S. CARLO BORROMEO
(1538-1584)
Agostino Favale
1. La vita
2. L’opera riformatrice
3. La strategia pastorale
3.1.7 collaboratori
3.2. Istituzione dei seminari e formazione del clero
3.3. I religiosi
3.4. I laici
3.5. Le confraternite
3.6. Istituzioni culturali e sociali
3.7. Visite pastorali
3.8. Iniziative di soccorso agli appestati
3.9. Rapporto con le autorità civili
4. Influsso delia sua prassi pastorale
Sebbene gli studi sull’insieme della figura e dell’opera di Carlo Borromeo necessitino tuttora di ulteriori ricerche e approfondimenti, è nondimeno acquisizione diffusa tra gli storici cattolici che egli debba essere considerato un pioniere della pastorale moderna per il metodo e la tenacia con cui attuò la riforma tridentina, che aveva come supremo criterio ispiratore la salvezza delle anime.
1. La vita
Carlo nacque ad Arona il 2 ottobre 1538 da Giberto e Margherita de’ Medici, e siccome era il minore dei figli maschi, fu destinato alla carriera ecclesiastica. Dopo aver compiuto gli studi primari ad Arona e quelli secondari a Milano, egli frequentò gli studi giuridici all’università di Pavia, dove ottenne il dottorato in utroque iure nel 1559. Lo zio materno, Giancarlo de’ Medici, eletto papa col nome di Pio IV, lo chiamò a Roma e nel 1560 lo nominò protonotario apostolico, referendario della Segnatura, cardinale e amministratore dell’arcivescovado di Milano, mentre il fratello maggiore Federico ebbe l’incarico di capitano generale delle armate pontificie. La nuova posizione imponeva a Carlo doveri cui non era stato preparato. Egli si sforzò di acquistare la necessaria dimestichezza negli affari di curia. D’altra parte, Pio IV, abile curiale e buon conoscitore del diritto, più che di consiglieri aveva bisogno di collaboratori, che fossero docili esecutori dei suoi ordini. E tale fu il «Cardinal nepote» anche a riguardo della riconvocazione e felice conclusione del Concilio di Trento.
Agli inizi della sua permanenza a Roma, Carlo si adeguò, mosso dall’esempio di tanti altri, ad un alto tenore di vita. Dato il suo rango, gli pareva cosa naturale possedere le più belle cavalcature e gli arredi più sontuosi, come pure partecipare a ricchi banchetti, ad allegre partite di caccia e a divertenti giochi a scacchi. La sua evoluzione spirituale cominciò verso la fine del 1562. L’improvvisa morte del fratello Federico, avvenuta il 19 novembre 1562, scosse profondamente il suo animo sensibile. Preso contatto con i circoli riformatori romani e influenzato da un prete bresciano di ambiente teatino, Alessandro Pellegrini, egli si sottopose a dure penitenze, intensificò le ore di preghiera, licenziò quasi metà della sua numerosa servitù, trasformò l’Accademia delle Notti Vaticane in adunanze di cultura religiosa e decise di farsi prete, rinunciando al maggiorascato che gli spettava di diritto dopo la prematura scomparsa del fratello Federico, con sorpresa dello stesso Pio IV che non nascose la sua contrarietà alla decisione e disapprovò il rigore ascetico del nipote.
Dopo un corso di esercizi spirituali, dettatigli dal padre gesuita Francesco Ribera, che in seguito scelse come suo confessore, Carlo ricevette l’ordinazione sacerdotale il 17 luglio 1563 nella chiesa di San Pietro in Montorio. Dedicò poi anche un po’ di tempo agli studi teologici sotto la guida dei padri gesuiti e si allenò nella predicazione. Intanto, oltre a svolgere con precisione il faticoso compito di collaboratore di Pio IV, si prodigò anche per il restauro di opere d’arte e per l’abbellimento di chiese e si interessò di archeologia cristiana. Inoltre, per sua ispirazione sorsero opere di assistenza come l’Ospizio per i mendicanti presso San Sisto sulla via Appia, l’Ospizio dei pazzi e la Casa Pia per il ricupero delle giovani sottratte alla strada del vizio e della degradazione. Redasse anche lo statuto del Monte di Pietà, allo scopo di trasformarlo in una istituzione benefica ancorata a principi di cristiana pietà.
