vera ancora oggi: c’è ancora una drammatica rottura tra Vangelo (annunciato) e cultura. Non rare volte i contenuti della fede sono proposti ai giovani in un linguaggio che non è il loro. E dicendo «linguaggio», come chiariva la stessa Esortazione apostolica, non intendiamo riferirci solo a quello semantico e letterario, quanto anche e soprattutto a quello antropologico e culturale (cf EN 63b). L’esperienza attesta che più di una volta la fede viene annunciata in una lunghezza d’onda che non è quella dei giovani d’oggi.

In questo contesto si affaccia subito una difficoltà, di non poco rilievo. È quella che comporta l’approccio alla Bibbia, con la quale i giovani devono necessariamente mettersi a contatto sia nelle celebrazioni sia in altri momenti della loro attività ecclesiale. L’approccio biblico non può certamente mancare, dal momento che è nella Scrittura dove troviamo la prima e fondamentale proposta dei contenuti della fede; ma esso deve venir accompagnato da un’adeguata ricomprensione del testo scritturistico che lo liberi da ogni forma di fondamentalismo. Siccome su questo si è parlato spesso, non occorre soffermarsi ulteriormente. Ci sarebbe però da chiedersi se un certo tipo di «biblismo ad oltranza» non corra il rischio di ostacolare l’assenso di fede anziché favorirlo.

Ma, oltre alla Bibbia e in dipendenza da essa, c’è tutto il resto del linguaggio ecclesiale: gli articoli del Credo, i dogmi della Chiesa, gli insegnamenti straordinari e ordinari del Magistero, ecc. È stato mediante queste diverse formulazioni che la fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo venne tramandata attraverso i secoli. Esse si sono andate accumulando lungo la storia, e costituiscono quel «deposito della fede» che la Chiesa intende custodire e consegnare — almeno in certa misura — a chiunque entra in essa. Come gestirlo nei confronti dei giovani?

C’è chi pensa che, dato che la fede implica l’appartenenza ad una comunità già esistente, i suoi membri devono venir sollecitati a far proprio questo «deposito» nel linguaggio in cui esso si esprime. È una comunità di iniziati, e come tale ha un suo linguaggio proprio che essi devono capire e parlare. Ciò è in parte vero. 11 credente non inventa di sana pianta la comunità alla quale entra, né il messaggio che si esprime attraverso il suo linguaggio. Essi lo precedono, appunto perché sono retaggio di una comunità che si costituisce attorno alla proposta fatta da Gesù Cristo. C’è quindi una lunga catena di «staffette» che riallacciano le persone che oggi accolgono la fede con il Cristo, una lunga catena attraverso la quale arriva ad essi il messaggio originale.

Ciò però è solo una parte della verità. L’altra parte è data dal fatto che questi anelli della catena sono costituiti da esseri umani contrassegnati da un carattere di storicità. E storicità significa per gli uomini evolversi nel tempo, cambiando il modo di percepire, di sentire, di vivere e di esprimere la realtà in cui si è immersi. È questo il «linguaggio antropologico e culturale» a cui si riferisce l’Evangelii Nuntiandi.

I dogmi cristiani, anche i più «sacrosanti», come quello della Trinità di Dio, sono relativi al linguaggio culturale dell’epoca in cui sono stati formulati. Non poteva essere altrimenti.

Da alcuni questo criterio di storicizzazione culturale è ritenuto valido solo per ciò che riguarda il passato; quando si tratta del presente, sentono riluttanza ad applicarlo. Occorre invece essere coerenti e portare le cose fino in fondo. Soprattutto in un momento storico come il nostro, in cui il cambio culturale è così profondo e incalzante da far dire al Concilio che ci troviamo in una nuova èra dell’umanità (cf GS​​ 4-5). Quindi, se da una parte bisogna riconoscere che le persone che oggi aderiscono alla fede — nel nostro caso i giovani — non inventano né la Chiesa né la fede, e perciò devono per coerenza accettare un linguaggio «tradizionale», dall’altra bisogna pure riconoscere che essi sollecitano la fede ecclesiale ad un’operazione di metamorfosi, mediante la quale si arrivi a dire quel messaggio di sempre nel modo in cui essi attualmente pensano, sentono, vivono ed esprimono la realtà. Non si può quindi costringerli, col pretesto che la fede è un linguaggio da iniziati, a spogliarsi del loro essere culturale per diventare cristiani, e ad entrare così in una specie di ghetto ermetico. Sarebbe condannarli ad una sorta di schizofrenia.

Quest’operazione di trasformazione non va fatta unilateralmente. È solo il dialogo sincero e profondo con la sensibilità culturale dei giovani che può permettere di realizzarla. Un dialogo nel quale le legittime domande dei giovani e le adeguate risposte, anche implicite e sommesse, alle medesime, costituiscono altrettante strade per la ricerca di una nuova formulazione dei contenuti. Diciamo legittime domande e adeguate risposte per scansare un pericoloso equivoco, quello cioè di confondere dialogo con semplice accomodamento. Nella società attuale, infatti, convivono simultaneamente diverse culture o modi di pensare, di sentire e di vivere la realtà. Alcune di esse sono contrassegnate da aspetti inconciliabili con la fede del Vangelo come, ad esempio, la valutazione della realizzazione umana mediante il criterio della ricchezza, del dominio sugli altri, del prestigio, delle solidarietà chiuse della famiglia, della razza, del partito, della nazione, ecc. Tali culture tendono ad essere dominanti in un doppio senso della parola: nel senso di essere così diffuse da occupare quasi l’intero spazio culturale, e nel senso di imporsi studiatamente sulle altre culture cercando di sostituirsi ad esse. Ora, i giovani che vivono all’interno di questo mondo in cui esistono tali conflitti culturali e che ne risentono fortemente l’impatto, si portano dentro, insieme a domande legittime, anche richieste che provengono dalle culture dominanti. Davanti a questo fatto la formazione alla fede evangelica non potrà non svolgere la funzione di «educatrice della domanda». Una fede che li confermasse semplicemente nelle loro richieste sarebbe in questo caso doppiamente infedele: al Vangelo di Cristo e agli stessi giovani.

