APPARTENENZA

APPARTENENZA

Franco Garelli

 

1.​​ Un termine molto utilizzato e poco approfondito

2.​​ Un termine di supporto ad altri concetti

3.​​ Gruppo di appartenenza, gruppo di riferimento

4.​​ Le dinamiche di appartenenza e di riferimento nell’associazionismo giovanile religioso

4.1.​​ Il gruppo di appartenenza

4.2.​​ Il gruppo di riferimento

4.3.​​ Attenzione alle condizioni organizzative

4.4.​​ L ’attenzione alle condizioni umane e gli orientamenti teologici congruenti

4.5.​​ L’importanza del passaggio dall’appartenenza al riferimento

 

1. Un termine molto utilizzato e poco approfondito

Quanti si sono applicati al concetto di appartenenza non hanno potuto fare a meno di rilevare sia il largo uso che di esso viene fatto vuoi nel linguaggio comune che nelle scienze umane e sociali, sia la carenza di una definizione univoca e consolidata in grado di rappresentare un preciso punto di riferimento per il ricorso a tale termine. È questo l’esito cui va incontro un termine che da un lato si presenta come particolarmente adatto per delineare alcuni aspetti delle condizioni di vita nella società contemporanea, affine alle modalità espressive e di rappresentazione dei rapporti sociali tipiche del tempo presente; e che dall’altro lato viene utilizzato senza riferimenti a precise tradizioni intellettuali e culturali proprie di ogni disciplina, senza cioè quel bagaglio di accezioni, di rimandi, di connotazioni che caratterizzano un concetto ormai entrato a far parte del «lessico» di una disciplina scientifica.

In questo quadro quello di appartenenza risulta un concetto di portata generale (« non ristretto nell’ambito di una sola disciplina»), non molto precisato, che tende ad essere generalmente assunto nel suo significato intuitivo, elementare, quasi non richiedesse né chiarificazione teorica, né una precisazione in termini operativi. In tutti i casi con il concetto di appartenenza si indica la partecipazione o la dipendenza attiva e riconosciuta di un soggetto (individuo o gruppo) nei confronti di una comunità, l’inclusione (perlopiù attiva e consapevole) di un individuo o di un gruppo in una realtà ritenuta più ampia e complessa, secondo modalità che variano di gran lunga da situazione a situazione.

 

2. Un termine di supporto ad altri concetti

Uno dei motivi alla base del mancato approfondimento di questo concetto è che esso — nelle varie discipline — assume perlopiù un ruolo di supporto di altri concetti, per cui non sembra mai essere stato oggetto di una trattazione o di uno sviluppo a sé stante.

In ambito psicologico, ad esempio, il termine «appartenenza» viene utilizzato — tra l’altro — per delineare una condizione essenziale nel processo di socializzazione, inteso come insieme di pratiche sociali grazie alle quali gli individui diventano membri della società o sono messi in grado di assumere o di esercitare i ruoli adulti. II senso di «appartenenza» degli adolescenti al gruppo dei coetanei viene descritto come funzionale alla maturazione di una condizione di distacco dei soggetti dai modelli parentali e alla loro immissione in una dinamica relazionale assai più ampia di quella che caratterizza, nei primi anni di vita, la formazione della personalità di base. In questo caso comunque il termine appartenenza viene per lo più utilizzato in rapporto ad altri concetti, ritenuti più importanti sia nella prospettiva psicanalitica che in quella psico-sociale, e fatti oggetto di maggior approfondimento: socializzazione, identità, identificazione, interpretazione di ruolo, affettività, regressione, ecc. Anche in ambito sociologico risulta assai frequente il ricorso al termine «appartenenza» per evidenziare la sfera di relazioni che caratterizzano un soggetto in rapporto alle posizioni che occupa nella società. Così ci si riferisce al termine «appartenenza» nel trattare dei caratteri di ruolo, di status, di classe o di ceto, di religione, di sesso, di gruppo etnico, di gruppo di interesse, ecc., che contraddistinguono la presenza sociale di ogni individuo. Ma anche in questo caso si registra nella storia della disciplina una maggior attenzione ai concetti relativi ai suddetti caratteri che non al termine «appartenenza» di volta in volta evocato per delineare le varie posizioni occupate dagli individui nella società.

