CARITÀ
1. “Carità” è un termine tipico del vocabolario cristiano del quale bisogna mettere in luce la realtà profonda che intende esprimere, riscattandolo da alcune accezioni troppo ristrette o paternalistiche che si riscontrano nel linguaggio quotidiano (fare la carità, le opere di carità, ecc.). Come la fede e la speranza, anche la carità può essere meglio compresa a partire da esperienze umane fondamentali; nel caso della carità, a partire dalla capacità umana di ricevere e di donare amore. Per potersi realizzare, e sviluppare le sue potenzialità latenti, ogni uomo ha bisogno di essere e di sentirsi amato. E proprio dall’”essere amati” comincia per molte persone una vita nuova, mentre la mancanza di amore può condurre a pericolose involuzioni della personalità.
Possiamo ora cercare di chiarire il significato cristiano della carità. Essa designa anzitutto l’amore che discende da Dio e si espande sugli uomini. Tale gratuito amore si manifesta soprattutto nell’incarnazione di Gesù Cristo e nella sua vicenda di morte e di risurrezione. San Giovanni è, fra gli autori del NT, colui che ha espresso questa concezione con maggior insistenza e profondità, condensandola in alcune frasi incisive e pregnanti: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16); “L’amore è da Dio” (1 Gv 4,7); “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,8; cf anche 1 Gv 4,9.16); «Dio è amore» (1 Gv 4,8). Il fatto di essere stati amati da Dio in Cristo ci dischiude la possibilità di amare a nostra volta: “Carissimi, se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4,11).
Dovrebbero bastare queste citazioni per rettificare una mentalità abbastanza diffusa che riconduce il cristianesimo a un messaggio etico incentrato sull’amore al prossimo. Se così fosse, il cristianesimo dovrebbe essere pensato come una nobilissima esortazione in più nel mondo, ma non potrebbe essere buona novella. Esso invece è tale proprio perché annuncia che Dio si rivela e si comunica agli uomini come amore, e perché ci assicura che in tal modo ci viene donata la capacità divina di amare.
2. Non è solo san Giovanni a dire che la carità è anzitutto l’essere amati da Dio che fa sorgere in noi la possibilità di amare Dio e il prossimo. I temi veterotestamentari della elezione e del patto attestano infatti l’amore assolutamente gratuito di Iahvè per Israele, un amore che i profeti hanno espresso con le forti e delicate immagini della vita coniugale e familiare (Or 2,19-20; Is 2,2; 49,15-16; 54,6-8; Ger 2,2; Ez 16; ecc.). Nei Sinottici Gesù parla dell’amore di Dio verso tutte le sue creature (Mt 5,45; 6,25-32), racconta parabole che attestano l’amore perdonante del Padre (Le 15,11-32), e dimostra questo amore con la sua concreta azione verso i peccatori, gli ammalati, i poveri e gli emarginati.
San Paolo ravvisa nella morte e risurrezione di Cristo la prova suprema di amore di Dio verso l’umanità peccatrice (Rm 5,8; 8,3139; Ef 1,4-11; ecc.). Secondo l’apostolo “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5; cf anche Rm 8,14-16 e Gal 4,6). Lo Spirito ci rende capaci di rapporti filiali con Dio. Esso inoltre ci fa liberi, cioè capaci di “camminare secondo lo Spirito” (Gal 5,16), e di amare il prossimo: “Mediante la carità mettetevi al servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,13s; cf anche Ef 5,1-2).
3. Noi possiamo e dobbiamo amare, essendo stati amati da Dio e gratificati del dono dello Spirito. Amare Dio anzitutto. Il Deuteronomio richiede ad Israele un amore sincero verso Dio consistente nel riconoscimento pratico di Iahvè come unico Signore, facendo la sua volontà e osservando i suoi comandamenti (Dt 6,4-5; 10,12-13; ecc.). Alcuni testi dell’AT insistono sulla necessità che Dio intervenga sul cuore dell’uomo affinché possa amare Iahvè come si deve (Dt 30,6; Ger 31,31-33; Ez 36,25-28). L’amore di Israele verso Dio viene espresso soprattutto col vocabolario della fede che comporta fiducioso abbandono al Dio dell’alleanza.
Gesù accoglie l’insegnamento di Dt 6,5 sul primo (Afe) e più importante (Mt) comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente (cf Mc 12,28-34 e par.). San Paolo esprime solitamente la risposta umana “al Dio dell’amore e della pace” (2 Cor 13,11) col termine → fede. Raramente parla espressamente di amore verso Dio (Rm 8,28; 1 Cor 2,9; 8,3). È risaputo però che per Paolo la fede autentica comporta l’amore trattandosi di un rapporto filiale di fiducia e di abbandono. Anche san Giovanni predilige il vocabolario della fede per caratterizzare la relazione fondamentale dell’uomo verso Dio e verso Cristo. Non mancano però i testi nei quali si parla dell’amore verso Cristo (Gv 10,14-15; 14,2123; 15,9.13-14; 16,27).