Verso la fine di settembre o l’inizio di ottobre del 1563 giunse a Roma il primate del Portogallo, Bartolomeo de Martyribus, un domenicano di solida vita spirituale e deciso fautore della riforma della Chiesa. Il presule portoghese consegnò a Carlo un opuscolo manoscritto dal titolo Stimulus pastorum, dove illustrava la connessione tra virtù personali e interiori e virtù pubbliche e di governo, che avrebbero dovuto accompagnare l’azione pastorale di un vescovo. Egli lo lesse con attenzione e provvide alla pubblicazione dell’opuscolo.
Consacrato arcivescovo il 7 dicembre 1563, Carlo fu trattenuto a Roma per l’esame dei decreti del Concilio di Trento da sottomettere all’approvazione pontificia e avviarne l’applicazione. Ma egli inviò subito a Milano come suo vicario generale Nicolò Ormaneto, un ecclesiastico di esperienza pastorale e aperto alle istanze della riforma. Solo nell’estate del 1565, dopo reiterate insistenze e pressioni, Carlo ottenne il consenso di Pio IV di recarsi nella sua diocesi in ottemperanza al decreto tridentino che imponeva l’obbligo della residenza per i vescovi. Fece il suo solenne ingresso a Milano il 23 settembre e da quella data, salvo alcune impreviste assenze, si occupò della sua vasta arcidiocesi. Morì a Milano il 3 novembre 1584 all’età di 46 anni. Fu canonizzato da Paolo V nel 1610.
2. L’opera riformatrice
Una tabella allegata agli Acta Ecclesiae Mediolanensis, editi per la prima volta nel 1582, dà le seguenti cifre e indicazioni sulla diocesi di Milano negli ultimi anni di episcopato di Carlo. La popolazione contava 560.000 persone, di cui 180.000 in città. Esistevano 46 collegiate, 753 parrocchie, 1.421 chiese sussidiarie e 926 cappellanie. I membri del clero secolare raggiungevano il numero di 3.352 (ivi compresi circa 1.300 ecclesiastici non preti); i religiosi erano 2.114, dei quali 1.207 preti, con 106 chiese; le religiose erano 3.400, di cui 2.638 professe, 619 converse, 143 novizie, con 61 chiese. I pii sodalizi ammontavano a 886 così suddivisi: 556 confraternite del SS. Sacramento, 133 confraternite dei Disciplinati, 130 confraternite intitolate alla Beata Vergine Maria; 24 luoghi pii per l’assistenza a quasi 100.000 poveri; e 16 ospizi che raccoglievano 4.500 persone. Vi erano, infine, 16 case pie: 11 di vergini con 240 persone, 3 per l’assistenza a ragazze pericolanti, alle vedove e alle donne abbandonate dal marito, e 2 per il ricupero delle peccatrici pubbliche. Va anche ricordato che la provincia ecclesiastica, di cui Carlo era metropolita, comprendeva 15 diocesi distribuite nel Milanese, nel Piemonte e nella Liguria. Questi dati, presi da soli, rivelano l’immenso campo di lavoro affidato allo zelo apostolico di Carlo.
Quando egli prese possesso della chiesa milanese, essa aveva bisogno di riforma nelle istituzioni e nelle persone. Pur iniziando un’esperienza pastorale nuova, non si perdette d’animo. Munito di privilegi pontifici, Carlo si impegnò nell’attuazione della riforma e lottò per il ripristino delle immunità ecclesiastiche, facendo valere la sua autorità di vescovo. Tutta la sua laboriosa e dettagliata opera di legislatore, organizzatore e riformatore aveva di mira l’applicazione rigorosa dei decreti del Concilio di Trento nella diocesi e provincia ecclesiastica di Milano, in vista di un capillare riordinamento e rinnovamento della cura pastorale. L’eccezionale impegno apostolico e morale di Carlo va ravvisato nella sua funzione pastorale. Egli si fece santo perché seppe sviluppare nel massimo grado le virtualità della carità pastorale e consacrò tutte le sue energie di mente e di cuore al servizio dei suoi diocesani, facendosi tutto a tutti sull’esempio di Cristo, buon Pastore.
