EDUCAZIONE MORALE

Guido Gatti

 

1. Educazione morale e educazione della fede

2. Una prospettiva evolutiva ed educativa della morale

2.1. Il principio di gradualità

2.2. Il principio di globalità in educazione morale

3. Dualismo e naturalismo in educazione morale

3.1. Il dualismo morale

3.2. Il naturalismo morale

3.3. Educabilità delle tendenze naturali

3.4. Educazione del desiderio

4. La maturità morale

5. Le polarità dello sviluppo morale

6. Dinamismi educativi

6.1. L’amore accogliente

6.2. L’insegnamento morale

6.3. La responsabilizzazione

 

1. Educazione morale e educazione della fede

L’educazione morale è sempre stata un tratto essenziale della vita sociale e culturale dell’umanità. Ma una riflessione sistematica e tematizzata su di essa è relativamente recente. La prima opera con il titolo «Educazione morale» risale all’inizio di questo secolo ed è di E. Durkheim, uno dei pionieri nelle nascenti scienze sociali. Quasi contemporaneamente, il problema dell’educazione morale riceveva una attenzione privilegiata negli studi di S. Freud e dei suoi primi discepoli (C. G. Jung e A. Freud). Da allora il tema dell’educazione morale e quello dello sviluppo morale, ad esso intimamente intrecciato, costituiscono un capitolo particolare, di notevole rilievo, nell’ambito della metodologia pedagogica e della psicologia evolutiva. Questa riflessione tematizzata sui problemi dell’educazione morale non può lasciare indifferente la pastorale giovanile. Essa è infatti un momento importante dell’educazione della fede nella comunità ecclesiale, e l’educazione della fede ha con l’educazione morale un complesso rapporto di parentela. L’educazione morale è anzitutto​​ una dimensione costitutiva dell’educazione della fede:​​ l’educazione della fede sfocia inevitabilmente nella educazione di un impegno morale che incarni la fede nell’esistenza.

Questo non significa che il fatto morale non abbia una sua consistenza autonoma rispetto alla fede. Un numero crescente di teologi tende anzi a enfatizzare oggi questo carattere autonomo della morale, a vedere nel fatto morale un’esperienza originaria, giustificabile anche solo in base alla verità puramente creaturale dell’uomo.

La fede può assumere il fatto morale, integrarlo nei suoi dinamismi, dargli un significato trascendente, ma senza sopprimerne o violarne la costitutiva autonomia. Soprattutto per quanto riguarda i valori morali puramente umani e i contenuti normativi, la stessa morale cristiana sarebbe in fondo nient’altro che una morale autenticamente umana vissuta nella fede, e quindi illuminata dai significati, dalle motivazioni e dalle speranze che la fede accende nel cuore dei credenti.

Una simile concezione del rapporto tra l’elemento puramente umano e quello specificamente cristiano, all’interno dell’etica cristiana permette al credente di dialogare e collaborare con ogni uomo di buona volontà.

Non tutti i teologi sono però d’accordo in questa concezione. Essa comunque avrebbe valore soltanto sul piano della comprensione teoretica.

Sul piano dell’esperienza morale cristiana concreta, vissuta all’interno di una autentica esperienza di fede, l’humanum​​ della morale cristiana viene totalmente assunto nella fede che ne rappresenta l’unico inveramento e l’unica salvezza. Cristo è l’uomo perfetto e l’unica verità dell’uomo.

È quindi chiaro che l’educazione morale cristiana è tutta quanta un fatto di fede, un momento e una dimensione dell’educazione della fede.

L’educazione cristiana è quindi chiamata ad essere profondamente unitaria: essa ha sempre come unico obiettivo finale quello di far conoscere Cristo, di farlo amare, di farlo vivere. Questo non esclude che, almeno nella nostra società, gli stessi credenti siano sottoposti, nei più diversi ambiti della loro esistenza (scuola, lavoro, amicizie, famiglia) a forme di influsso educativo morale non esplicitamente ispirate alla fede.

Ma nella misura in cui queste forme di educazione morale sono autentiche, almeno sul piano umano, costituiscono sempre anche una parabola e un condizionamento positivo per l’educazione della fede.

Ogni forma di autentica educazione morale è​​ una parabola dell’educazione della fede,​​ nel senso che educa atteggiamenti che si trovano in intima continuità e consonanza con la fede: così sono ad esempio l’amore della verità, l’apertura agli altri, la disponibilità alla ricerca di senso, l’apertura al mistero, la capacità di impegno, di fedeltà, l’ottimismo militante, e tutti gli altri «buoni frutti» di ogni educazione morale autentica.

Se resta vero che Cristo è l’unica verità dell’uomo e la fede l’unica sua salvezza, va detto anche che ogni autentico impegno morale umano va visto come una forma di fede, almeno embrionale e «implicita», capace di salvare «quelli che cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza»​​ (LG​​ 16).

Non raramente del resto, un’autentica educazione all’impegno morale è​​ condizione positiva, occasione e stimolo​​ per il passaggio da questa fede «anonima» a una fede più consapevole ed esplicita.

L’educazione morale prepara in questo caso, magari da lontano, l’incontro aperto e consapevole con Cristo, se non altro aprendo al problema della radicale insufficienza, del bisogno di senso ultimo e di speranza trascendente che incombe su ogni esperienza morale puramente umana, tanto più ineludibilmente quanto più essa sia seria ed autentica.

Il problema dell’educazione morale tocca quindi direttamente la pastorale giovanile. Questo è uno dei motivi per cui la pastorale giovanile è chiamata a confrontarsi con le scienze dell’uomo (e in particolare con la psicologia e le altre scienze dell’educazione) che si occupano in maniera diretta di educazione morale.

Questo comporta una certa trasposizione di problematiche dall’uno all’altro di questi due campi del sapere pratico: pedagogia morale e pastorale giovanile hanno per una certa parte oggetto e interessi comuni e non possono ignorarsi a vicenda.

 

2. Una prospettiva evolutiva ed educativa della morale

Naturalmente ci limiteremo a segnalare qui solo alcuni di questi problemi, nei quali il discorso pedagogico interferisce più profondamente con quello teologico-morale.

11 primo di questi problemi è costituito dalla presa di coscienza del carattere evolutivo e dinamico dell’esperienza morale e delle conseguenze pratiche che esso comporta.