Il non tener conto di queste osservazioni e il voler in tutti i casi attribuire uno statuto definitorio al termine «appartenenza» nell’ambito delle scienze sociali, può dar adito a un’operazione arbitraria e spuria, tipica di chi di fatto ripropone col termine qui considerato tutta una serie di categorie che nella tradizione sociologica sono state espresse secondo altre connotazioni concettuali. Così i classici della sociologia hanno fatto riferimento a concetti quali gruppo, istituzione, partecipazione, comunità, ruolo, relazione sociale, interazione, sistema sociale, collettività, marginalità sociale, ambiente, ecc.: tutti termini che possono indicare — per determinare classi di soggetti — specifiche «appartenenze» sociali, senza però che il concetto di appartenenza sia stato oggetto di particolare trattazione e approfondimento per delineare una relazione o un modo di essere dei soggetti diversi da quelli prefigurati mediante l’utilizzo dei termini prima esposti.

 

3. Gruppo di appartenenza, gruppo di riferimento

Una delle poche eccezioni a questa osservazione generale è rappresentata dall’utilizzo del termine appartenenza per indicare un particolare tipo di modalità associativa. L’approfondimento in questione si deve al noto esponente del funzionalismo critico R. K. Merton, il quale — tra i molti meriti scientifici — ha offerto un importante contributo all’arricchimento dei criteri di classificazione dei gruppi.

Nel dibattito sociologico si contano numerosi criteri di classificazione della relazione sociale indicata col termine gruppo. Tra queste si può ricordare la distinzione introdotta da W.G. Summer (1906) tra gruppo interno e gruppo esterno, in base alla quale col primo termine si intende una realtà sociale che si forma in rapporto a una comune identità (espressa da un sentimento comunitario, dal senso del «noi») e con il secondo le realtà considerate come un gruppo esterno (in rapporto alle quali non si matura cioè un senso di identificazione). Si tratta di una prospettiva che attribuisce grande importanza al gruppo cui si appartiene, considerato come distintivo o contrapposto ad altre realtà associative.

Un’altra importante distinzione riguarda poi la differenza — introdotta da C.H. Cooley (1909) — tra gruppi primari e gruppi secondari. Con i primi si intendono quelle realtà aggregative che sono caratterizzate dalla possibilità dei componenti di interagire «a faccia a faccia», dal prevalere di relazioni affettive e gratificanti, da un forte sentimento di identificazione, tutti fattori di cui può non esservi riscontro nei gruppi cosiddetti «secondari», che si determinano in rapporto a particolari obiettivi (sociali, politici, occupazionali, di interesse) che risultano in grado di coinvolgere un insieme di individui. All’interno di questo quadro definitorio un importante criterio di classificazione dei gruppi è individuabile nella distinzione — operata da Merton nel 1957 — tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento. Chi appartiene a un gruppo si caratterizza in genere sia per un elevato senso di identificazione e di lealtà sia per l’adesione e la conformità alle norme, ai valori, agli stili di vita, alle visioni del mondo che prevalgono in detta realtà associativa. «In tal modo il gruppo di appartenenza contribuisce a determinare direttamente l’orientamento e l’agire dell’individuo. Tuttavia il comportamento e l’atteggiamento dei singoli vengono influenzati non soltanto dall’appartenenza a un gruppo, ma anche, indirettamente, dal riferimento a collettività o categorie di cui essi non fanno parte, ma che si rivelano di particolare importanza e stimolo per le decisioni che essi devono prendere. Queste collettività sono dette genericamente gruppi di riferimento, anche se alcune di esse non sono, in senso stretto, gruppi».