Sembra indispensabile aggiungere al riguardo ancora due osservazioni. Prima, che l’educazione della domanda va fatta anche in dialogo, e non unilateralmente o, meno ancora, impositivamente: i giovani stessi dovrebbero arrivare a prendere coscienza dell’incoerenza di certe loro richieste con il progetto del Vangelo, e a modificarle. Agire diversamente sarebbe mettersi al di fuori dell’ispirazione evangelica che orienta al «non imporre, ma proporre». Seconda, che questa coscienza del bisogno di educare la domanda non dovrebbe servire da scusa per sospettare di qualunque richiesta nuova o diversa da quelle a cui si è abituati a rispondere. Tante volte le richieste nuove e diverse sono quelle più consone con la proposta evangelica che, come si sa, comporta una forte carica «sovvertitrice».

Detto questo sulla proposta, ritorna la questione dell’assenso da sollecitare dai giovani ai contenuti della fede. Ciò pone più concretamente due questioni: in primo luogo, se debba venir loro richiesto un assenso a tutti i contenuti e, in secondo luogo, se debba venir richiesto subito, tutto insieme.

Per rispondere alla prima domanda si dovrebbe tener presente che, benché l’appartenenza alla Chiesa richieda una comunione nella fede anche come insieme di contenuti, tuttavia anche in questo contesto può valere il criterio-guida enunciato dal Concilio per i rapporti ecumenici tra le diverse confessioni cristiane, allargandone la comprensione. Come si è già detto, al posto del criterio integrista del «o tutto o niente», che aveva regolato i rapporti interconfessionali per secoli, il Vaticano II propose la gradualità nella comunione. Se è vero che tra i contenuti della fede c’è una diversità, dal momento che vi si trova un nucleo centrale e una serie di altri contenuti di disuguale importanza (cf EN 25), pare ovvio che anche la sollecitazione dell’assenso deva tenerlo presente. Non ha esattamente la stessa urgenza, per esempio, chiedere l’assenso di fede alla risurrezione di Cristo e chiederlo all’esistenza dell’inferno, per far riferimento solo a un enunciato, tra tanti, nei confronti del quale i giovani d’oggi possono trovare difficoltà.

D’altronde, la questione dell’assenso integrale è in parte collegata con quella dell’inculturazione della fede di cui si è parlato sopra. È infatti specialmente nei confronti degli elementi secondari della fede che tale questione principalmente si pone. Forse perché diversi di quegli enunciati sono andati a finire, per via delle polemiche suscitate dalle eresie, nelle formulazioni dogmatiche che hanno acquistato, all’interno di una certa concezione ecclesiologica ormai superata, un alone di sacralità e intoccabilità. Una adeguata ricomprensione dei medesimi può certamente facilitarne l’accettazione da parte dei giovani, appunto perché questi possono così coglierne il vero senso. La seconda questione è strettamente collegata con ciò che è stato appena accennato. Un certo modo di concepire le cose nella teologia della fede del passato, aveva portato a dimenticare quasi completamente la componente «esistenziale» dell’assenso. Come se esso si producesse all’insegna della sola intelligenza, e per di più di un’intelligenza esistente in sé, fuori da ogni influsso che non appartenesse a quell’ordine. Più realista si mostra in questo contesto san Tommaso, il quale fa capire, in diversi suoi scritti, che la ragione umana ultima per la quale qualcuno si decide a dare il suo assenso alla fede, è il fatto di trovare in essa una soddisfazione dell’«appetito di felicità». «Oggetto della fede sono le cose che riguardano la felicità dell’uomo», sostiene l’Aquinate. Questa osservazione aiuta a capire che solo se il giovane scopre — magari solo intuitivamente — il collegamento che c’è tra gli enunciati della fede e il suo desiderio di pienezza di vita, può dare il suo consenso. Aiutarlo a dare il suo assenso alla fede comune consisterà, quindi, concretamente in questo: nel collaborare a fargli cogliere tale collegamento, a farglielo balenare, per così dire, davanti agli occhi. E ciò non si fa ordinariamente da un momento all’altro, ma richiede tempo e pazienza. E richiede, inoltre, che venga rispettato il ritmo proprio di ogni persona. Probabilmente, date le condizioni di pluralismo e frammentarietà della sensibilità attuale, alcuni giovani non arriveranno mai a un assenso totale e definitivo a tutti i contenuti secondari della fede. Non sembra si debbano per questo ripristinare i tempi dell’Inquisizione. Tanto più se, al di là di questa non-piena-ortodossia contenutistica o veritativa, questi giovani danno segni di vivere una sostanziale ortoprassi evangelica.

 

3.2.2. Nell’ambito del culto

La questione dell’appartenenza ecclesiale riguarda anche, in secondo luogo, l’aspetto cultuale. La Chiesa lo vive in diversi modi nella liturgia, soprattutto in quella sacramentale. Non è difficile constatare che ancora oggi non pochi cristiani riducono quasi interamente la loro appartenenza ecclesiale alla partecipazione a determinate espressioni in questo ambito. Ancora di più, la Chiesa stessa ha stabilito in passato ufficialmente certi criteri al riguardo, in modo tale che chi per esempio non partecipava almeno una volta all’anno ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia veniva considerato un non-praticante, uno che si collocava volontariamente se non fuori, almeno ai bordi della comunità. Viceversa, una certa assiduità nella pratica soprattutto di questi due sacramenti è spesso ancora oggi ritenuta segno certo di appartenenza. Importanza speciale acquistano, in questo contesto, i «sacramenti dell’iniziazione cristiana» — battesimo, prima comunione, cresima —, che sono appunto quelli mediante i quali si produce l’incorporazione iniziale alla Chiesa.

Nell’ambito della pastorale giovanile sono soprattutto quattro i sacramenti che risultano più interessati in questa problematica: la cresima, l’eucaristia, la penitenza e, per i giovani più adulti, il matrimonio, al quale spesso si preparano o già da loro celebrato. Tutti e quattro fanno problema attualmente, benché in maniera e in misura diversa. Sembra che la cosa più importante e più urgente da fare in questo contesto sia quella di aiutare i giovani a scoprire il senso genuino del culto cristiano e, perciò stesso, il rapporto esistente tra il culto nella vita e il culto rituale o liturgico.