La pastorale giovanile si fondava in passato su di una concezione rigida e statica dell’ordine etico; concezione che essa recepiva dalla teologia morale. L’ordine morale veniva visto come confine assoluto e intemporale tra il bene e il male, che non ammetteva nessuna idea di sviluppo e di gradualità, che venivano invece riservate al campo del «più perfetto» e del supererogatorio; un campo che era lasciato alla «dottrina spirituale» e all’ascetica. Le scienze dell’educazione aprono la pastorale a una concezione evolutiva del fatto morale; in questa concezione, l’esperienza morale non consiste tanto nel riuscire a restare dentro i confini prefissi e rassicuranti di una normativa rigida, quanto nell’impegno di diventare sé stessi, attraverso la progettazione di un modello originale di umanità e la fruttificazione dei propri doni di natura e di grazia. L’impianto normativo non viene respinto, ma viene reinterpretato nei termini di una direzione di crescita.

L’impegno morale appare allora come un impegno di autoeducazione in cui il soggetto plasma le strutture della sua personalità, integrandole gradualmente nella logica della sua scelta fondamentale e del suo progetto globale di vita.

Le singole decisioni etiche non sono più il tutto dell’esperienza morale, ma solo momenti particolari di un processo attraverso il quale l’uomo plasma sé stesso. Fare il bene è «educere»,​​ cioè far emergere dalla loro latenza, tutte le possibilità di umanizzazione che l’uomo ha in sé: «Facendo il bene, l’uomo fa sé stesso in quanto persona; modifica l’orientamento di fondo e perfino le strutture della sua personalità» (F. Bockle).

Questa concezione dell’impegno morale è carica di conseguenze per la pastorale.

 

2.1. Il principio di gradualità

Una di queste conseguenze è la rilevanza nuova che viene ad assumere nella pastorale il c.d.​​ «principio di gradualità».

Il sinodo dei vescovi sulla Famiglia ha formulato questo principio in modo molto generale: «Bisogna opporsi all’ingiustizia che ha origine nel peccato sia personale che sociale (...) mediante una conversione continua. (...) In essa il mondo acquista​​ solo a poco a poco​​ la pienezza dell’età di Cristo. In questa conversione si danno​​ gradi diversi.​​ Si tratta infatti di un​​ processo dinamico​​ (...) che procede a poco a poco verso l’integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore assoluto e definitivo in tutta la vita personale e sociale degli uomini» (prop. n. 7).

E Giovanni Paolo II in modo ancora più lapidario: «L’uomo, chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio è un essere storico che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene secondo tappe di crescita»​​ (FC​​ 34).

Non si deve peraltro credere che il principio di gradualità sia solo un allargamento o una applicazione benigna della tradizionale distinzione tra «disordine oggettivo» e «colpevolezza soggettiva» nell’ambito della valutazione etica.

Il principio di gradualità non vuole soltanto trovare delle ragioni scusanti nella valutazione della condotta morale delle persone concrete: esso vuole anzi restituire serietà all’impegno morale di queste persone, proponendo loro degli obiettivi già-possibili, come tappe intermedie di un itinerario di crescita morale, lungo quanto la vita e aperto agli ideali indefiniti della perfezione della carità.

Va da sé che questa proposizione di tappe intermedie nell’ambito di un itinerario di crescita morale, se vale in generale per ogni persona umana, vale in maniera particolarissima per il giovane, totalmente impegnato in un processo tumultuoso di sviluppo che coinvolge tutte le strutture della sua personalità in formazione.

La pastorale giovanile è quindi chiamata a fare completamente propria questa strategia di gradualità e a vedere nel fatto morale, in tutta la sua estensione, anzitutto un fatto educativo.

Con la recezione di questa prospettiva di gradualità, la pastorale giovanile si mette al servizio della vera crescita morale della persona, accettando di confrontarsi sistematicamente con le scienze dell’educazione e di diventare essa stessa una forma di pedagogia morale.

 

2.2. Il principio di globalità in educazione morale

L’esperienza morale è essenzialmente un fatto della libertà; ma la libertà umana ha un corpo che è costituito dal complesso delle strutture della personalità, da quello che ordinariamente si suole chiamare il «carattere morale».

Vedere l’esperienza morale in prospettiva educativa significa dare un’importanza molto maggiore ai legami più o meno palesi che uniscono questa esperienza a tutta la storia di vita della persona, alle strutture della personalità e al loro divenire, condizionato dall’educazione e dalla situazione storica e culturale in cui la persona si trova a vivere. L’educazione morale si riaggancia e si fonde intimamente con l’educazione globale della persona, da cui non può assolutamente isolarsi.

Al suo stesso interno, il fatto morale è di natura essenzialmente «distica» e tale è anche l’educazione morale.

Ogni particolare valore morale, ogni tratto positivo del carattere morale, trova la ragione vera della sua positività nella sua connessione col tutto della personalità morale e tale personalità può crescere solo armonicamente, nel rispetto di questa sua interna unità vitale.

 

3. Dualismo e naturalismo in educazione morale

Un secondo importante problema in cui le preoccupazioni della pastorale giovanile interferiscono con i dati delle scienze dell’educazione è senza dubbio quello dell’origine (autoctona o meno) e della natura profonda delle energie psichiche che sono in gioco nell’esperienza morale, e che sono quindi oggetto dell’educazione morale.

Si tratta cioè di vedere se l’educazione morale deve iniettare nel dinamismo psichico dell’educando qualcosa che in lui non esiste neppure come potenzialità latente, oppure se essa può appellarsi a delle energie interiori del soggetto, già potenzialmente orientate al bene. L’alternativa è tra una educazione morale che si risolve in un addomesticamento e in una violenza e un’educazione morale che si limita a far emergere le potenzialità di bene dell’educando.

 

3.1. Il dualismo morale

Per Durkheim e per Freud, l’esperienza morale non nasce spontaneamente dall’interno dell’uomo. Essa non risponde ai suoi interessi (almeno a quelli soggettivamente percepibili come tali), ma a quelli della società.

Per questo l’esperienza morale resterà sempre, nel dinamismo psichico della persona, come qualcosa di costringente e di estraneo, mai pienamente assimilato, fonte di una sottomissione piena di riserve.

L’uomo, nella sua più originaria e profonda costituzione resta un essere fondamentalmente immorale.

La visione della morale che sottostà a queste teorie della personalità è profondamente «dualistica» (Durkheim stesso ha coniato l’espressione​​ homo duplex).