Carlo celebrò 6 concili provinciali e 11 sinodi diocesani, di cui il primo fu tenuto dal suo vicario generale Nicolò Ormaneto, ed emanò parecchi editti, istruzioni, ordinanze e altri provvedimenti, che riguardavano la vita del clero, la disciplina dei religiosi e delle religiose, la liturgia, il decoro del culto, l’amministrazione dei beni temporali, al fine di correggere gli abusi e di rivitalizzare la cura pastorale. La minuziosità delle prescrizioni giuridiche e la determinazione ferrea con cui Carlo ne esigette l’osservanza, trovavano una spiegazione nel fatto che l’arcivescovo puntava verso mete spirituali altissime, intese a favorire uno slancio di autenticità cristiana e di spiritualità in tutti i membri della sua diocesi.
3. La strategia pastorale
I già citati Acta Ecclesiae Mediolanensis consentono di seguire passo passo la meticolosa e innovativa strategia pastorale, che Carlo non si stancò di rivedere e di perfezionare, controllandone l’esecuzione in tutto il tempo in cui fu pastore a Milano. Egli divise la diocesi in 12 circoscrizioni ecclesiastiche, di cui 6 in città (le 6 «porte») corrispondenti più o meno ai quartieri cittadini, e 6 per la parte rurale (le 6 «regioni»). Le porte cittadine erano affidate a prefetti, mentre le regioni erano suddivise in tante pievi con a capo vicari foranei, scelti accuratamente tra le persone di sua fiducia. Ridusse le parrocchie cittadine di una trentina, ma ne istituì di nuove nelle campagne. Incaricò speciali visitatori di percorrere la diocesi per vigilare sull’attuazione delle sue disposizioni.
3.1. I collaboratori
Da buon organizzatore, Carlo non si limitò a emanare leggi e a dare una nuova ristrutturazione alla diocesi, ma scelse attentamente le persone che dovevano aiutarlo da vicino nell’esercizio della sua attività pastorale. Per questo si attorniò di una schiera di validi collaboratori. Nei primi anni vi erano più di cento persone, che conducevano vita comune con l’arcivescovo, fra segretari, addetti alla curia e domestici. A tutti veniva raccomandata una vita sobria e di pietà. Chi non si sentiva di ottemperare a queste raccomandazioni veniva licenziato. Quando era in sede, Carlo riuniva quasi ogni giorno i suoi più stretti collaboratori, esperti in scienze teologiche, storiche, liturgiche e giuridiche, per studiare insieme i problemi che man mano sorgevano e cercarne le possibili soluzioni. Anche nelle visite pastorali egli era accompagnato da consiglieri che all’occorrenza interpellava sul da farsi, prendendo nota di tutto ciò che aveva attinenza con l’assistenza materiale e l’animazione spirituale del suo popolo. Sollecitava pure la cooperazione delle nuove famiglie religiose, quali i Barnabiti, i Gesuiti, i Teatini, gli Oratoriani, i Somaschi e i Cappuccini, che diedero un contributo prezioso nell’educazione della gioventù e nell’assistenza spirituale del popolo.