Si dovrebbe cercare di aiutarli, anzitutto, a capire la novità tipica del culto cristiano nei confronti di altri culti, novità che consiste nel fatto di essere «spirituale» (cf Rom 12,1-2; LG 34b). Un culto cioè che si realizza nell’ampio fronte dell’intera esistenza umana, là dove qualcuno dà gloria a Dio «riempiendo di vita gli uomini» (cf sant’Ireneo). Che non ha bisogno, quindi, né di luoghi né di tempi né di cose né di persone né di azioni speciali o sacre, ma si svolge all’insegna del superamento della dicotomia tra sacro e profano.

È precisamente alla luce di questa concezione che i giovani potranno anche scoprire il senso di quel sacerdozio comune o dei fedeli di cui ha parlato, con accenti rinnovati, la costituzione​​ Lumen Gentium​​ (cf 10-11; 34). Inteso il culto cristiano in questo modo, potrà risultare più facile anche il ridimensionamento del loro modo di intendere il culto rituale o liturgico, e perciò anche la loro partecipazione ad esso. Tale culto verrà loro presentato, secondo l’impostazione che scaturisce dal Vaticano II (cf LG 34b) che riecheggia a sua volta quella neotestamentaria, come «celebrazione» del culto spirituale nella vita. Ossia come un realizzare in modo festivo, e pertanto comunitario e in qualche misura anche rituale, ciò che viene fatto in forma ordinaria nella vita quotidiana. Un festeggiare, cioè, il culto reso a Dio nella vita. La Chiesa, come si sa, ha cominciato dagli inizi a realizzare questo tipo di celebrazioni (cf​​ Atti)​​ e, a un certo momento della sua storia, ha concentrato attorno ai suoi sette gesti rituali maggiori — i sacramenti — tutta la sua attività celebrativa. L’Eucaristia o Cena del Signore vi ha occupato sempre un posto centrale. Essa è la celebrazione ecclesiale per antonomasia, una celebrazione che ha per oggetto specifico l’amore fraterno vissuto tra i credenti. Così, essa diventa punto di arrivo di tutto lo sforzo precedente fatto in questo senso, e allo stesso tempo punto di partenza per nuove realizzazioni. In questa prospettiva l’Eucaristia è veramente, come disse il Vaticano II, «vertice e fonte» di tutto il dinamismo ecclesiale (cf​​ Sacrosanctum Concilium).

Ma anche la cresima, la penitenza e il matrimonio vanno visti e presentati ai giovani in questa luce, ognuno con la peculiarità che lo caratterizza: la cresima, come celebrazione per eccellenza del dono dello Spirito; la penitenza o riconciliazione, quale celebrazione dello sforzo di conversione realizzato dai credenti nella vita; il matrimonio, come celebrazione dell’amore vicendevole e definitivo tra un uomo e una donna credenti.

 

3.2.3. Nell’ambito dell’organizzazione e della conduzione

Oltre alla fede e al culto, l’appartenenza ecclesiale interessa anche l’organizzazione e il funzionamento della Chiesa. Da questo punto di vista le difficoltà provengono dal fatto che, come si è già visto sopra, spesso molti cristiani identificano ancora la Chiesa con coloro che in essa esercitano la «sacra potestà», ossia il papa, i vescovi, i sacerdoti.

Il senso di appartenenza è molto legato, in questo contesto, allo spazio riconosciuto al protagonismo dei diversi membri della comunità ecclesiale, per ciò che riguarda la sua articolazione e il suo funzionamento. Se coloro che sono costituiti in autorità monopolizzano tale protagonismo, o se gli altri lo delegano ad essi, certamente il loro senso di appartenenza ecclesiale resta molto affievolito. Nel contesto della pastorale giovanile la problematica si riallaccia a quella svolta, precedentemente accennata, che concerne il soggetto della medesima. Presenta però dei risvolti propri. Si pone qui, infatti, un problema concreto che si può esprimere nei seguenti termini: fino a che punto esigere dai giovani, quale espressione della loro appartenenza ecclesiale, un impegno in servizi che riguardano la vita della stessa comunità ecclesiale, quali la catechesi, la liturgia, la collaborazione più stretta con coloro che nella comunità svolgono ruoli direttivi? Sembra che la linea da seguire in questo ambito sia quella di un discernimento attento delle disposizioni dei giovani stessi. Ci sono certamente tra di loro alcuni che si sentono più portati a tali servizi. Saranno essi soprattutto a venir convogliati nell’assunzione di tali compiti. Ciò però non dovrebbe portare a giudicare gli altri come meno ecclesialmente appartenenti. Mentre si cercherà di far crescere in questi ultimi il senso di questo aspetto dell’appartenenza ecclesiale, si dovrà vigilare sui primi affinché il loro impegno intra-ecclesiale non li porti ad avere un senso di superiorità nei confronti degli altri e, tanto meno, a dimenticare il basilare orientamento trans-ecclesiale della loro vita di fede.

 

3.3. Sull’obiettivo della pastorale giovanile

Come in genere avveniva per gli altri ambiti dell’azione pastorale ispirata al modello ecclesiologico preconciliare, anche in quella giovanile l’obiettivo ultimo accusava una notevole tendenza intra-ecclesiale. Si trattava di portare i giovani ad essere dei veri cristiani, seriamente immedesimati con le finalità stesse della Chiesa. Il modo di concepire il rapporto Chiesa-mondo, del quale si è parlato precedentemente, aveva un notevole influsso in proposito. I cristiani erano sollecitati generalmente ad atteggiamenti fortemente ecclesiocentrici. Anche chi si impegnava nelle realtà temporali (apostolato nel mondo) lo doveva fare per «ecclesializzarle», in modo tale che entrassero a far parte del regno di Dio e di Cristo. Essere apostolo nel mondo significava entrarvi per collaborare ad estendere tale regno. I giovani dovevano farlo soprattutto nell’ambito delle loro competenze giovanili: famiglia, scuola, tempo libero, ecc. La profonda svolta ecclesiologica conciliare, sopra ricordata, significò un decisivo cambiamento nella concezione di questo rapporto. Non più un orientamento prevalentemente intra-ecclesiale, ma viceversa, prevalentemente trans-ecclesiale. Il che significa che al centro dell’attenzione della Chiesa ci deve essere, come si è detto, l’umanità degli uomini. Formare dei buoni cristiani vuol dire, allora, formare degli uomini e delle donne che, ispirati al Vangelo di Gesù Cristo e guidati da esso, si impegnino intensamente a servizio della crescita in umanità del mondo, con tutto ciò che tale crescita comporta. Essi dovrebbero essere, come Gesù e seguendone le orme, degli appassionati per la vita concreta degli uomini.