La scelta morale presuppone quindi un certo rinnegamento dell’inclinazione naturale e porta con sé una penosa esperienza di divisione interiore e di sottomissione. L’educazione morale in questo caso avrebbe appunto Io scopo di costringere, attraverso i più diversi meccanismi di pressione psicologica, a questa sottomissione. Ma l’interiorizzazione dell’istanza etica resterà sempre qualcosa di artificioso e di forzato. L’uomo non potrà mai identificarsi pienamente con l’istanza morale, che rappresenta in lui interessi insanabilmente contrastanti con i suoi. Questa posizione dualistica risponde a un dato innegabile di esperienza: la norma morale sembra davvero smentire e reprimere, presentandosi sotto l’aspetto di un dovere ostico e difficile, le tendenze più originarie e spontanee dell’uomo.

Anche la teologia tradizionale ha dato spesso grande risalto a questo innegabile dato di esperienza così che, almeno a livello di parenesi e di catechesi popolare, l’impegno morale è stato spesso presentato soprattutto come una lotta dello spirito contro la carne, come una difficile resistenza contro le suggestioni del male e la forza della tentazione. Spesso la norma morale, presentata come legge di Dio, veniva semplicisticamente assimilata a una qualche forma positiva di legislazione arbitraria: il dualismo etico sfociava allora nel positivismo teonomico che fa di Dio un legislatore autocrate e arbitrario.

Ma il dualismo etico è chiaramente unilaterale. Esso assolutizza un aspetto parziale dell’esperienza morale.

 

3.2. Il naturalismo morale

Non si può infatti negare che mentre l’uomo sperimenta la penosità dell’impegno morale, si rende anche conto, almeno in modo oscuro e intuitivo, che il bene morale è il suo vero bene, ciò che fa la sua nobiltà e dignità di persona e realizza i suoi interessi più autentici.

Molti degli studiosi di educazione morale che, dopo Freud, hanno ripreso lo studio dello sviluppo morale, non hanno fatto altro che riscoprire 1’esistenza di questa tendenza al bene, almeno altrettanto profonda della propensione al male, di questa specie di costitutiva vocazione dell’uomo alla virtù.

Si tratta quindi di un radicale superamento del dualismo di Durkheim e di Freud, cui potremmo dare il nome di «naturalismo» per la fiducia, spesso unilaterale fino all’ingenuità, che questi autori concedono alle «buone forze della natura».

In una concezione naturalistica dell’esperienza morale non hanno più senso le contrapposizioni abituali tra obbligazione e inclinazione, tra dovere e piacere, tra egoismo e altruismo: è il rovesciamento di un certo linguaggio della parenesi tradizionale; il bene morale è nella linea del desiderio umano, non ha perciò bisogno di imporsi attraverso il rinnegamento delle tendenze naturali; per compiere il bene non devo fare violenza alle mie tendenze, ma solo mettere in luce quelle che sono più vere e più profonde, più autenticamente mie.

Sul piano educativo, viene naturalmente svalutato ogni appello sconsiderato al volontarismo e ogni forma di educazione impostata su obiettivi di inibizione, di disciplina, e di repressione degli istinti e delle tendenze naturali, e vengono messi in primo piano obiettivi di spontaneità, naturalezza, autoaccettazione.

A una pedagogia della repressione subentra una pedagogia della permissività, della gratificazione e della non-direttività.

Il naturalismo morale degli studiosi di pedagogia morale ricupera, se pur con qualche unilateralità di troppo, l’impostazione morale della migliore riflessione teologica: tale riflessione ha sempre sostenuto che la natura umana (e quindi anche le tendenze naturali in cui essa si esprime) non sono state totalmente corrotte dal peccato.

Essa non ha temuto di presentare il bene morale come ciò che risponde al naturale bisogno umano di autorealizzazione, di vita e di felicità e quindi al desiderio di Dio, pienezza dell’autorealizzazione umana e compimento di tutte le sue aspirazioni.

Il dettato della coscienza, secondo questa concezione, non farebbe che tradurre in termini di imperativo etico l’imperativo delle tendenze e dei desideri più profondi dell’uomo. Nell’imperativo della coscienza si rivela la struttura costitutiva della stessa libertà umana, creata da Dio per il bene ed eternamente inquieta fin che non possiede Dio stesso, bene supremo e pienamente appagante.

 

3.3. Educabilità delle tendenze naturali

Ma è proprio qui che la ricerca empirica sullo sviluppo morale ci richiama al senso della misura e del realismo. Una simile concezione della coscienza morale ha tutta l’aria di una idealizzazione.

La realtà non è così semplice. 1 fatti non si lasciano ricondurre dentro gli schemi preconcetti di un sapere ideologico. Anche gli psicologi più ottimisti nei confronti della natura umana pensano che una simile immediata equivalenza tra inclinazione e obbligazione, tra desiderio e valore morale si realizzi solo nella coscienza dell’adulto riuscito.

Solo al termine di un lungo itinerario educativo e autoeducativo, portato felicemente a termine senza fissazioni a livelli di immaturità, l’imperativo della coscienza finirà per coincidere davvero direttamente con le strutture profonde della libertà umana e per esprimerne le aspirazioni costitutive. Normalmente la strada da percorrere per arrivare a questo livello di maturità è lunga e difficile e non si percorre che con l’aiuto e la guida di un adeguato ambiente educativo. Occorre attraversare una serie di stadi intermedi di maturità morale, paralleli per tanti versi agli stadi dello sviluppo della cognitività e della personalità in genere.

Il primo di questi stadi è rappresentato da una situazione psichica molto simile a quella della morale del super-io freudiano. La forza dell’imperativo della coscienza, a questo livello iniziale dello sviluppo morale dipende veramente in gran parte dal peso dei veti e dei comandi dei genitori e degli educatori, che si impongono con la minaccia dei castighi e il ricatto affettivo implicito in molti dei loro interventi educativi. È il massimo dell’eteronomia e della divisione interiore, ma è una tappa inevitabile per il passaggio agli stadi ulteriori: è, in fondo, la «pedagogia della legge» di cui parla S. Paolo nelia lettera ai Galati. La disciplina esteriore, se risulta educativamente inutile o addirittura controproducente da una certa età in poi, ha una funzione insostituibile in questa prima fase dello sviluppo morale.