3.2. Istituzione dei seminari e formazione del clero
Per rendere il clero più efficiente e disciplinato, Carlo provvide a un nuovo tipo di formazione con l’istituzione dei seminari. Nonostante le proteste del clero diocesano, affidò ai Gesuiti la direzione del primo seminario, fondato fin dal 1564 da Nicolò Ormaneto, permettendo che i seminaristi potessero frequentare le scuole in un loro collegio. In seguito, a causa di contrasti con i Padri della Compagnia, accusati di appropriarsi degli alunni più promettenti, l’arcivescovo demandò la direzione del seminario agli Oblati di Sant’Ambrogio, da lui fondati nel 1578 come organismo di preti diocesani a completa disposizione della diocesi. Egli istituì pure seminari minori o specializzati a Celana (Bergamo), a Santa Maria alla Noce presso Inverigo (Como), ad Arona (Novara) e a Pollegio (in Svizzera); seminari per le vocazioni adulte a Milano presso San Giovanni alle Case Rotte e presso la chiesa della Beata Vergine Maria alla Canonica; un pre-seminario per la formazione dei parroci di campagna e il Collegio Elvetico con capienza di 50 posti per i seminaristi provenienti dalla Svizzera, particolarmente dai Grigioni. Soppresse il clero decumano, ossia una parte del clero diocesano che nelle campagne si era costituito in gruppi con proprie regole in opposizione al clero cittadino stipendiato dal vescovo, per evitare rivalità e indiscipline. Riformò pure il capitolo dei canonici del Duomo con una revisione delle dignità e dei benefici.
La sua preoccupazione maggiore, però, fu quella di aiutare i preti a svolgere con competenza e con zelo il loro ministero pastorale e a migliorare la propria vita spirituale. Raccomandò loro l’obbligo di residenza e di tenere aggiornati i registri dello status animarum; li invitò a ritrovarsi periodicamente con i confratelli per pregare e discutere questioni pastorali; insistette perché indossassero abiti consoni con il servizio che dovevano prestare alle comunità ed evitassero i divertimenti pericolosi; indicò loro le letture da fare: ogni giorno la Sacra Scrittura, poi i documenti dei Concili e i Padri della Chiesa, specialmente sant’Ambrogio; non voleva che ci fossero preti senza impegni pastorali; promosse la preghiera pubblica dei preti con la recita del breviario, l’uniformità liturgica con l’imposizione del rito ambrosiano, la dignità e correttezza delle funzioni con il richiamo alla serietà e al decoro; procedette con la massima severità contro il concubinato e la vita scandalosa dei preti; non indietreggiò davanti ad alcune minacce e insubordinazioni, ma trattò sempre con clemenza quelli che si emendavano.
3.3. I religiosi
Con i conventi maschili e femminili, dove la disciplina religiosa lasciava a desiderare, Carlo intervenne con ordinanze, ammonizioni, scomuniche e anche soppressioni, come nei casi dei canonici della Scala e degli Umiliati: un Ordine che Pio V aveva messo d’autorità sotto il controllo vigile dell’arcivescovo. Per reazione, quattro Umiliati del convento di Brera organizzarono contro Carlo, mentre pregava nella sua cappella privata, l’attentato del 26 ottobre 1569, eseguito materialmente da Fra Girolamo Donato, detto Farina, da cui rimase indenne per miracolo. Questa e altre ritorsioni non distolsero l’arcivescovo dal suo proposito di riportare i consacrati a vivere nella fedeltà i loro impegni evangelici.
3.4. I laici
Analoga fu pure la metodologia pastorale di Carlo con i fedeli laici: una serie di prescrizioni minute, atte a favorire la pietà, la vita di grazia, la partecipazione al culto, le devozioni popolari, l’istruzione religiosa, e a bandire i giochi, i divertimenti, le parole e le vanità contrari ai comandamenti di Dio e ai precetti della Chiesa. Quando l’esortazione e la persuasione non bastavano a indurre a cambiare vita, egli ricorreva anche alle minacce e alle punizioni. Si impuntò in maniera quasi ostinata contro l’incontenibile smania di spassi che s’impadroniva dei suoi diocesani nel periodo di carnevale, che a Milano cominciava subito dopo il Natale, e non si arrestava con l’inizio della Quaresima. Il 7 marzo 1579 proibì con un editto, sotto pena di scomunica, le giostre e i divertimenti pubblici predisposti dal governatore, Ayamonte, per la prima domenica di Quaresima, suscitando il malcontento della gente, in particolare dei nobili e dei magistrati, che mal sopportavano l’austerità imposta dall’arcivescovo. Egli tuttavia persistette nel difendere il carattere sacro dei tempi liturgici, la loro durata e la modalità di viverli. In tal senso offrì al popolo occasioni di raduni pubblici con processioni penitenziali ed eucaristiche, con sfarzose cerimonie liturgiche e con traslazioni delle reliquie di santi. Senza perdere il loro primario significato religioso, queste manifestazioni rappresentavano anche una valvola di scarico per il popolo, avido di distrazioni per evadere dalla monotona e dura realtà quotidiana.