 

4. Le dinamiche di appartenenza e di riferimento nell’associazionismo giovanile religioso

La distinzione tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento appare particolarmente utile per illustrare le dinamiche che caratterizzano nel tempo presente l’associazionismo religioso giovanile e per far fronte ad alcuni problemi «aggregativi» che attraversano questo tipo di associazionismo nell’attuale contesto socio-culturale. Nell’applicare questi concetti ai processi associativi qui analizzati si opta per un’accezione terminologica che — pur prendendo lo spunto dalla distinzione operata da Merton — esula da problemi di fedeltà al contributo di detto autore. Si tratta, in altri termini, di operare alcuni aggiustamenti concettuali funzionali a delineare i processi che caratterizzano nel tempo presente l’associazionismo religioso giovanile e a indicare possibili criteri di soluzione alle tensioni o ai problemi riscontrabili in questa importante area di rapporti sociali.

L’ipotesi di partenza è che molti problemi o tensioni riscontrabili nella pastorale giovanile del nostro paese (ma più in generale di tutte le società occidentali) siano imputabili alla mancanza di chiarezza o al fatto di non rendere operante a livello associativo la distinzione tra gruppo di appartenenza e gruppo di riferimento, nella particolare accezione che qui cercheremo di delineare.

 

4.1. Il gruppo di appartenenza

Il gruppo di appartenenza può essere indicato come una realtà in cui i membri risultano fortemente coinvolti — in termini di tempo, di rapporti, di risorse — nella realtà associativa a cui aderiscono. Il gruppo viene vissuto da essi perlopiù come totalizzante o fortemente impegnativo, in grado di attribuire un senso unitario e fondante all’esperienza personale e sociale dei soggetti. In questa linea il confine tra vita di gruppo e esperienza personale e sociale appare molto esile, a indicare la tendenza da parte degli individui a far coincidere queste due diverse dimensioni e forme espressive della vita quotidiana.

Si ha pertanto a che fare con un gruppo basato su rapporti primari, sull’affettività, sufficientemente omogeneo per quanto riguarda l’età e le problematiche degli appartenenti, che impegna perlopiù i membri a un’assidua compresenza, nella linea di una continuità e di una compartecipazione che identifica l’appartenere al gruppo con lo «stare», l’«esserci», il condividere le dimensioni dello spazio e del tempo, il «farsi compagnia». Così descritto, il gruppo di appartenenza si presenta come particolarmente adeguato per l’età adolescenziale, per soggetti caratterizzati da un’età della vita in cui si avverte in modo acuto l’esigenza di spazi affettivamente «caldi» in cui maturare una propria identità, in cui ritrovare una risposta alle indifferibili esigenze di socializzazione, di relazioni, di presenza sociale.

Anche la proposta religiosa, l’intento educativo, l’istanza del protagonismo sociale ed ecclesiale... non possono prescindere da questa realtà di base, da queste esigenze aggregative dei giovani. O si offre risposta ad esse — pur nell’intento di orientare all’impegno, di far maturare un’identità sociale e religiosa —, oppure le proposte educative e religiose appariranno ai giovani eccessivamente lontane dallo loro sensibilità, insignificanti per la loro condizione di vita, troppo astratte rispetto all’esigenza di avviare a soluzione i problemi di identificazione, di sicurezza, di stabilità sociale che caratterizzano la formazione della personalità di base di un soggetto. È indubbio che molte realtà dell’associazionismo religioso giovanile del nostro paese rispecchiano le dinamiche del gruppo di appartenenza così come si è tentato di descriverlo. Si tratta di caratteri funzionali alla possibilità stessa che questo tipo di associazionismo abbia ad affermarsi nella società, faccia presa sulle giovani generazioni, rappresenti un nucleo distintivo tra le varie proposte associative che attraversano un contesto socioculturale differenziato come l’attuale. Senza un forte senso di appartenenza, senza una marcata identificazione nella vita del gruppo, al di fuori di un «ambiente» associativo in grado di rispondere ai bisogni di realizzazione dei giovani, non sembra possibile delineare un’esperienza associativa in grado di coinvolgere i giovani e di mobilitarli attorno a obiettivi di rilievo.