Un rilievo va fatto in proposito, rilievo che è carico di conseguenza per le finalità perseguite dalla Chiesa e dai suoi membri: nella ricerca della vita più abbondante degli uomini, Gesù di Nazaret, ha fatto un’opzione in favore di coloro che di tale vita sono più privi e più spogliati, di coloro cioè che «non contano», degli «ultimi». La Chiesa, che vuol essere la comunità dei suoi seguaci, non può agire diversamente. Di fatto, la CEI si è fatta eco, in questi ultimi anni, di questa istanza, proponendo una azione pastorale che sia contrassegnata da essa: «a partire dagli ultimi» (cf​​ La Chiesa e i problemi del paese).​​ Se si vuole che i giovani coinvolti nella pastorale giovanile diventino dei veri protagonisti dell’azione pastorale, si dovrà aiutarli a crescere in questo impegno. Lavorare per la vita più piena degli uomini, specialmente di coloro che ne sono più privi, implica diversi livelli: quello interpersonale, anzitutto, dove tante forme di povertà ed emarginazione si fanno sentire; quello assistenziale poi, nel quale molte forme attuali di volontariato giovanile esprimono il loro impegno; ma anche quello riguardante le strutture che generano l’emarginazione e l’ultimità umana a livello addirittura planetario (cf​​ Sollicitudo rei socialis), e nel quale i giovani possono impegnarsi portando il loro contributo ai movimenti pacifisti, ecologici, femministi, ecc. Un problema che sorge in questo contesto, e che ha a che vedere con quanto si disse nel punto precedente, è quello del modo di aiutare questi giovani a nutrire il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale. Succede non raramente che, specialmente quelli che iniziano una strada di impegno nella società a partire dal loro inserimento nella Chiesa, attraverso gruppi o movimenti giovanili, finiscono poi per disaffezionarsene e perfino per abbandonarla. Ciò è probabilmente dovuto, più di una volta, all’andamento della dinamica ecclesiale, troppo ripiegata su sé stessa. Se si vuole aiutare i giovani ad avere una genuina appartenenza ecclesiale, si dovrà quindi far vedere loro con chiarezza l’orientamento trans-ecclesiale di tutto il suo essere e di tutto il suo agire.

Collegato con il problema appena accennato ce n’è un altro, più specifico, quello che si riferisce al modo di aiutare i giovani a coniugare la loro appartenenza ecclesiale con i compiti nel mondo. È vero, la Chiesa e tutti i suoi membri sono per l’umanità; ma lo sono appunto come credenti in Gesù Cristo. Ciò conferisce al servizio trans-ecclesiale delle caratteristiche proprie. La sua ispirazione e il suo nutrimento gli vengono da quella matrice credente che è la comunità di fede. I giovani dovrebbero essere portati a scoprire questo rapporto in ordine al loro giusto modo di coniugare il loro impegno nel realizzare il Vangelo nel mondo e il loro appartenere alla Chiesa. Ciò però suppone che il progetto ecclesiologico che incontrano nella Chiesa sia veramente quello proposto dal Concilio.

 

Bibliografia

Acerbi A.,​​ Da una ecclesiologia giuridica ad una ecclesiologia di comunione. Analisi del passaggio nella elaborazione della Costituzione dogmatica​​ «Lumen Gentium»,​​ Ed. Dehoniane, Milano-Bologna 1974; Alberigo G. (a cura),​​ L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive,​​ Ed. Dehoniane, Bologna 1981; Barauna G. (ed.),​​ La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla costituzione dommatica «Lumen Gentium»,​​ Vallecchi, Firenze 19674; Id.,​​ La Chiesa nel mondo di oggi. Studi e commenti intorno alta costituzione pastorale «Gaudium et Spes»,​​ Vallecchi, Firenze 1966; Buhlmann​​ W., Anno 2001. Modelli per una Chiesa universale,​​ ed. Dehoniane,Napoli 1986; Costituzione dogmatica​​ Lumen Gentium​​ del Vaticano II; Costituzione pastorale​​ Gaudium et spes​​ del Vaticano II; Dianich S.,​​ La Chiesa come mistero di comunione,​​ Marietti, Torino 19772; Id.,​​ Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica,​​ Ed. Paoline, Cinisello 19852; Facoltà teologica interregionale-Milano (a cura),​​ L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II,​​ La Scuola, Brescia 1973; Forte B.,​​ La Chiesa icona della Trinità. Breve ecclesiologia,​​ Queriniana, Brescia 1984; Fries H.,​​ Mutamenti dell’immagine della Chiesa ed evoluzione storico-dogmatica,​​ in Feiner J. - Lohrer (a cura),​​ Mysterium salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza,​​ Queriniana, Brescia 1972, IV-1 267-346; Gallo L.,​​ Una Chiesa al servizio degli uomini. Contributi per una ecclesiologia nella linea conciliare,​​ LDC, Leumann 1982; Kung H.,​​ La Chiesa,​​ Queriniana, Brescia 1969’; Mondin B.,​​ Le nuove ecclesiologie. Un'immagine attuale della Chiesa,​​ Ed. Paoline, Roma 1980.

 

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CHIESA

È facile intuire la molteplicità e complessità dei rapporti che legano la CH alla C. La CH infatti non è soltanto un​​ contenuto​​ per la C. (C.​​ della​​ CH o​​ sulla​​ CH), ma ne è anche ambiente, soggetto, dimensione, meta (C. opera​​ di​​ CH, C.​​ nella​​ CH e​​ per​​ la CH). Dato che la C. è essenzialmente azione​​ ecclesiale,​​ tutta la realtà cat. ne rimane necessariamente impregnata e caratterizzata.

1.​​ La situazione, la CH, problema per la C.​​ Se la CH, da una parte, rimane sempre l’ambiente naturale e indiscutibile della C. e il suo fondamentale luogo promotore, non mancano però gli aspetti problematici e le fonti di perplessità.

— Anzitutto, la CH viene percepita molto spesso come​​ ostacolo​​ per la C. Nei confronti della CH, soprattutto nei suoi aspetti​​ istituzionali,​​ è frequente trovare atteggiamenti di contestazione, di dissenso, oppure di indifferenza, di disaffezione. Le accuse sono note: pesantezza istituzionale, burocraticismo, legalismo, ricerca di potere e di dominio, clericalismo, incomprensione del mondo e della cultura, autosufficienza, paternalismo, antifemminismo, ecc. Non sempre queste accuse hanno fondamento, ma obbligano in ogni caso alla riflessione e all’esame di coscienza.