3.5. Le confraternite
Un favore speciale Carlo riservò alle confraternite e ai pii sodalizi dei laici, che si occupavano sia della formazione religiosa e morale dei loro soci e delle opere di carità, sia delle istituzioni culturali e sociali.
Tra le confraternite promosse o create da Carlo si possono ricordare la Compagnia del SS. Sacramento per il culto eucaristico, la Compagnia della Santa Croce per meditare sulla passione e morte di Gesù, la Compagnia della concordia per mettere pace nelle famiglie, la Confraternita dei Disciplinati per confortare i carcerati e i condannati a morte, la Compagnia della carità per aiutare gli indigenti, la Compagnia delle Vedove di sant’Anna, cui l’arcivescovo assegnò, fra le altre attività, anche quella catechistica.
Ma l’opera maggiormente potenziata da Carlo fu la Compagnia della Dottrina Cristiana, fondata nel 1536-1539 dal prete Castellino da Castello, per catechizzare [ ragazzi e le ragazze nelle domeniche e negli altri giorni festivi e per insegnare loro anche a leggere e a scrivere. L’arcivescovo diede una nuova struttura alla Compagnia e moltiplicò le scuole della Dottrina Cristiana, caldeggiandone l’erezione in tutte le parrocchie della diocesi, le estese anche agli adulti e ne affidò l’animazione alla Congregazione degli Oblati di sant’Ambrogio. Da questa Congregazione proveniva la maggior parte degli assistenti spirituali, visitatori e priori delle varie scuole, i quali formavano una specie di «ufficio catechistico diocesano» a struttura piramidale, facilmente controllabile nel suo vertice dall’arcivescovo. Verso la fine dell’episcopato di Carlo, la nuova catechesi contava nella diocesi di Milano 740 scuole su 753 parrocchie; gli scolari raggiungevano le 40.090 unità ed erano guidati da 273 ufficiali generali e 726 ufficiali particolari (scuole locali), e assistiti da 3.000 operai laici. La forza di coesione della Compagnia della Dottrina Cristiana era data dalla vita interiore dei suoi membri, dalla preghiera quotidiana mentale e vocale, dalla frequenza alla Messa, dalla buona azione giornaliera e dal servizio della carità mediante le opere di misericordia spirituali e corporali, e dalla recezione mensile dei sacramenti della confessione e comunione. I parroci, oltre l’obbligo generico di insegnare il catechismo, dovevano assumersi la responsabilità delle scuole della Dottrina Cristiana appartenenti alla loro giurisdizione e renderne conto sia a livello di priori sia in occasione della visita pastorale. Le scuole della Dottrina Cristiana hanno dato un contributo rilevante al processo di evangelizzazione e cristianizzazione della diocesi di Milano.
Pastore aperto al nuovo, Carlo ricorse anche alla collaborazione delle donne nella catechesi, pur subordinandole secondo il costume del tempo al controllo maschile. Angela Merici aveva fondato a Brescia nel 1535 la Compagnia di sant’Orsola: un’aggregazione di vergini secolari dedite all’educazione delle giovani e alle visite agli ammalati. Carlo, dopo aver dato alla Compagnia nuove regole, si servì di queste religiose nel secolo per la catechesi delle ragazze e per il rinnovamento della pastorale femminile nella sua diocesi, valorizzando allo scopo lo spirito della fondatrice, che esortava le sue discepole a educare le giovani «con amore e con mano soave e dolce, e non imperiosamente e con asprezza», cercando «di essere in tutto piacevoli» a imitazione di Cristo.