Il rapportarsi al gruppo in termini di «appartenenza» risulta pertanto una «disposizione» necessaria e plausibile per l’età adolescenziale e giovanile, mentre invece può risultare «patologica» nel caso in cui essa abbia a protrarsi oltre il periodo della formazione di base, oltre gli anni forti della socializzazione giovanile. A questo livello occorre infatti prefigurare il gruppo di riferimento.

 

4.2.​​ Il gruppo di riferimento

Quale l’identikit di un gruppo di riferimento? Si intende in questo caso un gruppo caratterizzato da rapporti di tipo «secondario», nel quale l’adesione si fonda non su aspetti di simpatia o di compresenza e condivisione del tempo e dello spazio, o su rapporti «a faccia a faccia», ma su aspetti, valori, orientamenti culturali, largamente condivisi e interiorizzati dai membri. Si sta così delineando un gruppo di adulti, di «giovani maturi», i quali trovano motivo di appartenenza non nello stare insieme, nell’interazione costante, nella condivisione fortemente coinvolgente della vita quotidiana, nell’«esserci», ma su una comune identità sociale e religiosa, su una sensibilità culturale «affine». La specificità di un gruppo di riferimento non è solo data dalla condivisione di valori e di un’identità, ma anche dall’esigenza del confronto, della revisione comunitaria, dalla riflessione sulla rispondenza delle scelte pratiche al nucleo dei valori in cui ci si riconosce.

Il gruppo di riferimento quindi si distingue da un lato dal «gruppo di appartenenza» in quanto è centrato più su aspetti «secondari» che «primari» (più sulla condivisione dei valori che sull’esigenza affettiva e relazionale), e dall’altro lato dal «gruppo di impegno», in quanto la sua finalità è più di confronto, di verifica, di maturazione dei membri che non di incidenza sociale, politica o religiosa. Qual è il senso attuale di un gruppo di riferimento?

Anzitutto un tale gruppo appare oggi plausibile da un punto di vista sociale, richiesto dalle condizioni socio-culturali in cui si vive. In una realtà complicata come l’attuale, caratterizzata da elevati processi di mutamento, in cui i soggetti hanno sempre più difficoltà a comprendere gli avvenimenti e a ridefinire la propria identità, i gruppi di riferimento si presentano come un indispensabile momento di maturazione e di crescita per quanti non vogliono essere travolti e frastornati dai mutamenti e dagli avvenimenti sociali.

In secondo luogo, il gruppo di riferimento appare indispensabile anche in rapporto all’identità religiosa. Attualmente molti credenti avvertono la necessità di ridare radici alla propria identità religiosa, considerando la dimensione religiosa come una delle poche risorse oggi disponibili che permettono di far fronte alla crisi dei significati e delle prospettive.

Oltre a ciò il gruppo di riferimento religioso permette di contrastare il pericolo che l’identità religiosa venga vissuta prevalentemente in termini soggettivi, secolarizzati, troppo a misura delle attese e delle pre-comprensioni umane. Inoltre il gruppo di riferimento può rappresentare un’inversione di tendenza rispetto all’orientamento prevalente nel campo ecclesiale di impegnare immediatamente a livello pastorale le risorse umane disponibili. Attraverso di esso, in altri termini, si può contrastare la tendenza al fare, all’efficienza, alla realizzazione, alla «gestione», che caratterizza perlopiù la «domanda» delle strutture religiose di base, per affermare anzitutto l’esigenza della ricerca spirituale, il primato della fede, la centralità dell’istanza religiosa.

Così delineato, un gruppo di riferimento religioso è composto da adulti inseriti in ambienti sociali e professionali diversi, aventi vocazioni differenti, accomunati dall’esigenza di ricomporre la propria identità religiosa in uno spazio comunitario. La comunità come luogo di memoria storica, come deposito dei valori, come insieme delle diverse vocazioni, rappresenta il punto di riferimento ideale, il luogo di verifica dell’identità ultima, lo spazio di rigenerazione delle risorse motivazionali e ideali, il momento in cui si confronta la concretezza della propria storia — fatta di limiti, compromessi, asprezze, cadute, velleità — con lo specifico dell’identità religiosa.