Altre tappe intermedie seguiranno a questa prima. Particolarmente decisiva sarà quella dell’adolescenza, in cui il soggetto elaborerà gradualmente una sua identità morale e un suo progetto di vita, passando attraverso una serie di identificazioni provvisorie con modelli esterni di adulti convincenti. Gli studiosi dello sviluppo morale ritengono che nessuna di queste tappe possa essere realmente scavalcata.

Resta comunque vero che l’esperienza morale è qualcosa di autoctono nella vita psichica dell’uomo, cioè di fondato su energie e istanze interne alla persona, anche se bisognose di essere fatte emergere attraverso l’educazione.

Come dice Kohlberg, «il bene si può insegnare, anche se insegnarlo è molto più un farlo emergere​​ (calling out),​​ che non una qualche forma di “indottrinamento”».

La visione di fede condivide questa fondamentale fiducia nell’uomo, temperata dalla realistica consapevolezza della necessità di una educazione, che faccia appello alle interiori energie di bene dell’educando.

La credenza in una creazione divina porta con sé la convinzione della fondamentale sanità della natura umana. Certo, la libertà umana è fallibile e segnata dalla solidarietà con una storia di peccato. Ma la legge del peccato non ha cancellato del tutto l’originaria tendenza dell’uomo al bene, e la redenzione operata da Cristo ha restituito a questa tendenza possibilità reali di sviluppo e di compimento.

San Tommaso dice che la virtù si trova nell’uomo «per natura», alla maniera di un germe, con una sua interna capacità di sviluppo vitale.

Tutto questo non deve occultare la realtà dei condizionamenti e delle lentezze della libertà umana. Ci sono per ogni uomo possibilità concrete di apertura fondamentale al bene, ma anche concrete impossibilità di comprensione e di attuazione di determinati valori categoriali in cui questa apertura dovrebbe concretizzarsi; su queste impossibilità non è il caso di farsi delle illusioni. Per quanto riguarda i singoli comportamenti particolari nei diversi settori della vita morale, la capacità di perfezione morale dell’uomo è limitata, spesso in modo tragicamente grave. Ma proprio perché essi sono di fatto insuperabili e nello stesso tempo non intaccano la possibilità reale di una incondizionata apertura fondamentale per il bene, resta più che mai vero che è solo sulle reali capacità di bene dell’educando, per limitate e condizionate che siano, che la pastorale giovanile può e deve puntare.

 

3.4. Educazione del desiderio

Questo significa che l’educazione morale cristiana è chiamata ad essere educazione del desiderio. Pur essendo costitutivamente aperta al bene, il desiderio nella sua spontaneità primaria non è né saggio né immediatamente trasparente ai bisogni più profondi della persona.

Esso ha bisogno di essere educato e purificato, attraverso una pedagogia che, facendo appello alle sue energie più profonde ne metta in luce la costitutiva tendenza al bene. Solo mettendo a disposizione dell’impresa morale le immense forze del desiderio umano è possibile raggiungere quella facilità e connaturalità al bene che è il segno della vera maturità morale.

 

4. La maturità morale

Un ulteriore problema di educazione morale, bisognoso del confronto tra riflessione di fede e scienze dell’educazione è quello degli obiettivi di questa educazione.

Per le scienze dell’educazione, come per la riflessione di fede, tale obiettivo coincide con quello che in termini ancora generici potremmo chiamare la «maturità morale».

Ma se si vuole chiarire meglio questo concetto, si scopre subito che scienze dell’educazione e riflessione di fede lo definiscono con prospettive diverse, non facilmente raccordabili. La riflessione di fede procede con un’ottica prevalentemente contenutistica: essa descrive la maturità morale o il concetto (che potremmo ritenere equivalente) di perfezione morale, in termini di reale adesione al bene morale, attraverso una scelta o opzione di fondo moralmente e teologalmente buona, e una serie di scelte o atteggiamenti particolari coerenti con questa opzione di fondo e fedeli alle esigenze oggettive dell’ordine morale. La maturità morale è in questo caso la perfezione morale; una perfezione che si misura in base alla crescita delle virtù, strutturate in un insieme organico, che trova il suo vertice e la sua sorgente nella carità.

Il privilegiamento di quest’ottica si capisce: la fede ricerca la verità ultima dell’uomo, in base al suo rapporto con Dio: fuori del sì fondamentale della libertà umana all’amore di Dio che si è rivelato in Cristo, non è possibile nessuna sostanziale autenticità umana. Per le scienze dell’educazione, la prospettiva è diversa: più di natura psicologica che contenutistica o sostanziale. Non ci si occupa tanto del​​ che cosa, quanto del​​ come​​ della virtù. La maturità morale pare essere soprattutto una qualità soggettiva della coscienza, più che un orientamento oggettivo della libertà; in Kohlberg, sembra ridursi addirittura alla capacità di compiere ragionamenti morali di livello intellettualmente elevato, ineccepibili nella forma a prescindere dal contenuto. Come Kohlberg, molti studiosi di problemi di educazione morale pensano che a costituire la maturità morale non è un tipo piuttosto che un altro di comportamento, ma le motivazioni, gli atteggiamenti psicologici, il tipo di coscienza che sta alle spalle di questo comportamento.

 

5. Le polarità dello sviluppo morale

Se andiamo a vedere quali sono di fatto le qualità della coscienza che costituirebbero la maturità morale in senso psicologico, scopriamo che esse sono generalmente costituite dall’autonomia, dalla razionalità, dall’altruismo e dall’integrazione o unità interiore della personalità.

Si noti che l’autonomia​​ morale non fa per sé riferimento a valori oggettivi: essa è soltanto la soggettiva assenza di dipendenza forzata (conscia o inconscia non importa) da istanze estranee alla persona, agenti su di essa con forme di violenza psicologica (come ad esempio l’interiorizzazione e l’identificazione inconscia nel caso del super-io), indipendentemente dal fatto che queste istanze la determinino a valori o a disvalori oggettivi. Un’esperienza morale eteronoma (fatta di sottomissione non pienamente libera a istanze morali estrinseche) è sempre considerata un’esperienza immatura o premorale.

Così la​​ razionalità​​ non consiste nell’effettivo possesso della verità morale oggettiva, ma in una ragionevole flessibilità della coscienza nell’adattare le azioni-mezzo al fine che ci si propone: in questa concezione, le norme hanno un valore puramente indicativo: quello che conta è la flessibilità e funzionalità del comportamento che, svincolandosi, se necessario, da ogni norma, persegue il bene in maniera efficiente, con le modalità imposte dalla situazione.