3.6. Istituzioni culturali e sociali
Tra le istituzioni culturali e sociali, legate all’operosità di Carlo, vi sono: la creazione dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia per studenti universitari poveri; la fondazione dell’università di Brera con le facoltà di lettere, filosofia e teologia; l’erezione presso quell’università del Collegio dei nobili; la dotazione di una sede migliore al Collegio per fanciulle nobili; voluto da Ludovica di Castro; l’avvio di una tipografia presso il seminario maggiore di Porta Orientale; la creazione dell’« Ospedale dei poveri mendicanti e vergognosi della Stella», una specie di albergo notturno per i vagabondi; la regolamentazione giuridica della casa del Soccorso, ideata da Isabella d’Aragona, per ospitare le spose maltrattate o quelle il cui marito era lontano. Carlo favorì o fondò pure istituzioni per il ricupero delle donne di malavita: l’Opera di santa Maria Egiziaca, l’Opera di santa Valeria e il Deposito o Ricovero di santa Maria Maddalena; ebbe cura delle orfane povere con gli Ospizi di santa Caterina e di santa Sofia; promosse la diffusione dei Monti di Pietà; protesse l’Istituto del patrocinio gratuito per i poveri; riformò il Pio Istituto di santa Corona per i malati indigenti; e, infine, durante la carestia del 1570 organizzò cucine popolari e l’importazione di generi alimentari di prima necessità.
3.7. Visite pastorali
Un aspetto originale dell’azione pastorale di Carlo fu la vicinanza alla sua gente. Docile verso le deliberazioni del Concilio di Trento, egli instaurò a Milano una prassi che era andata scomparendo: quella di risiedere in diocesi e quella di visitare la diocesi. Era persuaso che una efficiente cura pastorale richiedeva anche la conoscenza delle situazioni, la vigilanza della disciplina, l’assistenza nelle necessità, la condivisione nelle prove, la correzione degli abusi e l’incoraggiamento nella pratica delle virtù. In città Carlo non mancava di officiare le maggiori festività dell’anno, presiedeva le solenni manifestazioni religiose, distribuiva personalmente l’eucaristia ai fedeli, amministrava a tutti il sacramento della cresima. Compì per tre volte la visita pastorale dell’intera diocesi, lasciando un indelebile ricordo per la sua dedizione al servizio dei bisogni spirituali e materiali della gente. Gli spostamenti da una località all’altra avvenivano spesso a dorso di mulo. Si recò per sette volte nelle vallate svizzere, minacciate dall’infiltrazione delle idee protestanti. Consacrò più di cento chiese fra nuove e rifatte.
Le visite pastorali, anche quelle riservate alle parrocchie sperdute sulle montagne, erano preparate nei minimi particolari. L’arrivo dell’arcivescovo era preceduto qualche giorno prima da un suo delegato e da almeno due confessori, che dovevano preparare gli abitanti alla visita pastorale con la predicazione, la recezione dei sacramenti della confessione e comunione e la soluzione delle questioni da sistemare. La visita aveva inizio con la celebrazione solenne della Messa, durante la quale l’arcivescovo teneva un’omelia e distribuiva personalmente la comunione. Quindi amministrava il sacramento della cresima e si metteva a disposizione di tutti coloro che desideravano parlargli. Dopo aver ispezionato accuratamente gli edifici dedicati al culto, convocava i notabili del paese e li interrogava sul comportamento dei parrocchiani in chiesa; sulle modalità della loro assistenza alle funzioni religiose; se vi fossero nel territorio della parrocchia eretici, usurai, concubini, banditi e criminali; se era osservato da tutti il precetto della confessione e della comunione almeno una volta all’anno; se vi fossero persone che si rifiutavano di sostenere le opere di carità; se i genitori educassero bene i loro figli; se non vi fosse lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne; se la clausura fosse osservata nei monasteri e nei conventi; se le istituzioni di beneficenza fossero ben amministrate.