Il gruppo di riferimento pertanto non sostituisce l’impegno dei soggetti nella vita quotidiana (nella famiglia, nel lavoro, nella presenza e partecipazione sociale), anzi, lo richiede; non diventa esso stesso un gruppo di azione, di impegno sociale e politico, anzi si arricchisce della diversità degli interventi e delle presenze sociali dei suoi membri; non mira a uniformare — come risultato del confronto dell’interazione — il comportamento dei membri nei vari campi della morale e della presenza sociale, ma dà adito a un confronto su questi aspetti — alla luce dei valori condivisi — che lascia spazio per libere e autonome scelte da parte dei membri; non deve essere troppo selettivo nei confronti degli aderenti in modo da permettere una proficua dialettica interna e nello stesso tempo non troppo diversificato per evitare che vengano a mancare elementi di condivisione tra i membri e si determinino eccessivi disturbi nella comunicazione.

In particolare, il gruppo di riferimento dovrebbe essere composto da due tipi di «vocazioni» che appaiono complementari e necessarie nella comunità religiosa: l’area degli animatori (anche adulti) che oltre al loro impegno professionale spendono il tempo libero prevalentemente in termini di servizio educativo nella comunità (ai vari livelli del ciclo educativo), e l’area di quanti invece non hanno rapporti educativi con la comunità e vivono la loro identità religiosa soprattutto nella vita quotidiana e professionale (lavoro, famiglia, impegni sociali e politici, relazioni sociali varie). La ricchezza di un gruppo di riferimento si può misurare dalla compresenza e complementarità di queste due aree al suo interno, che esprimono vocazioni e posizioni sociali e religiose diverse.

L’area degli animatori ricorda, a quanti sono impegnati nel sociale, l’esigenza — per la sopravvivenza della comunità e per la fecondità della fede come valore — di un impegno educativo in favore dei «piccoli», l’importanza di un’azione formativa nei confronti dei «nuovi» adepti, la centralità del lavoro di sensibilizzazione e di formazione (educativo e religioso) di base. In tal modo ogni membro «esterno» viene richiamato alle radici della comunità, all’esigenza della continuità dei valori religiosi nelle generazioni, alla coscienza di una fede comunitaria.

Quanti hanno il loro impegno all’esterno della comunità ricordano in primo luogo alla comunità stessa che lo sbocco dell’azione educativa è il mondo, che la comunità non è fine a sé stessa, ma costituisce uno spazio-momento in cui i soggetti si abilitano per poter poi vivere a pieno titolo nella società e nella vita quotidiana l’identità religiosa. In secondo luogo essi ricordano a chi è in «forinazione», ai più «piccoli», che è possibile realizzare l’identità religiosa nel sociale e nel politico e nelle dinamiche ordinarie dell’esistenza. In terzo luogo essi riversano sulla comunità educativa le loro tensioni, sensibilità e speranze, contribuendo in tal modo ad arricchire quanti in essa hanno compiti specificatamente educativi, in modo che la loro proposta abbia a tener presente — in termini di contenuti e di metodi — la situazione e le problematiche reali.

 

4.3.​​ Attenzione alle condizioni organizzative

S’è detto in precedenza che una comunità che non sappia differenziare al suo interno il livello associativo, operando una distinzione tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento, è una realtà che mette in atto formule aggregative non adeguate alle potenzialità, alle condizioni, alle esigenze dei soggetti che ad essa aderiscono. Se ciò si verifica, siamo di fronte a un problema organizzativo non affrontando il quale gli sforzi di affinamento del contenuto o dei metodi educativi appaiono velleitari, non rendono ragione dei problemi realmente in atto.