4. I testi più noti del NT sono quelli che inculcano l’amore verso il prossimo. Il cristianesimo viene appunto presentato come la religione dell’amore, della fraternità. Ciò è vero a patto che si inserisca il precetto dell’amore al prossimo nella dinamica dell’amore divino. Altrimenti il cristianesimo resta soltanto un’etica. Gesù congiunge strettamente amor di Dio e amore del prossimo (cf Mc 12,28-34 e par.). Il giudaismo contemporaneo già conosceva la sintesi dei due amori, “ma nessuno prima di Gesù aveva equiparato con tanta lucidità e forza i due comandamenti richiamando i testi di Dt (6,5) e Lv (19,18) e interpretandoli come espressione dell’orientamento fondamentale da assumere nei confronti del regno che bussa alle porte dell’esistenza umana e della storia” (G. Barbaglio 1977, 104). Così pure era già nota la “regola d’oro”, ma era espressa al negativo, mentre Gesù la formula al positivo: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo ad essi; questa è infatti la legge e i profeti” (Mt 7,12; cf Lc 6,31). Già la legislazione di Israele aveva superato una comprensione puramente etnica del prossimo, aprendosi allo straniero dimorante in Israele (cf Lv 19,34). Gesù però rompe decisamente ogni particolarismo religioso ed etnico, invitando a farsi prossimo di chiunque giace nel bisogno (cf Lc 10,29-37). L’amore si estende anche ai nemici (Lc 6,27-36 e Mt 5,38-48).
Per san Paolo la risposta per eccellenza dell’uomo a Dio è la fede con la quale si accoglie la giustificazione (cf Rm 4,16). E tuttavia, in Cristo conta “la fede che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6), con la quale ci si mette gli uni al servizio degli altri (Gal 5,14), non avendo altro debito se non quello di un amore vicendevole in cui si riassume tutta la legge (Rm 13,8-10). Non dobbiamo però fraintendere l’insegnamento dell’apostolo: per lui l’imperativo etico dell’amore al prossimo si fonda sulla carità, frutto dello Spirito Santo (cf Rm 5,5; Gal 5,22). La carità inoltre, sempre secondo Paolo, dev’essere ciò che anima i rapporti all’interno della Chiesa (cf 1 Cor 8,1-2; Gal 5,13; ecc.). Fra i vari doni dello Spirito (carismi) la carità è la via migliore, senza la quale parole e azioni eccellenti non sono nulla (cf 1 Cor 13). La carità appartiene, con la fede e la speranza, alle cose che rimangono, “ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor 13,13). Degli scritti di san Giovanni già abbiamo parlato (n. 1). È evidente in essi la dinamica discendente dell’amore, come risulta, ad es., da 1 Gv 4,11: «Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (cf anche 1 Gv 3,16s; 4,7.8). Ecco perché Gesù parla di un “comandamento nuovo” secondo il quale i suoi discepoli devono amarsi come egli li ha amati (Gv 13,34). La novità sta in quel “come”: bisogna amare il prossimo come e perché Cristo ci ha amati (cf anche Gv 17,11.21-23). Ne deriva, secondo la parola di Gesù, che “tutti sapranno che siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). In conclusione: per Giovanni la vita cristiana si compendia nella fede in Cristo e nel fraterno e operoso amore vicendevole (1 Gv 3,23).
5. Sant’Agostino ha mirabilmente spiegato che nella C., che illustra le azioni di Dio culminanti in Cristo, tutto dev’essere fatto convergere nell’amore di Dio verso di noi, e nell’amore nostro verso Dio, ordinando l’esposizione secondo un crescendo che, partendo dalla fede e passando attraverso la speranza, arrivi alla carità (De Catechizandis rudibus, 8). Fino a che punto, nel corso dei secoli, la C. sia stata fedele a questa prospettiva è difficile dirlo. Si ha l’impressione che, soprattutto nell’epoca moderna, ci sia stata nella C. una prevalente preoccupazione dottrinale-contenutistica per quanto concerne la fede, e precettistica (il → Decalogo) per quanto concerne la morale, non riservando sempre al “primato della carità” la posizione che gli compete. Le recenti indicazioni del magistero assegnano grande importanza al tema della carità (CT 5; RdC 30; 47-48).