Inoltre, l’arcivescovo controllava resistenza, lo stato e l’aggiornamento dei quaranta libri, registri e repertori, che i parroci dovevano possedere e tener aggiornati sulla situazione delle loro parrocchie. Ma la sua principale attenzione era rivolta a promuovere l’istruzione religiosa, la frequenza dei sacramenti, convincimenti e comportamenti di fede nel popolo. Nessuna categoria di persone era esclusa dalle sue sollecitudini pastorali: dai preti ai religiosi e alle religiose, ai genitori, ai fanciulli e ai giovani, ai poveri, agli ammalati, ai peccatori, agli eretici. Si interessava anche dei problemi della vita sociale, indirizzando consigli ai datori di lavoro e ai lavoratori, perché in ogni ambiente venissero rispettati i principi cristiani. Pur essendo esigente, sapeva temperare la fermezza con la dolcezza per guadagnarsi il cuore delle persone. Oltre la cura pastorale della sua diocesi, Carlo ricevette in tempi diversi il compito di recarsi come visitatore apostolico nelle diocesi di Cremona, di Bergamo e di Brescia e in alcune zone della Svizzera di lingua tedesca per introdurvi la riforma tridentina. Egli si accinse a quest’impresa con lo zelo e la serietà di sempre, cercando di riportare ovunque l’ordine e un più vivo spirito religioso.
3.8. Iniziative di soccorso agli appestati
Nessun avvenimento, però, documenta meglio l’impegno pastorale di Carlo della «peste» del 1576. In tale circostanza egli decise di non allontanarsi da Milano e organizzò l’assistenza spirituale, caritativa e sociale per gli appestati e gli agonizzanti del lazzaretto di san Gregorio. Portò a quanti più poteva
11 conforto della sua presenza, della sua parola e dei sacramenti. Date le scarse conoscenze mediche che allora si avevano sulla causa e la modalità del sorgere e del diffondersi della peste, Carlo, persuaso che i flagelli pubblici fossero causati dai cattivi comportamenti degli uomini, ordinò che si facessero processioni penitenziali, non tenendo conto del pericolo che tali assembramenti potevano rappresentare nella propagazione del contagio.
Quando poi il governatore impose una forzata quarantena di clausura dei milanesi nelle proprie case, Carlo ordinò che le Messe venissero celebrate nelle piazze all’aperto, per offrire ai fedeli la possibilità di parteciparvi dai balconi e dalle finestre delle proprie case. Utilizzò, inoltre, le tende delle pareti del palazzo arcivescovile e propri indumenti personali per sovvenire ai bisogni dei poveri e provvide alla distribuzione di viveri. Terminata la peste, l’arcivescovo indisse processioni di ringraziamento con grande concorso popolare e fece erigere come ex voto la chiesa di san Sebastiano.
L’infierire della peste aveva accentuato il fervore di preghiera, di carità e di fede dei milanesi. Carlo s’illudeva che il popolo avrebbe continuato su questa strada. Dovette invece constatare con amarezza che anche i «buoni propositi hanno il fiato corto». Se ne rammaricò in un Memoriale del 1579, in cui rimproverava le infedeltà dei suoi diocesani e li supplicava di riconvertirsi. Ma, vedendo che le sue parole rimanevano inascoltate, si sforzò di riparare l’incoerenza della sua gente con una vita personale sempre più mortificata, penitente e sacrificata, che affinò il suo temperamento rigido e lo rese più tollerante e comprensivo verso gli altri.
3.9. Rapporto con le autorità civili
Nell’esercizio del suo ministero pastorale, Carlo era guidato da una concezione gerarchica dell’autorità. Egli riconosceva l’autorità suprema del Papa, ma era pure un convinto assertore dell’autorità del vescovo nella propria diocesi: quanti ricevevano da lui la facoltà di esercitare particolari compiti, dovevano rappresentarlo presso il popolo e ubbidirgli senza riserve. Spinto dal suo zelo pastorale egli esigeva che la vita dei suoi diocesani si svolgesse secondo le sue indicazioni e non temeva di entrare in conflitto con le stesse autorità civili per difendere quello che egli credeva rientrasse nei suoi diritti di responsabile e guida della vita cristiana del popolo. È quindi comprensibile che i rapporti tra l’arcivescovo e i governatori di Milano non siano sempre stati dei migliori. Se da un lato Carlo pretendeva che il braccio secolare assecondasse la sua riforma dei costumi, sostenendo che lo stato avrebbe potuto avvantaggiarsi dalla condotta di cittadini onesti e obbedienti alla Chiesa, dall’altro lato i governatori si sentivano sminuiti nella loro autorità di fronte a un arcivescovo che voleva avere i propri gendarmi, si ingeriva nella vita pubblica e reclamava il diritto di punire anche i semplici cittadini e di imprigionarli per inadempienze di carattere religioso. Ne nacque una estenuante diatriba giuridica con ricorsi a Roma e in Spagna, da dove giungevano inviti alla moderazione e duttilità, indispensabili per favorire rapporti di collaborazione tra chiesa e stato con reciproci vantaggi per entrambi.