— I diversi atteggiamenti nei confronti del Vaticano II, della sua svolta ecclesiologica, e in genere​​ le diverse concezioni ecclesiologiche​​ presenti oggi nell’ambito teologico e pastorale condizionano fortemente lo svolgimento dell’opera cat. Nell’esercizio della C. si riflettono, com’è evidente, i modi diversi di intendere il senso della CH locale, la comunione ecclesiale, l’esercizio della parola nella CH, il ruolo dei carismi e ministeri, l’attività delle associazioni e movimenti, il ruolo della donna, ecc.

— Le diverse manifestazioni della​​ mancanza di unità​​ nella CH sono allo stesso tempo causa ed effetto di distorsioni e problemi nella C. Si pensi specialmente al grande scandalo della divisione dei cristiani, alle tensioni interne tra gruppi e movimenti nella CH, al significativo e preoccupante fenomeno delle sette come sfida alla CH, ecc.

La stretta connessione che lega la C. alla CH fa sì che ogni problema ecclesiale abbia la sua ripercussione cat. e che l’esercizio della C. sia carico di conseguenze nell’ambito della realtà ecclesiale. C’è tra C. e CH un rapporto di complementarità che può essere espresso, in analogia con l’adagio tradizionale sul rapporto tra eucaristia e CH, dicendo che se “la CH fa la C.”, è anche vero che “la C. fa la CH”. Sono due realtà che si condizionano a vicenda.

2.​​ Modelli ecclesiologici e concezioni cat.​​ Si può dire che ad ogni ecclesiologia corrisponde una certa concezione cat., e che ad ogni​​ modello di CH​​ corrisponde un preciso​​ modello di C.​​ È per questo che la distinzione e scelta dei diversi modelli ecclesiologici rappresenta un dato decisivo in sede di riflessione cat.

Così, per es., esiste il modello ecclesiologico comunemente chiamato “istituzionale”, “giuridico”, “gerarcologico” (Y. Congar 1973, 12), centrato sul concetto di società perfetta, che accentua la disuguaglianza tra sacerdozio e laicato, tra CH docente e CH discente. In questa concezione, la C. appare concepita soprattutto come​​ insegnamento della dottrina cristiana,​​ in chiave magisteriale, gestito e controllato in forma verticistica dall’autorità della CH.

Nel periodo postconciliare si sono manifestate forme di un​​ modello alternativo,​​ anti-istituzionale, fortemente polemico nei confronti dell’autorità, dove la C. si presenta come​​ ¡’.appropriazione della parola​​ da parte della comunità, con autonomia e indipendenza di fronte all’autorità istituzionale.

Nella riflessione e nella coscienza di oggi sembra ci si orienti verso una visione ecclesiologica ispirata al Vaticano II, che schematicamente possiamo chiamare​​ ecclesiologia di comunione e di servizio,​​ caratterizzata dalle categorie centrali di “popolo di Dio”, “sacramento universale di salvezza”, e dalle significative espressioni conciliari: “segno e strumento dell’unità del genere umano” (LG 1), “sancta simul et semper purificanda” (LG 8) e “ancella dell’umanità” (Paolo VI, discorso del 7-12-1965). In questa ecclesiologia, al posto del dualismo sacerdozio-laicato si preferisce la complementarità “comunità – carismi e ministeri” e, superando la visione ecclesiocentrica che identificava praticamente la CH con il Regno di Dio, si sottolinea il compito messianico di evangelizzazione e di servizio al mondo. In questo contesto ecclesiologico, la C. perde la rigidità della concezione tradizionale per configurarsi come​​ servizio articolato di parola,​​ per (educazione​​ e​​ maturazione della fede.​​ La C. diventa cioè articolata e pluralistica, in riferimento alla diversità dei carismi e ministeri e alla molteplicità di situazioni vissute dalla comunità. Una e diversificata sarà perciò la C. dei vescovi e sacerdoti, la C. dei religiosi, quella dei genitori, dei catechisti laici; la C. di iniziazione, di approfondimento, di formazione per categorie particolari di persone, ecc.

3.​​ La CH come “contenuto” della C.​​ Tra i compiti della C. c’è anche quello di presentare, illustrare e iniziare alla realtà istituzionale e misterica della CH. Alcune istanze e indicazioni in proposito sono presenti nella riflessione teologica e cat. contemporanea (v. bibl.):

— Esigenza di​​ aggiornamento biblico-teologico​​ sulla CH, in modo da offrire i risultati del rinnovamento teologico e soprattutto il nuovo orizzonte ecclesiologico del Vaticano II. — Esigenza di​​ sintonia culturale​​ con l’uomo con temporaneo. L’ambito ecclesiologico è anche interessato nel dialogo fede-cultura, soprattutto riguardo ad alcuni valori e istanze molto sentite nella nostra epoca, come per es.: la​​ sincerità storica,​​ la​​ democrazia,​​ il desiderio di​​ partecipazione,​​ il riconoscimento dei​​ diritti umani​​ (anche all’interno della CH), il riconoscimento della dignità e uguaglianza della​​ donna,​​ il​​ pluralismo,​​ il ruolo dell’opzione pubblica,​​ ecc. Questi valori aspettano ancora di essere pienamente riconosciuti e onorati nella concezione e nella prassi della CH.

— Trattazione adeguata di alcune​​ tematiche e problematiche​​ che rispondono in modo particolare alle attese dell’uomo contemporaneo. Alcuni di questi temi o nodi problematici sono: il rapporto, nella CH, tra istituzione e realtà carismatica; la salvezza e realizzazione dell’uomo fuori della CH; il rapporto tra aspetti permanenti e possibilità di cambiamento nella CH; verità e errore nella CH, nell’esercizio del magistero; santità e peccato, bene e male nella CH, non solo nelle persone singole, ma anche nella CH come istituzione; rapporto tra missione spirituale e impegno temporale, storico, della CH; rapporto tra CH e mondo; rivalutazione del laicato e della donna nella CH; rapporto tra unità e pluralità, tra identità comune e diversità di incarnazioni storiche e culturali; ecc. Sono temi di grande interesse che qualificano oggi una C. sulla CH e ne mettono a prova l’autenticità e credibilità.