Così l’altruismo​​ non è tanto una determinata forma di prestazione nei confronti del prossimo, quanto l’attitudine a tenere conto in modo imparziale dei suoi bisogni e dei suoi punti di vista secondo il «principio di reciprocità», tipico della c.d. «regola d’oro»: fare agli altri quello che si vorrebbe fatto a sé. L’integrazione non consiste nella coerenza tra scelte soggettive e valori oggettivi, ma nella coerenza puramente interna tra le diverse istanze della persona, e quindi nell’assenza di divisioni interiori o di conflitti psicologici irrisolti.

Maturità psicologica dell’esperienza morale, oggetto dell’educazione morale, e maturità sostanziale (o perfezione) morale, oggetto della preoccupazione pastorale sembrano dunque non coincidere e ognuna delle due prospettive è portata a fare la sua scelta in maniera esclusiva e unilaterale.

Riteniamo che si renda perciò necessario un approccio transdisciplinare, che permetta di cogliere meglio la continuità che unisce le due prospettive, mettendo in luce i legami che raccordano il​​ come​​ al​​ che cosa,​​ il contenutistico al formale, la perfezione della virtù alla maturità della coscienza.

Perché legami di questo genere esistono. Prendiamo ad esempio l’autonomia morale. Anche come la intendono gli studiosi dello sviluppo morale, non può essere considerata come qualcosa di accessorio o di estraneo alla perfezione morale. Virtù vera non è fare materialmente il bene, ma volerlo liberamente. Volere liberamente è volere per amore e per connaturalità; è buono veramente solo chi ama il bene e lo fa per coerenza con sé stesso e con il proprio libero progetto di vita.

La risposta dell’uomo all’amore di Dio non può essere che una risposta di amore e quindi di libertà. Secondo San Paolo, la sottomissione alienante (perché forzata) a una legge estrinseca (fosse pure quella di Dio) è l’equivalente del rifiuto di affidarsi a Dio nella fede, mentre un impegno morale vissuto nella libertà che nasce da un amore filiale si identifica con la fede che salva.

Compito della pastorale giovanile è far crescere i giovani nella maturità della fede e quindi nella libertà interiore, aiutandoli a superare l’eteronomia tipica del bambino che, proprio in forza della sua immaturità, sta ancora sotto la pedagogia della legge.

L’autonomia è una condizione dell’autenticità della virtù.

Per quello che riguarda la dimensione della «razionalità», le suggestioni degli studiosi di educazione morale si incontrano con la riscoperta, largamente in atto da parte della pedagogia cristiana, del ruolo della virtù della prudenza nell’ambito dell’organismo delle virtù, e col ridimensionamento, sia pure bisognoso di ulteriori precisazioni e calibrature, che la teologia morale sta portando avanti nei confronti dell’assolutezza delle norme morali, anzi del ruolo stesso della norma, nell’ambito della morale; la concezione kohlberghiana della​​ principled morality, cioè di una morale fondata, più che su norme, su principi per la elaborazione delle norme, è oggi largamente condivisa in campo teologico-morale ed è indubbiamente l’unica valida in numerosi settori della vita morale.

La virtù è la verità dell’uomo; i valori sono tali nella misura in cui attuano questa verità; le norme vigono solo come rappresentazione e difesa dei valori; la loro urgenza si misura solo sulla loro capacità di realizzare questa verità dell’uomo; esse vanno interpretate con quella flessibile ragionevolezza che non ne faccia dei fini.

Ma è vero anche il contrario: le qualità psicologiche di una coscienza morale matura non sono solo una condizione perché la virtù sia veramente e pienamente tale, esse sfociano quasi inevitabilmente in una virtù, vera anche dal punto di vista contenutistico; esse preorientano la volontà al bene, glielo rendono concretamente accessibile e desiderabile: autonomia, razionalità, altruismo, integrazione della personalità sono il terreno psicologico da cui germina la sostanza della virtù.

 

6. Dinamismi educativi

Non è possibile chiudere queste righe sull’educazione morale senza un accenno al tema, più propriamente pedagogico, dei dinamismi e delle strategie educative concrete, operanti nel campo della formazione morale. Trascureremo qui quei dinamismi la cui efficacia educativa è massima durante l’infanzia (come la disciplina educativa) o l’adolescenza (come l’identificazione), per concentrarci su quelli che risultano decisivi in ogni momento dell’età evolutiva (come l’amore accogliente e l’insegnamento morale) o in modo particolare proprio nell’età giovanile, come la responsabilizzazione.

 

6.1. L’amore accogliente

Il primo di questi dinamismi, sia in ordine cronologico che in rapporto alla sua decisività, è indubbiamente l’amore.

La sollecitudine amorosa dei genitori, la loro accoglienza incondizionata nei confronti del bambino ha una sua efficacia educativa già fin dai primi momenti di vita, ed è all’origine di quella «fiducia di base» che è fondamento e sostegno di tutto il successivo impegno morale.

Di qui il ruolo insostituibile della famiglia e il primato educativo dei genitori, legati ai figli da una forma di affetto, unico per la sua spontaneità, intensità e capacità di resistenza a tutte le delusioni.

Ma l’amore è capace di rendere positiva la relazione educativa in qualunque età della vita, quando sia contrassegnato dalla qualità dell’accoglienza.

L’amore accogliente è quello che resiste alla tentazione di imporre all’educando i suoi progetti educativi, di amare in lui un astratto ideale di umanità o la proiezione delle sue frustrazioni, rifiutando più o meno inconsciamente la concreta ma «diversa» ricchezza di vita dell’educando.

Alla luce dell’esperienza dell’efficacia educativa di questo amore incondizionato, il credente vede nell’amore preveniente e creativo di Dio, il modello di ogni paternità. In questa linea si potrebbe concepire l’azione della grazia, come l’efficacia di un amore che trasforma restituendo fiducia, e fondando quell’ottimismo attivo e quell’amore alla vita che sono il sostegno indispensabile dell’impegno morale.

 

6.2. L’insegnamento morale

L’insegnamento morale è la testimonianza che l’educatore rende con la sua parola e l’umile fiducia nella capacità della ragione umana ai valori morali in cui crede.