4. Influsso della sua prassi pastorale
A parte qualche eccesso di intransigenza e di rigorismo e qualche sconfinamento di campo nella difesa di veri o presunti diritti, dovuti alla mentalità del tempo e alla psicologia di Carlo, ma soprattutto alla sua retta intenzione di rimediare alla decadente vita cristiana privata e pubblica dei suoi diocesani, grazie alla pubblicazione e diffusione degli Acta Ecclesiae Mediolanensis la strategia pastorale, da lui inaugurata, ebbe vasta eco in tutta l’Europa cattolica. Tracce delle sue intuizioni e delle sue riforme si ritrovano ancora nella prassi pastorale odierna. Carlo ebbe il merito di dare risalto e di realizzare la figura del vescovo-pastore dei tempi moderni, che sente l’urgenza di una saggia ristrutturazione della propria diocesi, al fine di garantire a tutti quegli aiuti spirituali che vanno dalla predicazione all’amministrazione dei sacramenti; di programmare il lavoro apostolico con la collaborazione di esperti, ecclesiastici e laici; di avvicinare la sua gente per conoscerne i bisogni e farsi conoscere; di aiutare i poveri, i malati, gli emarginati; di formare le nuove generazioni con una catechesi sistematica; di curare la formazione dei candidati al sacerdozio e l’aggiornamento dei preti; di suscitare la cooperazione dei religiosi e delle religiose; di promuovere un rinnovato annuncio del Vangelo, capace di ridare agli uomini quel «supplemento d’anima» che non è possibile ricevere senza il confronto assiduo con la parola di Dio.
Carlo Borromeo non si limitò a legiferare, istruire, correggere e animare, ma, come lampada posta sul candelabro, fu di esempio a tutti, consumando sé stesso in una vita di lavoro, di carità, di preghiera e di penitenza per la gloria di Dio e la salvezza del popolo, affidato alle sue cure pastorali.
Bibliografia
Fonti
Opere complete di S. Carlo Borromeo, in 5 voll., a cura di Sassi G. B., prefetto dell’Ambrosiana, Milano 1747; 2a ed., 2 voll., Augusta in B. 1758; Sala A., Documenti circa la vita e le gesta di S. Carlo Borromeo, 3 voll., Milano 1857-61; Acta Ecclesiae Mediolanensis, ed. Ratti A., vol. II-III, Milano 1890-92.
Studi
Bach H., Karl Borromàus. Leitbild fiir die Reform der Kirche nach dem Konzil von Trìent. Ein Gedenkbuch, Wienand Velag, Kòln 1984; Bendiscioli M., Dalla riforma alla Controriforma (= Saggi, 145), Il Mulino, Bologna 1974, pp. 107-182; Crivelli L., San Carlo. Santo per gli altri, Ancora, Milano 1984; Deroo A., San Carlo Borromeo. Il cardinale riformatore, Ancora, Milano 1965; Jedin H. - G. Alberigo, Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, Morcelliana, Brescia 1985, pp. 69-77; 99-167; Jedin H., Carlo Borromeo (= Bibliotheca Biographica, 2), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971; Mols R., S. Carlo Borromeo, iniziatore della pastorale moderna, Scuola Tipografia S. Benedetto, Viboldone 1961; Saba A. - A. Rimoldi, Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, santo, in «Bibliotheca Sanctorum», Istituto Giovanni XXIII, Roma 1963, vol. III, coll. 812-846; San Carlo e il suo tempo. Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte (Milano 21-26 Maggio 1984), Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1986, 2 voll.