Ogni qual volta si riscontrano adolescenti inseriti in un gruppo di riferimento o «giovani maturi» o adulti che vivono la realtà dell’appartenenza, abbiamo a che fare con disegni organizzativi «spuri» o «patologici». Infatti gli adolescenti sono costitutivamente estranei a una logica di gruppo di riferimento, in quanto hanno ancora da affrontare quei problemi di socializzazione e di interiorizzazione di motivazioni e di valori religiosi, la cui risoluzione permette loro quell’autonomia di vita propria di chi fa parte di una realtà di riferimento. Così, parallelamente, i «giovani maturi» o gli adulti «costretti» in un gruppo di appartenenza, avvertono la ristrettezza di questo modello di realizzazione rispetto ai settori sociali e alla pluralità di appartenenze a cui li destina la loro maturità. Mentre per essi il gruppo di appartenenza risulta troppo ristretto, eccessivamente costrittivo nelle dinamiche che produce, per gli adolescenti il gruppo di riferimento appare «fuori quota», fuori misura, rispetto alle loro esigenze e condizioni.

Si tratta pertanto di creare le condizioni organizzative perché gli uni e gli altri trovino a livello ecclesiale gli spazi più connaturali alla sensibilità, condizione e livello di maturazione che li caratterizza.

 

4.4.​​ L’attenzione alle condizioni umane e gli orientamenti teologici congruenti

È ovvio che sulla scelta delle formule organizzative ha largo peso il tasso di conoscenza della psicologia umana presente nella comunità. Infatti, dietro l’esposizione di adolescenti in un contesto di riferimento si avverte la carenza di conoscenza circa la psicologia dell’età giovanile, il non avvertire che gli adolescenti hanno necessità di realtà aggregative fortemente coinvolgenti, in cui le dinamiche della vita quotidiana e quelle del gruppo a cui appartengono si fondano in tutt’uno. Parallelamente, perpetuando anche a livello di «giovani maturi» e di adulti la formula dell’appartenenza, non si tiene conto che il modello di realizzazione personale di questi soggetti passa perlopiù per la molteplicità dei ruoli e delle condizioni di vita e risulta per certi versi refrattario a proposte totalizzanti e univoche.

In tutti i casi dietro la scarsa attenzione al mutamento — nelle coscienze — dei modelli culturali e alla psicologia delle varie età della vita, si cela perlopiù una precisa concezione della realtà e opzione teologica. Alcune esperienze in cui si continua a proporre agli adulti o a «giovani maturi» un’appartenenza totalizzante al gruppo religioso, sono dettate dall’obiettivo di non disperdere i soggetti nel sociale, dal timore della loro diaspora a contatto col mondo, dalla paura che essi nell’autonomia di vita e di appartenenza abbiano a stemperare la loro identità. In questo caso, a una visione della società in termini negativi, corrisponde perlopiù una concezione teologica di gruppo ecclesiale chiuso al suo interno, concluso in sé stesso. Il gruppo ecclesiale appare così senza sbocchi, focalizzato sulla riproduzione interna, scarsamente fecondo per la realtà in cui è inserito.

Così, parallelamente, il non favorire gruppi di appartenenza per l’età adolescenziale o immediatamente post-adolescenziale può rispecchiare un orientamento teologico caratterizzato da scarsa attenzione per le condizioni storiche dei soggetti, per le dinamiche, le tensioni e i problemi che essi vivono.

 

4.5. L'importanza del passaggio dall'appartenenza al riferimento

La difficoltà nell’ambiente religioso-ecclesiale non riguarda soltanto la capacità-possibilità di organizzare tipi di gruppo diversi a seconda delle differenti tappe di maturazione dei soggetti, ma anche a curare il passaggio dei soggetti dal gruppo d’appartenenza a quello di riferimento, a creare cioè le condizioni perché — con il progredire dell’età dei componenti — il gruppo di appartenenza abbia ad esaurire la sua funzione (almeno per quell’insieme di individui) e perché questi abbiano a trasformare il loro legame in una realtà di riferimento.