4.​​ La CH come “soggetto” e “luogo” della C.​​ La CH non è solo contenuto della C. ma ne è anche necessariamente​​ soggetto e luogo.​​ Questa affermazione è universalmente accettata a livello di principio, non soltanto, ma è anche un’istanza pastorale fortemente sentita e alla ricerca di realizzazioni soddisfacenti. In tale prospettiva emergono alcune particolari istanze e problemi:

— L’opzione ecclesiale-comunitaria​​ nella pastorale cat. oggi. La comunità ecclesiale appare oggi al centro dell’attenzione cat. Essa è considerata infatti​​ condizione​​ per una C. autentica,​​ luogo​​ o ambito naturale della C. (Messaggio Sinodo '77,​​ 13),​​ soggetto responsabile​​ della C.,​​ destinatario​​ ultimo della C., che ha il compito di condurre “le comunità e i singoli cristiani alla maturità della fede” (DCG 21). In questa prospettiva la C. supera una certa visione tradizionale individualistica e magisteriale, per assumere piuttosto l’aspetto di un comune cammino di fede operato in comunità di CH.

Attenzione alle esigenze della​​ comunione ecclesiale.​​ L’esistenza di tensioni e polemiche all’interno della CH, il fenomeno reale dei parallelismi e isolamenti, anche nell’ambito della C., rendono attuale il problema dei criteri e esigenze della comunione ecclesiale, non per ricadere nell’uniformità del modello ecclesiologico giuridico-istituzionale, ma nello spirito della nuova visione ecclesiologica di comunione e di servizio.

Attenzione ai​​ criteri di ecclesialità e maturità​​ delle comunità e gruppi ecclesiali. Anche questa esigenza risponde oggi a situazioni reali. E si sente la necessità di potersi riferire a precisi e convincenti​​ criteri di ecclesialità,​​ nonché di tener presenti i segni e i rischi​​ patologici​​ delle comunità ecclesiali, quali l’autosufficienza, l’integrismo, l’isolamento, il culto della personalità, la radicalizzazione, ecc.

5.​​ La​​ C.​​ luogo di “esperienza di CH” per l’interiorizzazione del “senso della CH”.​​ Nella​​ C.​​ non solo si è​​ in​​ CH e si parla​​ della​​ CH: la C. stessa deve permettere un’autentica​​ esperienza di​​ CH, col carattere di immediatezza, di globalità e di valenza educativa che ogni autentica esperienza comporta. Alcuni aspetti costitutivi dell’esperienza ecclesiale:

Esperienza di​​ tensione verso i valori del Regno,​​ in atteggiamento di servizio al mondo, per la promozione globale di tutti gli uomini, con preferenza per i più poveri e abbandonati. Questo suppone il superamento di posizioni “ecclesiocentriche”, che mettono la CH al centro dell’interesse (attenzione prevalente a chi è già dentro, alle opere e attività intra-ecclesiali, atteggiamento negativo verso chi è fuori, ecc.) e “trionfalistiche” (difesa a oltranza dell’operato della CH, autoesaltazione, spirito di crociata, ecc.), per dimostrare soprattutto la passione per l’uomo e per la sua liberazione e promozione integrale.

Esperienza delle diverse​​ mediazioni o funzioni ecclesiali​​ come segno o sacramento del progetto del Regno. Esperienza quindi dell’amore-servizio​​ (segno della​​ diaconia),​​ come testimonianza di un modo nuovo di amare e di servire; esperienza della​​ comunione-fraternità​​ (segno della​​ koinonia),​​ come testimonianza di un modo nuovo di convivere e di stare insieme da fratelli; esperienza della​​ parola​​ ascoltata e proclamata (segno del​​ kerygma​​ o​​ annuncio),​​ testimonianza gioiosa del messaggio evangelico e confessione esplicita di Cristo Signore e Salvatore; esperienza infine di​​ celebrazione​​ e di​​ preghiera​​ (segno della​​ liturgia),​​ come insieme di riti e segni manifestativi dell’esperienza cristiana quale esperienza di liberazione e di salvezza.

Attraverso l’insieme articolato dell’esperienza ecclesiale, la C. potrà essere in grado di raggiungere uno dei suoi obiettivi principali: l’interiorizzazione di un​​ maturo senso di CH,​​ con tutto ciò che esso comporta: senso di appartenenza, conoscenza e amore per la CH, fedeltà alla “memoria” ecclesiale (senso della “apostolicità”) e all’apertura universale (senso della “cattolicità”), assunzione di responsabilità, solidarietà ecumenica e spirito missionario, ecc.

6.​​ La CLI come “obiettivo” e “meta” della C.​​ Ogni modello concreto di C. è sempre portatore — volutamente o inconsciamente — di un certo​​ progetto​​ di CH, se non addirittura di un progetto​​ alternativo​​ di CH. E questo perché l’attività cat. rimane sempre un fattore privilegiato per la conservazione o rinnovamento della realtà ecclesiale.

La C. dunque deve costruire comunità, deve essere un fattore di rinnovamento della CH, deve essere portatrice di un progetto di CH. Ma​​ quale progetto di CH?​​ La ricerca e determinazione di tale progetto è un compito non facile, delicato, impegnativo, ma anche pieno di fascino, soprattutto in relazione ai giovani e adulti del nostro tempo. Presentare l’orizzonte di un progetto convincente di CH, non di un’”altra” CH, ma di una CH “altra”, è certamente un fattore stimolante nella ricerca di un processo di crescita nella fede e nell’esperienza cristiana. In questo senso, è importante non dimenticare che la C., se ha sempre il dovere di rimanere fedele alla CH del passato e del presente, deve oggi in modo particolare dimostrare anche​​ fedeltà alla CH del futuro,​​ alla CH da costruire, al progetto di CH che più si avvicina alle esigenze del Vangelo nel mondo di oggi.