6. La carità, non disgiunta dalla fede e dalla speranza, fa comprendere a fondo la vera natura del cristianesimo. Già abbiamo ricordato la diffusa tendenza a interpretare i Vangeli come un messaggio morale, come un insegnamento su ciò che è bene e male nel comportamento umano, anziché come un “vangelo”, annuncio della misericordia, del perdono e della grazia di Dio. Ne deriva che Gesù diventa “maestro di buoni costumi o, al massimo, un esempio da imitare, ma non il Salvatore, dalla cui opera dipende il nostro destino” (Non di solo pane, 237). Certamente la morale fa parte del messaggio di Gesù, “ma non ne costituisce il nocciolo centrale. Costituisce piuttosto l’illustrazione delle conseguenze concrete che l’annuncio del regno deve produrre nelle varie situazioni della vita” (ibid., 59). Proclamando il regno, Gesù “annuncia da parte di Dio un’inaudita volontà di perdono e riconciliazione, di amicizia e gratuita familiarità, una solidarietà e una presenza nuova di Dio accanto agli uomini” (ibid., 65). È quanto mai necessario che la C. conservi al messaggio cristiano la sua caratteristica di buona novella da accogliere nella fede e da vivere nell'amore. In altre parole: l’autentica presentazione del cristianesimo è di natura teologale prima che morale. Per questo sarà necessario mostrare l’intima connessione fra la fede, la speranza e la carità, alle quali già alcuni testi del NT riconducono la vita cristiana (1 Ts 1,3; 5,8; 1 Cor 13,13; Col 1,4-5; Gal 5,5-6).
7. Fede, speranza e carità si implicano vicendevolmente, e costituiscono “un’indivisa realtà vitale” (J. Alfaro, Problematica teologica attuale della fede, in «Teologia» 6 [1981] 223): esse infatti si riferiscono a un unico evento che è l’intervento salvifico di Dio nella storia culminante in Cristo. Tale evento è contemporaneamente la rivelazione definitiva di Dio, la promessa della salvezza ventura, la suprema comunicazione A’amore che Dio fa di sé all’uomo. Alla rivelazione corrisponde da parte dell’uomo la fede come fiducia (credo in) e come accettazione del messaggio. Alla promessa corrisponde la speranza come attesa della salvezza ventura e fiducia sulla base del già realizzato in Cristo. All’amore di Dio corrisponde la donazione dell’uomo a Dio nell’amore fiducioso. “È quindi la fiducia ad accomunare vitalmente la fede, speranza e carità, cioè proprio quella dimensione dell’esistenza cristiana che si caratterizza come riconoscimento della gratuità assoluta della rivelazione, promessa e autodonazione di Dio in Cristo, della grazia come grazia. Fede, speranza e carità mutuamente immanenti, come aspetti diversi di un solo e identico atteggiamento, che in fondo è amore” (J. Alfaro, a.c., 224).
8. Se l’amore-carità è la sostanza profonda del cristianesimo, bisognerà ricondurre ad esso tutti i suoi elementi costitutivi. Ad esempio, la redenzione è essenzialmente un fatto di amore, i sacramenti sono segni efficaci dell’amore di Dio in Cristo e nello Spirito, la preghiera è un rapporto di amicizia fra l’uomo e Dio (cf Teresa d’Avila, Vita, 8,5). Il peccato è anche sempre rifiuto dell’amore. Bisogna apprendere dai mistici che l’approdo di ogni vita spirituale è l’amore sino al punto che “tutte le azioni sono amore”, come dice san Giovanni della Croce (Cantico B, 27,8). Norme e precetti morali sono strumenti per discernere la volontà di Dio e attuare il precetto dell’amore (cf Non di solo pane, 239-242).
9. La carità è anche la chiave interpretativa più profonda della → Chiesa. Nel suo aspetto misterico la Chiesa è comunione degli uomini con le persone della Trinità, e degli uomini fra di loro, e dunque mistero d’amore accolto e donato. Nel suo aspetto istituzionale, che comprende l’annuncio della parola, la celebrazione dei sacramenti, i vari ministeri e carismi, dovrebbe trasparire che si tratta di atti d’amore che la Chiesa compie affinché si realizzi la comunione degli uomini con Dio e fra loro. È infatti la carità che edifica (cf 1 Cor 8,2) e tutti i carismi, per poter essere autentici, devono essere permeati dalla carità (cf 1 Cor 13). Lo splendido “inno alla carità” di 1 Cor 13 dischiuse a Teresa di Lisieux il suo posto nella Chiesa. “Capii — scrive la santa — che solo l’amore fa agire le membra della Chiesa, che, se l’amore si spegnesse, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue... Capii che l’amore abbraccia tutte le vocazioni, che l’amore è tutto” (S. Teresa di G. B., Gli Scritti, Roma, Ed. Carmelitani scalzi, 1970, 237-238).
Bibliografia
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Franco Ardusso