Le scienze dell’educazione, con il loro sistematico sospetto nei confronti dell’efficacia di meccanismi educativi, quali l’indottrinamento e l’autoritarismo, richiamano la morale a una considerazione meno miracolistica del ruolo della conoscenza concettuale nella formazione della coscienza. La conoscenza morale, in quanto conoscenza dei valori, comporta un insopprimibile legame con l’esperienza dei valori stessi; è una conoscenza particolare di tipo valutativo-vitale. Un semplice incremento di «sapere puro» non produce necessariamente una vera maturazione di coscienza: «Soltanto quando attraverso nuove ed autentiche conoscenze si scuote la coscienza del singolo individuo o della società, in modo tale che essa colga creativamente il nuovo valore e ne rimanga trasformata, soltanto allora questa coscienza morale trasformata, giunge alla vera norma e se ne sente vincolata» (A. Roper,​​ Morale oggettiva e soggettiva,​​ 107-108). Questo comporta naturalmente una ricomprensione in termini non più esclusivamente cognitivo-concettuali della nozione di «cattiva coscienza»: non è sufficiente sapere in astratto che cosa è bene o che cosa è male (magari nei termini di proibito-comandato), per essere davvero vincolati in coscienza nei confronti di questo sapere: vincola veramente solo quel sapere che, penetrando a fondo il vissuto della persona, permette di percepire il bene in maniera esperienziale, come valore per la persona.

Questo ripropone ancora una volta il problema del carattere necessariamente progressivo e graduale della formazione della coscienza e di tutta l’esperienza morale: il passaggio dal sapere concettuale, più facile da trasmettere, al sapere valutativo, raggiungibile solo attraverso un certo coinvolgimento esperienziale dell’educando, può essere solo il risultato di un processo di maturazione graduale, con ritmi molto diversi nelle singole persone. Ma come non si deve confondere con l’autoritarismo ogni forma di disciplina educativa, così non si deve escludere dall’educazione morale, confondendolo con l’indottrinamento e la manipolazione delle coscienze, ogni forma di insegnamento morale.

L’educatore che rinunciasse a testimoniare umilmente ma coraggiosamente la sua fede nei valori che ispirano la sua vita, perderebbe un’occasione preziosa di influsso positivo sullo sviluppo morale dell’educando. Non si può certo pretendere che ogni nuova generazione ripercorra da sola il lunghissimo e incerto cammino percorso dall’umanità nel corso dello sviluppo millenario delle sue conoscenze morali.

 

6.3. La responsabilizzazione

11 dinamismo educativo più tipico dell’età giovanile è costituito però dalla responsabilizzazione.

Responsabilizzare è creare le condizioni per cui, attraverso la sua stessa esperienza, il giovane possa diventare consapevole dell’efficacia positiva o negativa che le sue decisioni e le sue azioni hanno sugli altri e sulla società. L’educazione è chiamata in questo modo a rendere trasparente la realtà della solidarietà reale che lega ogni uomo a ogni altro uomo, affidando a ognuno la possibilità di influire in maniera decisiva sul destino di altre persone, che gli sono così in qualche modo affidate.

Il senso di responsabilità è una qualità etica tipica dell’adulto riuscito. Per questo la responsabilizzazione opera con il massimo dell’efficacia alle soglie dell’età adulta, quando agli educatori singoli subentra l’educatore collettivo «società», che affida al giovane un compito significativo e un ruolo sociale riconosciuto, e lo apre così al campo delle reponsabilità sociali e familiari.

Naturalmente una società che tende a relegare i giovani in «aree di parcheggio» rinuncia a questi suoi compiti educativi e finisce per diventare una società della non-responsabilità. In questi casi, agenzie educative meno globali possono, ma solo parzialmente, rimpiazzare l’educatore società, stimolando, attraverso esperienze di volontariato caritativo, di servizio educativo e di impegno sociale a livello pre-politico, la formazione di quel senso di responsabilità che la società non riesce a suscitare.

Si tratta di compiti sui quali la pastorale giovanile si misura già da molto tempo e con risultati largamente positivi. In una società deresponsabilizzante, quale è quella in cui noi viviamo, questo impegno ecclesiale, che saremmo tentati di chiamare «di supplenza»,

non ha più solo una funzione educativa individuale; esso diventa un contributo prezioso e insostituibile per la creazione di una nuova società dal volto umano, in cui ogni uomo si senta fratello di ogni altro uomo e responsabile della felicità e della autorealizzazione di ogni suo fratello in umanità.

 

Bibliografia

Arto A.,​​ Crescita e maturazione morale,​​ LAS, Roma 1984; Bissionnier H.,​​ Psicologia e morale nella nuova catechesi,​​ LDC, Leumann 1969; Bull N.,​​ Moral Education,​​ Routledege & Kegan, Londra 1969; Galli N.,​​ Educazione morale e crescita dell’uomo,​​ La Scuola, Brescia 1979; Gatti G.,​​ Educazione morale, etica cristiana,​​ LDC, Leumann 1985; Holper-Vandenplas C.,​​ Sviluppo sociale e morale,​​ Armando, Roma 1983; Kiely B. M.,​​ Psicologia e teologia morale,​​ Marietti, Torino 1982; Kohlberg L.,​​ Essays on Moral Development​​ (2 voll.), Harper and Row, S. Francisco 1981; Paolicchi P.,​​ Homo ethicus, Introduzione alla psicologia della morale,​​ ETS, Pisa 1987.

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EDUCAZIONE MORALE

1.​​ L’EM è quel settore dell’attività educativa che ha come obiettivo la formazione della maturità morale dell’educando. Ma l’espressione serve anche per indicare lo studio delle diverse fasi e dinamismi dello → sviluppo morale e il sapere pratico che guida la progettazione e l’azione pedagogica tesa a favorire la maturazione morale della persona. Come tale l’EM ha naturalmente un suo posto e un suo statuto specifico all’interno delle scienze dell’educazione.

Nella misura poi in cui l’EM è per il credente una dimensione essenziale dell’educazione della fede, essa viene a interessare in qualche modo anche la C., che di questa educazione è momento indispensabile. Il cristianesimo infatti, anche se non è primariamente una morale, ha un suo specifico messaggio etico. L’evangelizzazione e la C., in quanto comunicazione del messaggio di fede, e in quanto educazione di tutto il dinamismo psicologico della fede, hanno quindi, tra i loro contenuti, anche quella forma di sapere, che va sotto il nome di morale cristiana e, tra i loro obiettivi, l’educazione degli atteggiamenti morali, specifici della vita di fede.