Bibliografia

E.​​ Alberich,​​ Esperienza di catechesi, esperienza di Chiesa. La Chiesa come contenuto, luogo e meta della catechesi, oggi,​​ in S. Felici (ed.),​​ Ecclesiologia e catechesi patristica,​​ Roma, LAS, 1982, 311-328; Id.,​​ Catechesi e prassi ecclesiale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, c. V e VII; G. Baraùna (ed.).​​ La Chiesa del Vaticano II,​​ Firenze, Vallecchi, 1965;​​ La Chiesa è di tutti,​​ Leumann-Torino, LDC, 1978; Y.​​ Congar,​​ Un popolo messianico. La Chiesa sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione,​​ Brescia, Queriniana, 1976; Id.,​​ Ministeri e comunione ecclesiale,​​ Bologna, EDB, 1973; A. Exeler,​​ Vorstellungen von Kirche und deren religionspädagogische Auswirkungen,​​ “Katechetische Blätter” 103 (1978) 8, 591-602; Fac. Teol. Inter. Milano (ed.),​​ L'ecclesiologia dal Vaticano​​ I​​ al Vaticano​​ II,​​ Brescia,​​ La Scuola,​​ 1973; L. Gallo,​​ Una Chiesa​​ al servizio degli uomini,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982;

G. Giusti,​​ Contenuti per una proposta catechistica sulla Chiesa,​​ in “Note di Past. Giov.” 7 (1973) 3, 75-86; J.​​ Losada,​​ Modelos​​ eclesiológicos​​ y sus derivaciones en​​ la​​ evangelización y catcquesis,​​ in “Actualidad​​ catequética” 19 (1979) 92-93, 273-283; G. Philips,​​ La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano li,​​ 2 vol., Milano,​​ Jaca​​ Book,​​ 1969; W.​​ Rück –​​ H.​​ Volk,​​ Kirche für die Zukunft,​​ Mainz, Grünewald, 1974; H. Waldispühl,​​ Die Botschaft und Lehre von der Kirche im Religionsunterricht,​​ Freiburg-Schweiz, Universitätsverlag, 1967.

Emilio Alberich

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CHIESA

Il discorso è limitato alla C. Cattolica nei suoi rapporti con la realtà educativa privilegiando il punto di vista teoretico rispetto a quello storico (​​ Cristianesimo).

1. C.​​ e istituzioni educative e scolastiche.​​ La C., vivendo nel mondo, ha dovuto continuamente affrontare e risolvere a livello teorico e pratico, nell’orizzonte significativo della Parola di Dio, quei problemi che nascono dall’inevitabile incarnarsi della sua esperienza di fede nelle culture. Sia il​​ ​​ Magistero della C. che i teologi si sono resi conto che i cristiani, dovendo vivere la loro fede integralmente non solo nell’ambito del cultuale e del religioso ma anche nei settori profani della vita, erano obbligati ad affrontare i problemi emergenti dall’impatto della fede con la​​ ​​ cultura, inventando soluzioni che da una parte fossero coerenti con le esigenze irrinunciabili della loro fede, dall’altra fossero adatte al contesto socioculturale nel quale la fede cristiana doveva incarnarsi. Questo è avvenuto in passato e avviene ancor oggi nel settore educativo e pedagogico. Sono sorti in questo modo, nell’orizzonte significativo della fede cristiana, vari tipi di prassi e di istituzioni educative come pure di teorie pedagogiche, segnate dalla cultura del tempo e del luogo che le ha espresse, diverse tra loro, tuttavia possedenti, ciascuna, una caratteristica che, mentre le accomuna, nello stesso tempo le differenzia dagli altri tipi di educazione. Si tratta infatti di processi educativi, di istituzioni e di teorie pedagogiche messe in opera dalle comunità cristiane all’interno di progetti pastorali ultimamente finalizzati alla​​ ​​ conversione e alla crescita cristiana (​​ educazione cristiana,​​ ​​ pedagogia cristiana,​​ ​​ teologia dell’educazione). I rapporti tra C. e istituzioni educative e scolastiche, lungo i secoli cristiani, non furono né monolitici né univoci. È significativo, ad es., il fatto che, nei primi quattro secoli non solo durante le persecuzioni ma anche dopo la pace costantiniana, la C. non abbia pensato a crearsi su larga scala istituzioni educativo-scolastiche proprie, neppure per il suo clero. Accettò di fatto, sia pure come una necessità e malvolentieri, la scuola ufficiale, legata alla religione pagana, cercando di ovviare al pericolo che essa costituiva per la fede, premunendone gli alunni e provvedendo alla loro educazione e formazione cristiana nell’ambito della famiglia e della comunità liturgica. Molto diverso invece è stato il comportamento della C. in campo educativo e scolastico durante il​​ ​​ Medioevo e nell’epoca moderna e contemporanea. Nell’epoca moderna troviamo qualche presa di posizione autorevole da parte del Magistero in difesa dell’educazione cristiana e della scuola confessionale. Ma solo nell’epoca contemporanea, a partire da Pio XI, la C. ha affrontato in modo organico ed autorevole il problema dell’educazione cristiana in due documenti, differenti per importanza e per l’impostazione e la soluzione di alcuni problemi, tuttavia non in contraddizione tra loro: l’Enciclica​​ Divini Illius Magistri​​ (1929-1930) di Pio XI e la Dichiarazione​​ Gravissimum Educationis​​ (1965) del Conc. Vatic. II.

2.​​ Perché la C. deve interessarsi di educazione e di scuola.​​ Dopo il Conc. Vat. II, l’ecclesiologia cattolica colloca nella natura «sacramentale» della C. rispetto al Regno di Dio il fondamento teologico ultimo della sua funzione umanizzatrice nei confronti delle realtà terrestri, tra cui l’educazione e la scuola. Essendo infatti l’impegno fondamentale della C. quello di servire il Regno di Dio (di cui essa è sacramento, cioè segno e strumento) per la salvezza integrale dell’umanità, le comunità cristiane devono sforzarsi di essere​​ testimonianza​​ (con la vita e con la loro azione),​​ annuncio​​ (con la predicazione),​​ attuazione misterica​​ (con la liturgia) di questa stessa salvezza, offerta a tutta l’umanità da Dio nella pienezza dei tempi per mezzo di Gesù Cristo, manifestazione suprema e parola definitiva di Dio al mondo. Ora questa salvezza, annunciata e mediata dalla C. per la presenza in essa dei carismi dello Spirito Santo, è​​ dono gratuito di Dio,​​ ma è anche​​ impegno che investe la totalità dell’esistenza umana.​​ L’agape,​​ donata alla C. dallo Spirito Santo, mentre da una parte orienta tutta la sua azione pastorale alla conversione e crescita in Cristo dell’umanità intera, dall’altra spinge le comunità cristiane a interessarsi in modo particolare delle nuove generazioni; non solo della loro crescita in Cristo, ma anche della loro educazione morale e formazione culturale, in una parola della loro crescita umana, tenendo presente che questa avviene, oggi, in un mondo ampiamente secolarizzato, ideologicamente e religiosamente pluralistico e conflittuale, ampiamente pervaso, attraverso i mass media, di visioni della vita non solo anticristiane ma pure gravemente disumanizzanti. Per questo ed entro questi limiti, essa è​​ Mater et Magistra​​ per l’umanità intera. La situazione che caratterizza il mondo contemporaneo impone sia alla C. universale che alle c. particolari opzioni nuove e coraggiose proprio in campo educativo e scolastico. Per il bene dell’umanità, le comunità cristiane devono preoccuparsi di formare cristiani umanamente e moralmente adulti e maturi. I singoli cristiani poi, ciascuno secondo le proprie competenze e secondo i doni ricevuti, in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, devono contribuire, sotto l’ispirazione della fede, a una maggiore umanizzazione ed efficienza delle strutture e istituzioni educative e scolastiche esistenti o, dove questa collaborazione non fosse possibile, devono tentare, a proprio rischio, di progettarne delle nuove, rendendole agenzie di autentica maturazione umana.