Nei gruppi ecclesiali infatti è questo un momento di passaggio in cui più si registrano «punti di rottura», situazioni critiche. Una prima difficoltà si riscontra nella pressione di conformità del gruppo d’appartenenza a non permettere che alcun membro abbandoni il gruppo. In certi casi si producono a questo livello vere e proprie fratture e preclusioni nei confronti di soggetti prima compagni di viaggio e poi considerati improvvisamente estranei perché non possono più (o non intendono più) dedicare al gruppo la maggior parte del proprio tempo. In alcuni casi queste preclusioni sono indirette ma ugualmente marcate. Il fatto che qualche membro abbia maturato altri impegni, abbia meno tempo a disposizione, presenti altri orientamenti e appartenenze, fa sì che il gruppo a poco a poco lo estranei dalle decisioni, dalla comunicazione, dalla dinamica dei rapporti, relegandolo in una posizione di effettiva marginalità o insignificanza relazionale.

Una seconda difficoltà è legata all’abitudine all’appartenenza che può aver ormai condizionato l’esperienza dei soggetti. In alcune realtà di appartenenza i rapporti primari mantengono validità in tutti gli stadi della vita di gruppo. Non si verifica, in altri termini, una progressiva diminuzione dell’aspetto affettivo, della sicurezza reciproca, delle relazioni primarie, per lasciar spazio a poco a poco a una relazione fondata prevalentemente sulla condivisione di valori e obiettivi. In tal modo gli individui risultano assuefatti a un particolare modello di realizzazione di gruppo, per cui avvertono come negative le proposte di sbocco in altre realtà associative non caratterizzate da quella forte integrazione affettiva che era alla base dell’esperienza di «appartenenza». Tutto ciò sta a indicare che il passaggio dall’«appartenenza» al «riferimento» non può avvenire casualmente o improvvisamente, che esso è frutto di pre-condizioni, di un lungo processo di maturazione.

Un terzo problema riguarda la difficoltà di approccio in un gruppo di riferimento già costituito precedentemente, nel quale i soggetti devono a poco a poco — secondo un processo di maturazione personalizzato — confluire. Una vita associativa omogenea e forte alle spalle — nel gruppo di appartenenza — può condizionare i giovani nell’affacciarsi al gruppo di riferimento. In alcuni casi essi possono avvertire un’estraneità di condizione e di problematica rispetto a quanti già compongono il gruppo di riferimento, per cui tendono a non riconoscersi nell’impostazione prevalente e a creare un nuovo gruppo di riferimento sulla misura della sensibilità e dell’orientamento culturali che li caratterizzano. Una quarta difficoltà è rappresentata dal diverso livello di maturazione che si registra tra i membri del gruppo di appartenenza. Si pone qui il problema se il passaggio al gruppo di riferimento debba avvenire contemporaneamente per tutti i giovani del gruppo di appartenenza — a un determinato stadio di maturazione — oppure se siano preferibili distacchi dei singoli che più di altri avvertono tale esigenza. In tutti i casi questi distacchi provocano lacerazioni del gruppo di appartenenza, dal momento che alterano gli equilibri in esso esistenti e producono nuove dinamiche.

 

Bibliografia

Gallino L.,​​ Effetti dissociativi dei processi associativi in una società altamente differenziata,​​ in «Quaderni di Sociologia», marzo 1979; Garelli F.,​​ Gruppo,​​ in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano 1981; Merton R. K.,​​ Teoria e struttura sociale,​​ Il Mulino, Bologna 1978; Struffi L. - G. Pollini,​​ Appartenenza,​​ in F. De Marchi, A. Ellena, B. Cattarinussi (a cura),​​ Nuovo dizionario di Sociologia,​​ Edizioni paoline, Milano 1987.

APPELLO → vocazione.

APPROCCI SCIENTIFICI → fede (sguardo di) - giovani 1. — sacramenti 1. — scientificità — teologia pastorale 2.2. — teologia pastorale e altre scienze — uomo 1.

ARNOLD F. X. → teologia pastorale (storia) 6.​​ 

ASCETICAdirezione spirituale 3.5.

ASCOLTO —scomunicazionedialogoeucaristia 2 — preghiera 3.1 — vocazione 3.2.1.

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