2.​​ Il discorso sull’EM, in quanto settore specifico dell’educazione della fede, deve naturalmente affrontare il problema previo della identificazione di ciò che, nell’esperienza morale, è specificamente cristiano, e quindi contenuto o obiettivo specifico della evangelizzazione e della C. Bisogna dire che negli ultimi due decenni si sono venute formando in teologia morale, a questo proposito, due opinioni contrastanti.

Per alcuni (A. Auer, J. Fuchs, S. Bastianel), tale specifico si situerebbe, unicamente o quasi, al livello del trascendentale della morale, cioè al livello della generale intenzionalità di fede-carità che fa da motivazione e da orizzonte di significato all’agire morale del credente. I contenuti normativi e la determinazione dell’atteggiamento virtuoso apparterrebbero invece al campo del genericamente umano. A questo livello contenutistico-normativo la morale sarebbe così autonoma dalla fede.

Per altri invece (B.​​ Stõckle,​​ H. U. von Balthasar), si darebbe uno specifico cristiano anche a livello dei contenuti normativi, e quindi dei criteri di valutazione etica; la morale non godrebbe neppure a questo livello di alcuna autonomia dalla rivelazione e dalla fede.

La C. ha praticamente sempre seguito, senza porsi molti problemi, questa seconda impostazione. Essa ha infatti presentato la morale nella sua globalità, come un tutto rivelato, come una risposta di fede all’invito di Dio, e come obbedienza al suo comando.

3.​​ L’EM in questa impostazione non ha alcuna autonomia rispetto all’educazione della fede che la fonda e la ingloba. Ci sembra di poter dire che questa scelta, che non pregiudica necessariamente la soluzione teologica del problema dello specifico cristiano della morale, sia la più consona e la più connaturale con quello che sono la C. e l’educazione della fede. L’educazione della fede è infatti quell’azione educativa che tende a favorire nell’educando una scelta di fondo di sua natura totalizzante, atta ad integrare in sé tutta quanta l’esperienza morale della persona, dandole una fisionomia specificamente teologale.

A livello di vita concreta, la distinzione, teologicamente corretta e anche importante, tra categoriale e trascendentale, tra contenuti normativi e orizzonte di significato, non ha ragione di porsi. Nella concreta esperienza del credente, la fede non è soltanto una intenzionalità di fondo o un orizzonte di significato, è un principio dinamico unificatore, che riassume in sé tutta l’esperienza del soggetto.

4.​​ Detto questo, si deve aggiungere che la C. non è però l’unico luogo o l’unico momento dell’educazione della fede, e quindi neppure l’unico momento dell’EM cristiana; va quindi precisato meglio il contributo specifico che essa in quanto tale è in grado di offrire alla più generale EM cristiana. Questa funzione di EM è svolta dalla C. secondo le specifiche modalità del suo apporto alla generale educazione della fede, apporto che è, secondo la CT, principalmente legato alla dimensione cognitiva della fede: “Lo scopo della C., nel quadro generale dell’evangelizzazione, è di essere la fase dell’insegnamento e della maturazione” (CT 20). Si pone quindi per la C. il problema di determinare i contenuti dell’annuncio morale cristiano (annuncio che è il suo contributo specifico all’EM); e questo postula un contatto sistematico e vitale tra la C. e quella torma di sapere etico riflesso che è la teologia morale.

5.​​ Ma la C. non si limita ad essere insegnamento, trasmissione di sapere; attraverso la comunicazione di una dottrina, essa tende a formare delle specifiche abilità morali: la capacità di riconoscere, giudicare rettamente, progettare creativamente il bene morale, capacità che costituiscono una coscienza morale cristiana sviluppata e matura: “Le convinzioni ferme e ponderate spingono all’azione coraggiosa e retta” (CT 22).

La C. include quindi tra i suoi obiettivi “lo sforzo per educare i fedeli a vivere oggi come discepoli del Cristo” (ibid.),​​ e nello svolgimento del suo compito educativo non potrà limitarsi a una presentazione dei contenuti e delle motivazioni di fondo della morale cristiana; dovrà proporsi mete educative che vadano al di là del puro sapere, e riguardino atteggiamenti e strutture psicologiche della personalità morale, utilizzando per questo dinamismi e forme di interazione pedagogica che vadano al di là della pura trasmissione di un messaggio. Essa dovrà attingere queste mete e imparare questi dinamismi da quella specifica forma di sapere pedagogico che è appunto l’EM.

6.​​ Quanto alle mete educative, la C. dovrà porre tra i suoi obiettivi educativi non soltanto i comportamenti virtuosi in generale, ma anche certe modalità qualitative dell’agire morale, cui la morale tradizionale non ha sempre dato la dovuta attenzione: tra di esse vanno poste l’autonomia morale (intesa naturalmente non come indipendenza dai valori, ma come superamento del servilismo legale) e la razionalità (intesa come flessibile ragionevolezza e capacità creativa nei confronti della norma).

7.​​ Tra i dinamismi educativi vanno segnalati (in un ordine cronologico di privilegiata efficacia) l’amore accogliente e incondizionato che ispira la fiducia di base, la testimonianza leale della verità etica, una disciplina ragionevole ispirata all’amore, l’identificazione con modelli credibili di fede vissuta e di umanità riuscita, e infine la graduale responsabilizzazione all’interno della comunità ecclesiale e della società umana. Si tratta di obiettivi e di dinamismi di cui è facile scoprire la profonda consonanza con i dati della fede; così come sono profondamente sintonizzati con i dati della fede, perché ispirati alla stessa pedagogia attuata da Dio nella storia della rivelazione e della salvezza, l’utilizzazione del principio di gradualità e l’appello alle interiori energie di bene dell’educando, che l’educatore della fede riscopre proprio nell’approccio ai problemi dell’EM, ma che hanno validità in tutta quanta l’educazione della fede.