3.​​ Modalità di attuazione.​​ Sono principalmente tre le condizioni che permettono alla C. di occuparsi di educazione e di scuola, senza venir meno alla sua missione fondamentale di essere «segno sacramentale» del regno di Dio. La​​ prima​​ consiste nel riconoscimento della bontà e relativa autonomia delle realtà e finalità temporali nei riguardi di quelle specificamente cristiane. Il Conc. Vat. II (GS​​ nn. 33-39) lo ha affermato in modo esplicito e inequivocabile, presentando questa dottrina come conseguenza necessaria del dogma della creazione da parte di Dio di tutta la realtà con le sue finalità intrinseche. Perciò la promozione di processi educativi e di istituzioni scolastiche, finalizzati al conseguimento di cultura e di autentica maturazione umana, è un’attività «buona» in se stessa, a prescindere da ulteriori finalità specificamente cristiane, alle quali può essere ulteriormente ordinata. Queste ultime, però, non devono né fagocitare né strumentalizzare in modo indebito le finalità umane di ordine temporale, eticamente buone. Affermare la distinzione tra realtà e finalità di ordine temporale e realtà e finalità specificamente cristiane appartenenti all’ordine soprannaturale, non significa tuttavia, in alcun modo, arrivare ad una loro separazione o addirittura ad una loro contrapposizione. Al contrario, pensandole nell’orizzonte della Parola di Dio, si deve giungere ad affermare una loro implicanza reciproca nella prassi pastorale ed educativa delle comunità cristiane. La​​ seconda​​ si attua mediante l’accettazione, umile e sincera, del contributo della saggezza umana, presente nell’esperienza viva delle diverse culture, e dell’apporto delle scienze dell’educazione, assunti, l’uno e l’altro, con vigile senso critico nell’orizzonte della Parola di Dio, in funzione di soluzioni sempre più adeguate dei problemi pedagogici. Non è possibile infatti ricavare dalla Parola di Dio sull’educazione, contenuta nella​​ ​​ Bibbia, e dalle interpretazioni date ad essa dalla tradizione cristiana lungo i secoli, una pedagogia rivelata valida per tutti i tempi e le culture, ma solo orientamenti generali per poterla poi costruire in dialogo con le scienze dell’educazione. Perciò i credenti devono impegnarsi in questa ricerca della saggezza umana e nell’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quello delle istituzioni educative. La​​ terza​​ condizione è data dalla prospettiva misterica ed escatologica che deve guidare la C. nel suo impegno di umanizzazione del mondo. Il continuo esigere, nella Bibbia, la sottomissione del sapere e dell’agire umani alla Parola di Dio fa evidentemente supporre non solo la possibilità ma anche l’esistenza di tensioni e contrasti tra saggezza umana e saggezza divina anche in campo educativo. Perciò la C., pur rispettando e promuovendo il lavoro della ragione in campo pedagogico, proprio per la sua adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede, dovrà essere sempre vigilante e critica verso ogni esercizio della ragione che avvenga in contrasto con il suo Credo. Inoltre pur riconoscendo la bontà e la validità di ogni sforzo educativo per un’umanità sempre più matura, pur collaborando sinceramente con tutti gli uomini di buona volontà all’attuazione di processi di liberazione e umanizzazione degli oppressi, le comunità cristiane dovranno impegnarsi in queste attività temporali, testimoniando, soprattutto con la vita prima ancora che con la parola, di essere animate dalla fede nell’esistenza di realtà e finalità trascendenti. Infine le comunità cristiane, anche quando reagiscono contro ogni forma di oppressione e di emarginazione o si impegnano a promuovere con sincerità e convinzione processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana all’interno delle differenti culture, devono farlo con motivazioni e in una prospettiva differente rispetto a quelle dei non credenti. Esse infatti, fondate sulla Parola di Dio, credono fermamente che la pienezza della perfezione dell’umanità e il compimento definitivo della​​ ​​ maturità umana a livello personale e comunitario non siano utopie illusorie e irraggiungibili. Sono certi che si realizzeranno a conclusione della storia, con la parusia del Cristo glorioso e la resurrezione, con l’instaurazione dei nuovi cieli e della nuova terra per ogni persona umana che si sforza di vivere secondo verità e ama di amore oblativo e operoso il prossimo. La messa in opera – all’interno di questi orizzonti di significato e sulla base di questi fondamenti – di istituzioni educative e di processi di formazione umano-cristiana, mentre da una parte non li sacralizza né clericalizza, dall’altra li umanizza e permette di qualificarli come «cristiani».

Bibliografia

Nipkow D. E., «Erziehung», in​​ Theologische Realenzyklopädie​​ 10 (1982) 232-253; Valentini D., «C.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 2558-2571; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’educazione cristiana: natura e fine», in N. Galli (Ed.),​​ L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Casella F.,​​ Punti nodali della riflessione pedagogica dalla Divini Illius Magistri alla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 293-304; Zani A.V.,​​ Il cammino della C. dalla Gravissimum Educationis a oggi, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 203-226.

G. Groppo

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