Bibliografia

E.​​ Alberich​​ (ed.).​​ Educazione morale oggi,​​ Roma, LAS, 1983;​​ L'educazione morale,​​ Brescia, La Scuola, 1977; N. Galli,​​ Educazione morale e crescita dell’uomo,​​ ivi, 1979; C. Guenzier – G. M.​​ Teutsch,​​ Erziehen zur ethischen Verantwortung,​​ Freiburg, Herder, 1979; T. Hoffmann,​​ Moralpädagogik,​​ Patmos,​​ Düsseldorf, 1978;​​ Moral Education and Christian Conscience,​​ Washington, USCC, 1977;​​ Moral Education,​​ Cambridge, Mass., Harvard Univ. Press, 1970;​​ Moralerziehung im Religionsunterricht,​​ Freiburg, Herder, 1975; H. Schmidt,​​ Ethik-. Didaktik des Ethikunterrichts,​​ vol.​​ I, Stuttgart, Kohlhammer, 1983; G. Stachel – D. Mieth,​​ Ethisch handeln lernen,​​ Zürich, Benziger, 1978;​​ Toward Moral and​​ Religious​​ Maturity,​​ Morristown, N. J., Burdett, 1980; R. Zavalloni – R.​​ Gioberti,​​ La personalità​​ in​​ prospettiva​​ morale,​​ Brescia,​​ La Scuola,​​ 1982.

Guido Gatti

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EDUCAZIONE MORALE

Ogni vera intenzione educativa ha come obiettivo ultimo, almeno implicito, la promozione dell’uomo in quanto​​ ​​ uomo, cioè la sua crescita; il fatto educativo e quello morale sono quindi inscindibilmente connessi (​​ educazione). Ogni influsso educativo ha una sua valenza etica: esercita una certa influenza, fosse pure impercettibile, sulla​​ ​​ personalità morale dell’educando. Ogni forma di e., anche solo settoriale, produce sempre​​ ​​ formazione (o magari deformazione) morale.

1. Le​​ ​​ scienze dell’e. hanno dedicato in questi ultimi decenni un’attenzione sempre più rilevante, a questa dimensione etica del fatto educativo così che il termine e.m. non indica più soltanto una realtà di fatto da sempre presente al centro dell’attenzione degli educatori veri, ma anche un campo di ricerca e di sapere in via di rapida espansione ed approfondimento, che si articola sia su un piano teoretico, come studio prevalentemente psicologico dello​​ ​​ sviluppo morale, sia su un piano normativo, come guida metodologica alla prassi pedagogica. Il discorso sullo sviluppo morale che precede e condiziona il discorso più propriamente pedagogico sconfina facilmente nel campo specifico della filosofia morale: esso rimanda sempre a una qualche​​ ​​ antropologia e non può evitare di prendere posizione sul senso e sulla natura profonda dell’impegno etico.

2. Riserve particolari può suscitare a questo proposito il carattere decisamente unilaterale della concezione della personalità e del vissuto morale soggiacente ad alcune di queste teorie: esse riconducono molto spesso tutto il complesso dinamismo dell’esperienza morale a una sola istanza psichica, sia essa la pulsionalità (come​​ ​​ Freud), il condizionamento riflesso (come il behaviorismo) o le strutture cognitive (come​​ ​​ Kohlberg). Alcune di queste unilateralità comportano tra l’altro una qualche forma di determinismo etico: il determinismo delle pulsioni, quello della ragione oppure quello del puro e semplice condizionamento sociale. Non pochi studiosi, più attenti alla complessità del vissuto psicologico umano, stanno elaborando visioni dello sviluppo morale che superano queste unilateralità e i corrispettivi determinismi, attraverso forme diverse di sincretismo (ma sarebbe meglio dire di «olismo psichico») che ricuperano gli aspetti positivi delle diverse teorie, e li integrano in una visione più completa del vissuto etico.

3. Nel loro insieme, queste teorie possono comunque fornire un utile punto di riferimento per una migliore comprensione dei rapporti tra il fatto educativo e quello morale, mettendo in risalto il carattere essenzialmente autoeducativo dell’impegno morale. La loro decisa focalizzazione del discorso etico sul soggetto del fatto morale costituisce uno stimolo a superare la «morale della terza persona» dominante nell’era moderna, esclusivamente tesa alla determinazione inequivoca di ciò che è moralmente «corretto» (e perciò alla fondazione e alla elaborazione delle norme), in favore di una «morale della prima persona», orientata alla crescita progressiva del soggetto morale. Nella prospettiva della «prima persona», l’atto morale non è più valutato soltanto in base alla sua efficienza nel produrre risultati, ma anche e più in quanto atto di un soggetto concreto, che ne rimane più o meno profondamente segnato, diventando, attraverso di esso, più o meno maturo, più o meno realizzato in quanto​​ ​​ persona.

4. Una conseguenza rilevante di questa nuova prospettiva sarà il ruolo che viene ad assumere nell’e. il «principio di gradualità». Le diverse teorie dello sviluppo sono abbastanza concordi nell’indicare gli assi principali dello sviluppo morale in alcune polarità, fondamentalmente riconducibili alle seguenti: «eteronomia-autonomia», «prerazionalità-razionalità» ed «egocentrismo-autotrascendimento». Naturalmente una simile scelta orienta, sul piano della​​ ​​ metodologia pedagogica, alla svalutazione di alcune forme tradizionali di e., troppo esclusivamente fondate sull’indottrinamento e sulla repressione. I dinamismi educativi privilegiati saranno invece riassumibili nell’amore accogliente (e quindi non condizionante e non possessivo), nella testimonianza della vita (accompagnata peraltro da una qualche forma di insegnamento morale che, senza scadere a indottrinamento abbia il coraggio umile di chiamare per nome i valori in cui crede), in un ambiente educativo fatto di ordine, affidabilità e serenità (che garantisca all’educando sicurezza interiore e dominio di sé), nella presenza di modelli credibili di identificazione e nell’iniziazione al senso di responsabilità attraverso l’impegno in compiti di percepibile utilità sociale e come tali socialmente riconosciuti.

Bibliografia

Erikson E. H.,​​ Introspezione e responsabilità,​​ Roma, Armando, 1968; Bull N.,​​ Moral education,​​ London, Routledge & Kegan, 1969; Galli N.,​​ E.m. e crescita dell’uomo,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Kohlberg L.,​​ Essays on moral development,​​ 3 voll., S. Francisco, Harper & Row, 1981; Arto A.,​​ Crescita e maturazione morale,​​ Roma, LAS, 1984; Gatti G.,​​ E.m.,​​ etica cristiana,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994; Lapseley D. - P. Power (Edd.),​​ Character psychology and character education, Notre Dame, Ind., University of Notre Dame Press, 2005.

G. Gatti

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